[CONCLUSA] Scheiß Liebe

Amore di Merda

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    Ciò che ti sta rendendo felice,
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    Titolo: Scheiß Liebe - Amore di Merda
    Autore: Ich.
    Genere: Romantico, Mlinconico, Erotico, Commedia
    Raiting: PG-13 // R
    Avvisi: Angst, OC, Songfic (Accennato), Lime
    Data pubblicazione: 21.05.2009 // 16.02.2009 @Das Erste - @Die Besten

    Betati: 9 capitoli / 45 capitoli.
    Aggiornato il 10 Novembre 2010.

    Capitoli: 1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 | 10 | 11 | 12 | 13 | 14 | 15 | 16 | 17 | 18 | 19 | 20 | 21 | 22 | 23 | 24 | 25 | 26 | 27.1 - 27.2 | 28 | 29 | 30 | 31 | 32 | 33.1 - 33.2 | 34.1 - 34.2 | 35 | 36 | 37 | 38 | 39 | 40 | 41 | 42 | 43.1 - 43.2 - 43.3 | 44 | 45


    Note: Scrivo questa nota dopo aver scritto tutta la storia, cercando di far sembrare Scheiß Liebe un minimo più decente di quello che è.
    Ho scritto questa Fiction molto tempo fa, e l'ho postata in mille e mille forum, ottenendo, tra l'altro, molto successo. Rileggendola ora, sinceramente, non riesco a comprendere come qualcuno abbia potuto solo cominciarla, ma questa Fiction è stata la mia prima storia leggibile: è un po' il mio inizio: più il mio passato.
    Più di tutto Scheiß Liebe è stata un'esperimento, e tante cose risultano così innocentemente bambinesche che, col senno di poi, mi rendo conto siano solo ridicole.
    Con tutto ciò non voglio screditare la storia, ma avvisare il lettore; vorrei evitare discussioni sulla Rain descritta tra queste parole: sappiate che non esiste più da tempo.
    Avevo quattordici anni quando ho cominciato a scrivere, e delle lacune grammaticali spaventose. Avrei potuto far finta di non aver mai scritto questa storia, come ho fatto con molte mie Shots, ma non l'ho fatto.
    Scheiß Liebe racconta di una vecchia me che non c'è più e che, nonostante tutto, desidero non dimenticare e tenere nel cuore.


    Questa Fiction è stata scritta prima dell'uscita di Humanoid. Le incongruenze sono dovute esclusivamente a questo (:




    Creative Commons License
    Scheiß Liebe by Rain is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

    Vietato copiare!







    image







    PREFAZIONE


    Ci sono cose nella vita che per delle persone diventano intoccabili. Sacre. Che custodiamo gelosamente in un angolo della nostra stanza: il ricordo di un genitore che non c’è più, il nostro pupazzo preferito - magari regalatoci dalla nonna - il Cd della nostra amata Band, un pezzo di carta dove qualcuno di molto importante ci ha detto addio.
    C’è gente, invece, che, come me, custodisce gelosamente un sentimento. In un punto del suo cuore; in un luogo lontano e buio dove nessuno può vedere, sono rimasti i frammenti di quello che è stato e che ora non è più.
    Ci sono persone che si credono forti, perché non hanno niente di materiale da proteggere; che tengono tutto ciò che è loro caro, dentro di sé, e lo nascondono. Io sono una di queste persone.
    Tutto quello che ho da proteggere è già cenere. Nessuno è il grado di distruggere qualcosa che è già caduto in mille pezzi. Nessuno è più in grado di toccarmi.


    Nessuno…




    Capitolo 1;
    Addio





    Quella mattina era una qualunque. Non c’era nulla di diverso dal solito, eccezion fatta, per la ragazza che giaceva accanto a me. Diversa da quella del giorno prima, e di quello prima ancora. Non ricordavo nemmeno che fosse bionda, come invece constatavo in quel momento.
    Mi soffermai a guardarla solo per qualche secondo: corpo snello, gambe lunghe, seno prosperoso. Aspetto Standard delle ragazze che avevano l’occasione di allietare il mio letto. Aspetto opaco e anonimo dei loro volti bellissimi e finti.
    Le accarezzai la schiena scoperta, svegliandola dolcemente. La calma prima della tempesta, così si dice, no?
    Mi mostrò dei vivaci occhi verdi, ancora leggermente contornati da della matita colorata, forse azzurra. «Come ti chiami?» le chiesi. Era sempre la stessa domanda. La stessa domanda vuota. Alle ragazze piaceva che la ponessi loro. Il nome. Quale mistico mistero dietro a poche lettere? Quale strana appartenenza ad un’altra persona solo conoscendone l’appellativo? Patetiche credenze romantiche. Me lo sarei scordato qualche minuto dopo.
    Mi sorrise, scoprendo quei denti bianchi che avevano torturato il lobo del mio orecchio durante tutta la notte. «Carlie», rispose.
    Continuai ad accarezzarle la schiena, facendola rabbrividire. Sapevo che le piaceva. Piaceva a tutte. Erano tutte uguali.
    «Pensavo te ne saresti andato subito», azzardò, quasi soddisfatta di se stessa; come se, grazie alla sua bellezza, mi avesse legato a sé. Illusa.
    «Saluto sempre prima di andarmene», chiarii immediatamente, mantenendo un tono persuasivo e avvicinandomi al suo viso. «Addio, Carlie», soffiai, mentre vedevo nei suoi occhi la sua voglia di avvicinarsi a me e di assaporare le mie labbra, che fissava con insistenza, con bramosia. Ma non le avrebbe avute. No, nemmeno questa fantomatica Carlie si sarebbe impossessata di esse. No, nemmeno lei; chiunque fosse.
    Le feci scorrere delicatamente un dito dal basso ventre fino al seno, soffermandomi a torturarle l’ombelico, mentre vedevo, evidente, la sua eccitazione crescere. Cercò di tirarmi verso di se per raggiungermi più in fretta, per rimpossessarsi di me, ma fu un tentativo inutile.
    Una notte con me, ma tutta la vita senza: questo era il prezzo.
    Qualche secondo dopo, fui in piedi davanti al letto, pronto ad uscire. Ancora seminudo, osservai un’ultima volta quella Carlie rimasta spiazzata, inginocchiata, sul letto. La mia espressione apatica. Nessuna traccia di dispiacere; solo indifferenza, per una ragazza di cui mi sarei dimenticato in fretta, come mi ero dimenticato di tutte le altre.
    Senza aspettare ulteriormente, aprii la porta e me ne andai.
    «Addio Tom…», la sentii sussurrare, poi, tutto fu coperto dal fruscio della mia maglia oversize che tornava a coprire il mio corpo.



