Mayday.

« Se le tue labbra si sentono sole e secche, bacia la pioggia. »

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  1. ‚savannah
     
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    Capitolo # 3




    Il letto era confusamente sommerso da mille abiti e, nell’aria, padroneggiava una delicata fragranza di profumo. Il pavimento era ancora segnato dalle tracce d’acqua che scesero dal mio corpo dopo una calda lunga doccia. Avvolta tra la soffice stoffa del mio accappatoio, aperto il primo cassetto del rigoroso mobile in mogano, estrassi la biancheria intima prescelta. L’acqua non cessava ancora di colarmi lungo le gambe leggermente abbronzate, quasi come fosse l’ombra del mio sangue nelle vene. Se mi avessero squarciato il corpo, vi avrebbero scovato sola trepidazione. Mi sedetti sul letto, accostando leggermente l’orlo dell’accappatoio dalle mie cosce. Infilai le mutande bianche in pizzo con estrema delicatezza e terminai il primo strato di vestiario quando mi allacciai il corrispondente reggiseno dietro la