    «Sei stato con quella ragazza?» La voce di Bill mi raggiunse indagatrice.
    Eravamo sul Tour Bus solo da qualche minuto e già cominciava l'interrogatorio.
    «Si», risposi distrattamente, mentre guardavo Parigi sfrecciarmi davanti agli occhi. Non riconoscevo nessuno di quei posti, non ne avevo mai visitato nemmeno uno. Le strade disseminate di cartelli stradali dagli accenti illeggibili, le costruzioni tipiche francesi, la Torre Eiffel, laggiù, a sovrastare la città: avevo mai visto davvero qualcosa di tutto ciò?
    «Lo immaginavo». Percepii una nota di malinconia nelle parole di Bill. Nonostante tutti gli anni passati, ancora si ostinava a essere contrario al mio modo di fare, al mio essere un pezzo di ghiaccio. Un pezzo di ghiaccio che non ero. «Le hai almeno chiesto come si chiamava?».
    Era questo il vero motivo per cui chiedevo i nomi prima di andarmene: per Bill. Almeno in questa piccola cosa non desideravo deluderlo. «Si, fratellino», risposi, alzando gli occhi al cielo.
    «E quindi?» incalzò.
    Cercai di ricordarmi il nome di quella ragazza, ma, per quanto mi sforzai, non riuscii a ricondurre la mia mente a null’altro che a un'iniziale. Carolina? Cassandra? «Qualcosa con la C», mugugnai.
    Bill sbuffò. «Carlie», disse.
    «Ecco! Carlie! Visto? Mi è venuto in mente!» scherzai. Bill roteò gli occhi accennando un sorriso e lasciò perdere.
    Mio fratello conosceva sempre meglio di me le ragazze con cui passavo la notte; era sempre lui ad avvicinarle per primo. Io mi limitavo ad unirmi se decidevo che la ragazza in questione era di mio gradimento e poteva soddisfarmi ed essere soddisfatta, altrimenti, non ci tentavo neppure. Potevo avere chi volevo. Bastava guardarle. Bastava spogliarle con gli occhi leccando quel piercing che ornava il mio labbro inferiore. Bastava un niente; quel niente che poi avrebbero ottenuto da me.
    «Dove abbiamo il Soundcheck?», chiesi.
    «A Marsiglia», rispose.
    «Ancora in Francia?». Mi scocciava stare nello stesso stato per troppo tempo, e, parlando sinceramente, in Francia c’eravamo quattro volte su tre. Le francesi erano talmente abituate ad averci tutti per loro, che ero certo di non averne mai incontrata una che non sapesse parlare perfettamente Tedesco.
    Bill annuì. «Però dopo domani siamo in Italia», disse entusiasta. Lui adorava i concerti in Italia e, anch'io, ad essere sincero, non ero da meno. L’Italia era calda. «Quest’anno abbiamo quattro date», continuò sorridente.
    «Magnifico», mi limitai a ribattere, ma ero sincero.




    Capitolo 2;
    Scommessa



    Le giornate passarono tutte uguali. Monotone.
    Il live a Marsiglia fu indubbiamente molto bello: le fan furono magnifiche, l’atmosfera veramente carica e Bill cantò divinamente -per quanto il gracchiare di Bill si potesse definire “divino”-. E, ora, mi ritrovavo annoiato e spossato. Quando l’adrenalina del palco, delle urla, del sudore, scompaiono, l’unica cosa che ti resta è noia e malessere. Come con una droga.
    «Cos’è quella faccia?», mi chiese Georg, mentre il Tour Bus si muoveva a velocità sostenuta per un’auto strada.
    «E’ la mia», risposi.
    «Allora sei proprio brutto», mi canzonò.
    «Questa è vecchia Georg, dovresti rivedere il tuo repertorio», lo ammonii.
    «Ma dai! Su con il morale! Siamo quasi arrivati in Italia!» esclamò entusiasta dandomi una pacca non esattamente indolore sulla schiena. «Dovresti essere contento!» continuò. Aveva aperto bocca da due secondi e già faceva un casino madornale. Probabilmente era per questo che, in un qualche modo, lo adoravo: il silenzio mi uccideva.
    «Sarei più contento se tu non mi avessi appena fatto un livido enorme sulla schiena», mi lamentai.
    «Che femminuccia», ribatté lui.
    Lo guardai storto. «Se non vuoi prenderle, ti conviene correre», lo avverti.
    «Voi due, smettetela», brontolò Gustav seduto poco più lontano. «Siete peggio dei bambini dell’asilo».
    «Ma hai visto che faccia ha su?», chiese Georg oltraggiato. «Ciao, sono un drogato, avete un po’ di roba da vendermi?» mi prese in giro imitando la mia voce.
    «Ti ripeto che è la mia faccia», dissi sbuffando, senza riuscire a trattenere un sorriso. «E poi ti sei visto la tua?», continuai. «Ciao, sono riccioli d’oro, ma i riccioli non li ho più perché sto meglio liscia», lo presi in giro, emulando la voce di una bambina e arricciando su un dito una treccina.
    Sentii Bill scoppiare a ridere mentre superava la soglia della Zona Lounge. «Oddio, che state combinando qui?», domandò ridendo. «Me ne vado via per cinque secondi e mi perdo le battute più belle!» si lamentò.
    «Oh beh, non ti sei perso niente di particolarmente interessante», gli assicurò Gustav, senza però nascondere il sorriso divertito.
    Bill, intanto, si siese di fronte a me. «Che bello si va al mare!», esclamò.
    «Quale mare?», chiedemmo in coro io e le due G.
    «Ah, giusto, non ve l’ho detto. Benjamin ha detto che tra il concerto di Roma, il secondo in programma, e quello di Trieste, avremo tre giorni liberi, e, dato che saremo lì, ci ha concesso di fare un salto in spiaggia», spiegò entusiasta.
    «Scusa, ripeti. Chi ci ha dato il premesso?», chiese Georg incredulo.
    «Benjamin», ripeté sorridente Bill.
    «Impossibile», sentenziammo, nuovamente in sincronia, noi tre. «Ben?», abbreviai con tono ironico. «Ben ci lascia addirittura 3 giorni per farci i cavoli nostri?».
    Bill annuì, ma io continuai ad essere poco convinto. Benjamin non ci lasciava mai senza nulla da fare; di solito ci riempiva di Interviste, apparizioni TV, ci portava a dei Meet&Great o a delle promozioni per il nuovo album. Giorno libero equivaleva a una bestemmia.
    «Dove sta la fregatura?», chiesi infine. Doveva esserci la fregatura.
    Bill sogghignò soddisfatto da chissà cosa. «La fregatura è che c’è il divieto assoluto di vedere qualsiasi tipo di ragazza», rispose calmo.
    Rimasi a bocca aperta. «Ma così…».
    Non mi lasciò il tempo di concludere la frase. «Infatti. Così, la fregatura è solo affar tuo, dato che noi non avremmo visto nessuna comunque», disse, sorridendo beffardo.
    Lo fulminai con lo sguardo, alzando, poi, le spalle. «Non morirò».
    «Non resisterai», ribatté lui, lanciandomi esplicitamente una sfida.
    «Vuoi scommettere, per caso?».
    «Se perdi, sarai obbligato a trattare bene le ragazze», mi avvisò. Avevo davvero un fratellino astuto, dovevo ammetterlo. Astuto quanto ingenuo. Non aveva idea del male che mi faceva.
    «Mi unisco anch’io», intervenne Georg. «Sono con Bill», aggiunse.
    «Che idioti», mugugnò Gustav. «Con Bill», terminò, talmente a bassa voce che quasi non lo sentimmo.
    Bill sorrise compiaciuto. «Accetti?», mi chiese, infine.
    «Certo. Ma se vinco, mi lascerai per il resto della vita campo libero con le ragazze», ribattei sicuro.
    Bill si morse un labbro.
    «Accetti?». Questa volta posi io la domanda a lui.
    «Accetto».




    --------------------------------------

    Di nuovo io
    Allora, ho postato due capitoli, perchè sono essenzialmente corti, e uno solo non vi poteva dare l'idea dell'inizio della storia.
    In realtà, più avanti i capitoli saranno lunghi almeno il doppio, ma nei primi tempi stentavo a scrivere. Stavo ancora riordinando le idee *-*
    Spero che l'inizio vi sia piaciuto e che vogliate il continuo! Aspetto commenti ;)
    (Aggiungerò al più presto un montaggio con i personaggi, all'inizio =))


    Ah, un'altra cosa xD
    Per la cronaca, ho scelto Benjamin Ebel, al posto di David, solo per cambiare un pò ù___ù
    Non si vede molto in effetti, nella storia. Probabilmente rispunterà due o tre volte, poi il resto verrà affidato a Capo-David, che li seguirà dappertutto.




    Edited by .Nightmare; - 10/11/2010, 18:13
     
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  2. (pazzah)
     
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    CITAZIONE
    «E poi ti sei visto la tua?» Continuai. «Ciao, sono riccioli d’oro, ma i riccioli non ce li ho più perché sto meglio liscia» Dissi con la voce da bambina emulandolo e arricciando una treccina.

    Bwahauahuahaua continua.
    Scrivi davvero beneee.. qua siete tutte più brave di meeeee,, uffaaaa
    Baciooo <3
     
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  3. «Lella-TH;
     
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    Già mi piace!
    Scrivi benissimooo!
    Postaa!
     
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  4. •Jumbì
     
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    Ma...ma...ma è stupenda *O*
    E' davvero uaaaaao *w*
    Considerando che sono solo due capitoli... mi hai sconvolta xD
    Quiiiindi ora mi torturerò le mie povere unghie, aspettando il prossimo chappy
     
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    Capitolo 3;
    Gelosia



    Il primo concerto fu al sud d’Italia. Palermo, o qualcosa del genere. Fu assolutamente magnifico. Non eravamo mai andati in quel luogo a suonare e, lo dovetti ammettere, avevamo fatto male. Le fan furono fantastiche. Eravamo riusciti a riempire un palazzetto di quindicimila persone e, glielo avevamo visto negli occhi, ognuno di loro era stato pieno di gioia nell'averci lì, nell'aver avuto, forse anche per la prima volta, la possibilità di vederci, di ascoltare la nostra musica dal vivo, di sentire le emozioni che solo un concerto è in grado di donare. Avevamo sentito chiara e tonda la loro emozione sulla pelle.
    Ovviamente, io mi attenni alla scommessa e non filtrai con nessuna ragazza.
    La mattina dopo, ripartimmo per Roma, il secondo concerto in programma. Ci eravamo già stati nel Tour precedente, ma ogni volta era diverso. Adoravo suonare live. Era l’unica cosa che mi faceva sentire vivo.
    Come promesso da Benjamin, i giorni successivi, avemmo tutto il tempo a nostra disposizione, e, per la prima volta, decisi di addentrarmi per le stradine di Roma in incognito. Non posso dire di averla visitata quel giorno - non sapevo il nome di nessuno dei monumenti che avevo visto -, ma era comunque la prima volta che vedevo realmente una città. Che avevo il desiderio di vederla.
    L’apprezzai.
    Abituato alla moderna Berlino, l’aria di antichità che alleggiava tra quelle case vecchio stile, incastrate in vicoli stretti, dai mattoni visibili, mi piacque più di quanto avrei potuto aspettarmi. I bambini che giocavano tra di loro in cortili nascosti, le strade fatte da ciottoli, il via vai allegro della gente che si beava quel sole incandescente…
    Il giorno dopo, andai al mare con Bill e Georg. Gustav aveva voluto dedicarsi ad un po’ di sano passeggio per chissà quale parco.
    Erano ancora i primi giorni di primavera, ma faceva davvero caldo in quel luogo – almeno per i nostri standard -. C’era già un sacco di gente in spiaggia e, nemmeno lì, potemmo evitare di camuffarci almeno un po’. Ci posizionammo sotto un ombrellone a spicchi blu e bianchi, in un punto più ombreggiato della spiaggia, cercando di stare meno in vista possibile.
    Come anticipato, c’erano un sacco di persone; ma quello che mi dava fastidio era che era PIENO di ragazze in bikini. Insomma, era appena Aprile! Come facevano ad essere già così abbronzate e snelle?!
    Devo ammettere che fu davvero una tortura starsene lì a guardare.
    Una di loro si avvicinò anche, ad un certo punto. Il pallone, con cui stava giocando con delle sue amiche, era rotolato verso di noi, e lei si era avvicinata per recuperarlo. C’era stato un momento interminabile, durante il quale i nostri sguardi si erano incrociati, e, per un momento, avevo avuto paura che mi avesse riconosciuto, ma, dopo aver recuperato il pallone, era tornata indietro senza più voltarsi a guardarmi.
    Mora, occhi chiari con un Bikini bianco. Lo facevano forse apposta?
    «Animale», mi prese in giro Bill, mentre leccava allegramente un ghiacciolo alla Coca Cola.
    «Non ho fatto niente», mi difesi.
    «Lo farai», ridacchiò lui.
    Pensava di avere già la vittoria in pugno. Gli avrei dimostrato che si sbagliava. Non ero affatto un animale, sapevo controllarmi, e bene.
    Mi alzai irritato. «Vado a fare un giro», annunciai.
    Bill mi lanciò un’occhiata che lasciava intendere che mi avrebbe controllato e continuò a succhiare tranquillo il ghiacciolo, che diventava bianco, al passare della sua bocca.
    Alzai gli occhi al cielo e mi allontanai.
    Mi occorsero meno di venti metri per rendermi conto che c’erano sempre meno persone. Ancora qualche metro più in là, la spiaggia era completamente vuota. Sconcertato, mi voltai indietro.
    «Bastardo!» esclamai.
    Il pezzo di spiaggia dove ci eravamo posizionati era quello più affollato: l’aveva fatto apposta.
    «Ah, allora è così?! Vuoi giocare sporco?» E allora sarebbe incominciata la guerra.
    Mi chiedevo se davvero Bill tenesse a questa storia come sosteneva o se, per lui, fosse solo un modo per irritarmi. In verità, nemmeno a me piaceva così tanto il mio comportamento; non lo facevo nemmeno volutamente. Era così e basta. E la gente aveva smesso di lamentarsi, perché credeva fossi così da sempre. Ma Bill sapeva bene che non era vero. Rivoleva indietro il vecchio me. Un vecchio me che non c’era più.
    Questa consapevolezza mi dava un po’ fastidio e – non l’avrei mai ammesso davvero - mi provocava dolore. Io tenevo a Bill, e lui diceva di tenere a me; eppure, ancora si ostinava a cercare qualcuno che era morto tempo fa. Gli costava così tanto avere uno come me come gemello? Accettare che ero cambiato? Gli costava davvero così tanto?
    Mi misi a ridere di queste considerazioni.
    Come era possibile? Ero forse geloso di me stesso? Del fatto che Bill amasse l’altro me?
    Quante stronzate.



    No, non l’avrei mai ammesso.






    Capitolo 4;
    Passato e Presente




    I due giorni successivi furono simili al primo.
    Ci svegliammo in tarda mattinata e andammo in spiaggia a rilassarci. Bill ci portò sempre nei posti più affollati, ma io non obbiettai. Era pur sempre un modo per mettermi alla prova.
    Il pomeriggio, eravamo in giro per la città - rigorosamente camuffati - o in chissà quale luogo ad impegnarci con qualche strano gioco mai provato.
    Dovevo ammettere che non era niente male: vivere in castità non faceva così schifo.
    La sera la passavo con Bill. Con il mio piccolo Bill.
    Avevo dimenticato le nostre abitudini serali. Sembrava di essere tornati in dietro nel tempo, quando ancora nessuno aveva idea di chi fossero Bill e Tom Kaulitz.
    «Mi piace», ammise la seconda sera, mentre guardavamo un DVD spaparanzati sul divano, sorseggiando della Red Bull.
    «Anche a me», risposi.
    «No, non intendevo il film», ridacchiò.
    «Che cosa allora?», chiesi perplesso.
    «Mi piace questa situazione: tu e io che guardiamo un DVD in santa pace», spiegò. «Sembra passata un’eternità dall’ultima volta che abbiamo fatto qualcosa di simile», continuò, con quel tono zuccheroso, quello che tanto fa impazzire le Fans. No, anzi, non era lo stesso. No, con me la sua voce era sempre diversa. Con me era sempre più dolce.
    «In effetti non è passata esattamente solo qualche settimana», risposi sorridendo. Quanto tempo? Cinque anni? Forse sei.
    «A te non piace?» mi chiese, scrutandomi dietro gli occhi nostalgici. La sua domanda aveva molti quesiti sottointesi: Non ti piacerebbe tornare in dietro? Alle origini? Non ti piacerebbe pensare semplicemente le serate con me? Non ti basto?
    Le stava provando proprio tutte per farmi cambiare idea; stava facendo leva sulle emozioni: la sua specialità.
    «Questo è un colpo basso», lo ammonii.
    «Fa davvero così schifo passare le serate con il fratellino idiota?» insisté.
    Alzai gli occhi al cielo. «Sai che non la penso così», risposi calmo. Non l’avrebbe avuta vinta. «Ma, di solito, il fratellino idiota, a quest’ora, non si mette a dormire?», gli chiesi allusivo.
    «Si. Hai ragione», si limitò a rispondere, per poi appoggiare la testa sulle mie gambe.
    «Bill, ti prego», mi lamentai imbarazzato. «Non siamo più dei bambini, ci terrei che tu lo ricordassi».
    Lui, di tutta risposta, si ficcò il pollice destro in bocca.
    «Si, va beh». Se la metteva così era davvero difficile contraddirlo. Lo osservai un poco, mentre teneva gli occhi chiusi, accoccolato sulle mie gambe con l'espressione di un bambino. «Notte fratellino», sussurrai.


    Il concerto di Trieste era già passato; restava solo Milano.
    Mi ricordavo ancora il primo concerto in quel luogo e non vedevo l’ora di rivivere quell’esperienza.
    «Sembra che in questi giorni tu e Bill vi siate proprio rilassati», constatò Benjamin quel giorno, sul Tour Bus.
    Io feci spallucce.
    «E’ vero», intervenne Georg. «Bill sembra molto sereno».
    «Sarà per via della scommessa», si mise in mezzo Gustav.
    «Quale scommessa?» chiese Ben curioso; ma Georg lo sovrastò ignorandolo. «A proposito, non è finita?»
    «No», risposi. «L’altro giorno abbiamo deciso di protrarla fino a che non saremo fuori dall’Italia».
    Bill mi aveva praticamente implorato. Come avrei potuto dirgli di no? Oltretutto, aveva promesso che, se avessi vinto io, mi avrebbe comprato un’altra macchina. Per due giorni in più, ne valeva decisamente la pena.


    Dopo il Soundcheck a Milano ero un po’ nervoso. Per qualche strana ragione ero molto irritato. Avevo suonato male, ero inquieto; come se sapessi in anticipo che qualcosa sarebbe andato storto. Di solito, in queste occasioni, mi scaricavo con una ragazza, ma, in quel momento, non mi era concesso.
    «Tom, rilassati».
    «La fai facile», gli risposi brusco. Non sapevo che mi prendeva. Forse mi ero alzato con il piede sbagliato. Forse era un giorno sbagliato.
    «Stasera abbiamo un concerto importante», mi ricordò.
    «Credi che non lo sappia, Bill?» continuai con lo stesso tono, mentre cercavo di accordare una delle chitarre che avrei dovuto usare durante lo Show. Sembrava non esserci verso. Irritato, la posai, prima di spezzare qualche corda.
    «Perché sei così agitato?»
    «Se lo sapessi avrei già risolto, non credi? Anzi, avrei risolto comunque, ma, dato che il mio capro espiatorio mi è stato vietato, non ho idea di come fare».
    «Stai forse dando la colpa a me?» chiese, cominciando ad alzare il tono di voce.
    «Con chi l’ho fatta la scommessa?» ribattei.
    «Guarda che sei stato tu ad accettare», ribatté freddo.
    «Se tu ti fossi arreso al fatto che sono cambiato, non avremmo di questi problemi», risposi acido.
    «Ah! Quindi è colpa mia?! Scusami se voglio bene a mio fratello!»
    «Se mi volessi bene mi avresti accettato e basta», gli feci notare.
    «Ma sei forse impazzito?! Credi che non ti abbia accettato per quello che sei?».
    «No, non lo credo. Lo so», risposi convinto. «Non è forse così? Se no perché ostinarsi tanto, eh?», lo attaccai.
    Dalla sua espressione, vidi chiaro e tondo che avevo ragione, nonostante lui ritenesse il contrario. O, per lo meno, pensai di averlo visto.
    «Da quand’è che mi conosci così poco, Tom?»
    Ma io non gli credetti. «Non fare l’ipocrita. Lo sappiamo bene tutti e due che ho ragione». Ero sempre più arrabbiato. Non avrei voluto arrivare a quel punto.
    Mi lanciò un’ultima occhiata ferita. «Credi quello che vuoi», rispose secco, e se ne andò, senza aggiungere altro.
    Quando fu fuori dalla mia visuale, presi la bottiglietta che era appoggiata accanto a me e la scaraventai addosso al muro.
    «VA’ AL DIAVOLO!», urlai.
    La bottiglietta esplose, bagnando ovunque.




    Facendo piangere quel muro al posto mio.










    Edited by .Nightmare; - 9/11/2010, 18:53
     
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  6. «Lella-TH;
     
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    CITAZIONE («Lella-TH; @ 22/10/2009, 17:41)
    E', M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-A *-*

    Grazie :nghè:
    Pensavo non avrebbe commentato nessuno >___<
     
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  8. «Lella-TH;
     
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    Come si fa a non commentare?
    E' bellissima! ^^
     
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    Ciò che ti sta rendendo felice,
    rende me più triste.
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    CITAZIONE («Lella-TH; @ 22/10/2009, 17:50)
    Come si fa a non commentare?
    E' bellissima! ^^

    Grazie di Nuovo!
     
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  10. «Lella-TH;
     
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    Prego ^^
     
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  11. scialla483
     
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    **me nuova lettrice**
    bello!!!
    posta prestoooooooooooooooo




     
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  12. •Jumbì
     
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    CITAZIONE ({___R a i n @ 22/10/2009, 15:14)
    Quando fu fuori dalla mia visuale, presi la bottiglietta che era appoggiata accanto a me e la scaraventai addosso al muro.
    «Và al diavolo!» Urlai.
    La bottiglietta esplose, bagnando ovunque.

    Tommaso, la tua violenza mi sconvolge ò-ò
    Se tratti ancora male Bibo ti mando gli Umpalumpa contro
    Tzè

    Ma ora veniamo a noi u.u
    Allourrr che dire?
    E S T M A G N I F I Q U E
    E non aggiungo altro

    SPOILER (click to view)
    spero che si dica sul serio così sennò qui la figura di cacca ci sta tutta

     
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    CITAZIONE (•Jumbì @ 22/10/2009, 21:47)
    Ma ora veniamo a noi u.u
    Allourrr che dire?
    E S T M A G N I F I Q U E
    E non aggiungo altro

    spero che si dica sul serio così sennò qui la figura di cacca ci sta tutta

    Sì, si dice così xDD
    Grazie mille a tutte, anche alla nuova lettrice
    Fra poco posto altri due capitoli *w*
     
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    Capitolo 5;
    Animale





    Ero uscito dal luogo in cui avremmo dovuto suonare cercando di rilassarmi fumando una sigaretta, ma avevo fatto fatica anche ad accenderla per quanto mi tremavano le mani.
    Io odiavo litigare con Bill.
    Perché, dopo tanti anni, ancora si ostinava a rivangare il passato? Aveva anche il coraggio di dire che non lo conoscevo! Ero la sua metà! Riuscivo a capire quello che provava solo dalla lucidità dei suoi occhi caldi, leggevo ogni sua espressione come se fosse scritta a caratteri cubitali davanti a me; come poteva solo pensarlo? “Rivoglio il vecchio Tom”: questo avevo letto negli ultimi giorni. Cosa avrei dovuto pensare?
    Mentre camminavo, mi accorsi che la fila delle Fans, che aspettavano l’apertura dei cancelli, era poco lontana.
    Un pensiero mi attraversò la mente come un fulmine a ciel sereno.
    Non era giusto che loro ci rimettessero per un bisticcio tra me e Bill. Lo spettacolo doveva essere fantastico, come sempre, quindi io dovevo calmarmi.
    Stando in un angolo non visibile, mi misi ad osservare le centinaia e centinaia di ragazze che in quel momento intonavano “Wo sind eure Hände”. Ce ne fu una in particolare, che catturò la mia attenzione: magra, capelli appena mossi e scuri, leggermente scompigliati, occhi dello stesso colore, - anche se da così lontano era difficile stabilirlo -, pelle chiara, truccata abbastanza pesantemente, portava dei vestiti semplici quanto adatti alla sua figura.
    Chiamai un uomo della Security, sicuro che parlasse anche Tedesco, e gli chiesi di lasciarla passare.
    Vidi evidente la sorpresa della ragazza e la sua agitazione quando le venne riferito che era desiderata da me. La prima cosa che fece fu consultarsi con un’altra ragazza, probabilmente una sua amica, che, sorridendo, la incitò a seguire l’uomo della Security.
    Così, una volta accettato, fu aiutata ad uscire dalla fila e fu accompagnata verso di me.
    Mano a mano che si avvicinava, capivo perché la mia scelta era caduta proprio su di lei: assomigliava a Bill. C’era qualcosa, nel suo fare insicuro e impacciato, un po’ bambinesco, che me lo ricordava. Possibile che fossi così dipendente dall’opinione di Bill?
    Era inutile fingere. Tutto quello che ci eravamo detti mi aveva ferito profondamente.
    «Ciao», la salutai calmo e sensuale, quando mi raggiunse.
    Lei imbarazzata e alquanto assente - probabilmente non si rendeva conto di quello che stava accadendo - si portò una ciocca di capelli scuri dietro all’orecchio, mentre l’omone che l’aveva accompagnata tornava a fare il suo lavoro.
    «C-ciao», rispose con un Tedesco dall’accento tenero.
    Afferrai la sua mano, troppo impaziente, e lei sobbalzò al mio tocco. «Seguimi», le ordinai e la portai verso la strada, chiamando un Taxi.


    Non fui per niente delicato.
    Avrei dovuto esserlo più con lei che con chiunque altra: la mia coscienza continuava a ricordarmelo; ad urlarmi imperterrita che non era giusto, che ero un vero stronzo, che le avrei fatto del male. Continuava ad urlarmi “Non lei!”. Non lei, perché sapevo perfettamente che era una bambina. Ero cosciente del fatto che si stesse donando a me con la convinzione di amarmi, con la convinzione che no, non se ne sarebbe pentita; convinta che, infondo, non ero come tutti mi disegnavano.
    Non ascoltai quella vocina.
    La usai, come usai tutte le altre; anzi, la trattai anche peggio, perché, per la prima volta, la delusione era tutto ciò che riuscivo a sentire, e di cui mi volevo liberare. Liberarmi deludendo lei.
    La spogliai, lasciandola in biancheria intima: un delizioso completino di pizzo nero. Sembrava quasi che si fosse preparata all’eventualità che questo potesse accadere; come se se lo aspettasse.
    Non sprecai tempo in carezze. I baci, non erano privilegio di nessuna. Mi limitai a spogliarmi, e a sfilarle gli slip.
    Vedevo la paura nei suoi occhi; mi sembrava di sentirla sussurrare a se stessa “Andrà tutto bene”. Ma semplicemente evitando il suo viso, misi a tacere tutti i miei dubbi, per poi penetrarla come se fosse stata la cosa più automatica e inutile del mondo. Come se non sentissi nulla. E io non sentivo nulla.
    Con un’occhiata fugace, intravidi i suoi denti stringersi attorno ad un labbro, nel tentativo di reprimere un urlo di dolore, mentre lacrime amare le inondavano il viso, schiantandosi inesorabilmente sulle sue spalle nude, che, velocemente, salivano e scendevano. Le stavo facendo male. Male in tutti i sensi. Lo sapevo. Ma nonostante questa consapevolezza, continuai a spingere, sentendo solo e soltanto la rabbia scivolarmi di dosso e il mio corpo rilassarsi. Non stavo traendo nessun tipo di piacere da quella situazione. Nessun tipo di estasi carnale. Solo la solita apatia silenziosa.
    Non arrivammo né io, né lei.
    Dopo qualche minuto, mi dovetti fermare e rivestirmi di corsa, sentendo la voce di Bill che mi chiamava dal corridoio. Non doveva vedermi. Non doveva vedere quello scempio. Scommessa o non scommessa.
    Non salutai quella ragazza, non le chiesi il nome, non la guardai nemmeno in faccia. Se in quel momento, mi stava guardando piangendo e con gli occhi vuoti, non volevo vederlo; altrimenti quel viso mi avrebbe perseguitato per lungo tempo, ricordandomi che, quel giorno, più di tutti gli altri, fui davvero un animale.


    Non potevo ancora sapere, che sarei stato perseguitato comunque, ma in tutt’altro modo.




    Capitolo 6;
    Misteri




    Il concerto, alla fine, andò benissimo, come tutto il resto del Tour.
    Bill non scoprì mai quello che successe davvero quel giorno; semplicemente, si scusò. E trassi molto più dolore dalle sue scuse che da una sua maledizione. Scusandosi, non fece altro che confermare che avevo sempre avuto ragione. Che sì, lui non mi accettava. Non mi avrebbe accettato mai.
    Non mi feci regalare la famosa macchina. Avevo perso, nonostante nessuno ne fosse a conoscenza. Mi avevano ampiamente dimostrato che ero dipendente da due sole cose nella mia vita, che, assieme, non andavano affatto d’accordo: Bill e il sesso.




    Dicembre 2010
    Il nostro terzo Album andava - a dir poco - a gonfie vele. Ora, eravamo conosciuti anche in Inghilterra, dove la prima volta con Ready, Set, Go!, eravamo stati malamente rifiutati. In Asia, il nostro nome iniziava a girare con curiosità e, in molti paesi, tra cui il Giappone, eravamo già molto conosciuti.
    Io, in tutto il mondo, avevo la stessa reputazione, e iniziavo a sentirne il peso.
    Bill, come promesso, non aprì più bocca sull’argomento “ragazze”, e io, senza il suo freno e i suoi continui rimproveri, mi comportai ancora peggio.
    Quel mese, eravamo nuovamente in Italia per il secondo Tour dell’album. Precisamente ad una festa: un After Party per una premiazione per chissà cosa, di un gruppo appartenente alla nostra stessa casa discografica.
    Annoiato, mi diressi al Bar, per ordinare una birra.
    Accanto a me c’era una ragazza che cercava di trasportare da sola quattro birre, con scarso successo. Sembrava abbastanza agitata; impaziente, forse, di andarsene.
    «Ti serve una mano?» le domandai in Inglese, ma il risultato fu solo un suo sobbalzo e un intero bicchiere di birra rovesciato sulla mia maglia bianca.
    Rimasi qualche secondo interdetto mentre la mora mi guardava terrorizzata e inavvertitamente faceva cedere un’altra birra urtandola con il gomito. Quella cade a terra frantumantosi.
    «Merda!» esclamò lei facendo quasi cadere anche la terza, presa dall’agitazione. «Scusa! Non volevo!» si scusò in un perfetto Tedesco.
    Le presi il braccio nel tentativo di calmarla e di non farle fare altri disastri. Il suo sguardo saettò a incontrare i miei occhi, e, nei suoi, trovai una luce opaca: assente. «Ferma, ferma, ferma!» la ammonii.
    Lei si ritrasse al mio contatto con delicatezza, recuperando la calma.
    «Dio, mi dispiace!»
    «Ehi, tutto apposto. Mi basta cambiarmi», cercai di tranquillizzarla.
    «Ma ti ho rovinato la maglia!» continuò mordendosi il labbro inferiore. «Se non la lavi subito non se ne andrà mai via quella macchia».
    Effettivamente non aveva tutti i torti. Era anche una delle mie maglie preferite. «Va bene, però adesso stai ferma, altrimenti farai cadere anche le altre due birre»
    Lei annuì, evidentemente imbarazzata.
    «Posso aiutarti in qualche modo?» biascicò.
    «Si, potresti indicarmi il bagno»
    «E’ laggiù. Quella porta dall’altra parte della pista da ballo, dove c’è quella fila lunghissima».
    Guardai in quella direzione e mi ingozzai con la mia stessa saliva quando mi resi conto della coda assurda.
    «Se aspetto di entrare là si fa mattina. Non ce né un altro?»
    «Si, ma è un po’ difficile spiegare dov’è».
    «Allora portamici. Mi sembra il minimo, no?»
    Dal suo viso non riuscii a capire se le piacque o meno questa soluzione, ma iniziò ugualmente a guidarmi, facendomi uscire dalla stanza dove si teneva la festa.
    Durante il percorso, ebbi tempo di osservarla: mora, capelli lunghissimi con un taglio scalato e liscio; non era troppo alta e portava un paio di pantaloni attillati neri. La maglia era delle tonalità del blu, e i suoi occhi cioccolato resi più magnetici dallo stesso colore: la solita ragazzina scambiabile per una fan di Bill.
    Dopo aver percorso diversi corridoi - che non avrei saputo rifare a ritroso - giungemmo al famigerato bagno. Era comune: maschi e femmine assieme.
    Entrammo entrambi e io mi levai la maglia senza troppi convenevoli rimanendo a petto nudo. Poi, la bagnai in un lavandino.
    Vedevo la faccia stupita della ragazza che mi aveva accompagnato riflessa nello specchio. Giurai di averla vista arrossire.
    «Come ti chiami?» le domandai.
    Lei accennò un sorriso ironico. «Non penso ti sia necessario saperlo» rispose, lasciandomi per un primo momento spiazzato; poi, sorrisi, alquanto soddisfatto della sua risposta.
    «Come mai pensi questo?» tornai a chiederle divertito voltandomi verso di lei mentre lasciavo la maglia in balia dell’acqua.
    Lei fece spallucce.
    Sembrava molto tranquilla rispetto a prima, in un modo quasi innaturale.
    «Credo sia sufficiente che io conosca il tuo», disse.
    «Quindi sai chi sono».
    Alzò gli occhi al cielo. «E chi non lo sa?»
    «Sai anche altro su di me?»
    «Più o meno», rispose. Potei captare una leggera nota di nervosismo nella sua voce, anche se cercava di nasconderla il più possibile.
    «Per esempio?» domandai incuriosito. Era una mia impressione o era un po’ strana quella ragazza?
    «Per esempio… Che il tuo colore preferito è il blu».
    «Si, vero. Poi?»
    «Sono forse sotto interrogatorio?»
    Risi. «No, è solo curiosità».
    Annuì con circospezione e cercò qualcos’altro per soddisfarmi. «Sei molto lunatico e… Beh, dipendi immensamente da tuo fratello».
    Dal colore preferito al dipendere immensamente – come aveva detto lei – da mio fratello? «Queste sono considerazioni molto più approfondite», le feci notare.
    «Ho forse sbagliato?»
    «No… Non proprio. Però tu mi conosci già, e non solo per sentito dire», constatai.
    «Non proprio», rispose riutilizzando le mie parole, poi sorrise ironica: di nuovo.
    «Sei nostra fan?» indagai.
    «Di voi come gruppo, sì».
    Che strana risposta. «Che cosa vuoi dire? Non ti piace forse la nostra musica?»
    «No, no, non intendevo questo. Volevo solo mettere in chiaro che non sono una Grupie».
    Quella risposta mi parve tanto una frecciatina lanciata appositamente per me.
    «Ah, capisco… In verità ti avevo scambiata per una patita di mio fratello».
    Rise. «Mi dispiace deluderti», disse tranquilla. «Però, se quella maglia non la strofini, non si pulirà mai da sola», aggiunse poi.
    Mi voltai per ritrovare la mia maglia immersa nel lavandino, in balia dell’acqua corrente. «Perché non lo fai tu?» domandai a quel punto. Non avevo nessuna voglia di fare la figura della “bella lavanderia che lava i fazzoletti”.
    «E per quale motivo dovrei farlo?»
    «Perché la birra l’hai rovesciata tu», le ricordai.
    «Per colpa tua», borbottò indispettita.
    «Cosa?»
    «No, niente», tagliò corto arrendendosi. Si avvicinò, prendendo poi la maglia tra le mani, e cominciò a maneggiare con essa.
    «Hai un viso familiare...» Constatai mentre la osservavo.
    «Ah si? Sarà un’impressione. Forse ti ricordo Bill: dicono spesso che gli assomiglio. Io, in realtà, non ci trovo proprio niente», rispose, senza staccare gli occhi dalle sue mani.
    Adesso che me lo faceva notare, potevo darle un poco ragione; ma non era quello… Dove l’avevo già vista?
    «Si, forse hai ragione», conclusi, poco convinto.
    Il suo sguardo si posò su di me attraverso lo specchio, mentre, con una certa maestria, strofinava la mia maglia. La fissai anch’io, notando una nota di malinconia nei suoi occhi vivaci. Si, ne ero sicuro: la conoscevo. Quando? Quando l’avevo già incontrata?
    Mentre ci pensavo, lei strizzò la maglia levandola dal lavandino.
    «Fatto», esclamò calma alla fine, mentre la riapriva e mi mostrava che era tornata perfettamente candida. «Dovresti metterla da qualche parte per farla asciugare», aggiunse.
    «Non avrei idea di dove».
    Lei mi guardò storto e divertita, si avvicinò e appoggiò la maglia sul ripiano in marmo che mi stava accanto. Il suo passo era elegante, ma instabile: doveva essere una di quelle ragazze che inciampano in un non nulla, troppo impegnate ad immaginare chissà che cosa.
    «Quanti anni hai?» le domandai ancora, mentre stendeva la maglia.
    Volevo sapere qualcosa. Non mi era mai capitato di avere a che fare con qualcuno di così… Disinteressato? Avevo la sensazione che se non avessi scoperto anche solo il più piccolo dettaglio, mi sarei reso conto che in realtà stavo dialogando con un fantasma: un’illusione della mia testa.
    «Un’altra cosa che non ti serve conoscere».
    «Non ne sono così convinto», ribattei cercando di ostentare la sua stessa irritante e apparente calma. «La mia prossima mossa dipende dalla tua età»: la mia voce cambiò tono in automatico, cambiò marcia: si posizionò da sola su “sensuale”.
    Ero partito. Non le avevo domandato l’età per qualche secondo fine – non di quel tipo, almeno -, ma la sua risposta mi aveva fatto scattare. Quell’aria di mistero che voleva mantenere intorno a sé, unita a quella sensazione di averla già conosciuta, aveva acceso il mio interesse.
    Da parte sua ci fu qualche secondo di silenzio troppo prolungato.
    L’avevo forse spaventata?
    «La maglia si asciugherà a breve», sbottò secca. «Io devo andare».
    Uscì dal bagno senza guardarmi in faccia nemmeno una volta.
    Io rimasi basito per qualche momento, poi, prima che potessi rendermene conto, la inseguii.
    «Ehi! Aspetta!» la richiamai. «Non volevo spaventarti!» cercai di giustificarmi. Perché mai? Io non mi giustificavo mai. Io ero sesso-dipendente e basta.
    Lei rallentò il passo fino a fermarsi, poi, si voltò verso di me. Mi stupii del suo sguardo. Probabilmente voleva apparire adirata - e forse lo era -, ma l’unica cosa che si poteva realmente vedere era l’incedibile lucidità dei suoi occhi: quasi potesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. Ero comunque convinto che non l’avrebbe mai fatto davanti a me.
    Mi guardò cercando di dire qualcosa, ma, per qualche motivo, si bloccò, si morse un labbro e si passò, come frustata, una mano tra i capelli. Prese un respiro profondo prima di parlare. «Non ne ho mai avuti abbastanza, Tom», rispose infine alla mia precedente domanda. Il suo tono di voce mi fece gelare il sangue nelle vene.
    Qualche secondo più tardi, tornò a darmi le spalle, e si allontanò a passo veloce.
    Non ne ho mai avuti abbastanza…
    Cosa voleva dire?

    Edited by .Nightmare; - 9/11/2010, 18:54
     
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  15. •Sheeb
     
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    sono nuovaaaaa!
    bellissima, cavolo scrivi benissimo!!
    riesco solo a dire posta presto!!
    non so poprio come commentare, è troppo bella!!**
     
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942 replies since 21/10/2009, 17:24   17334 views
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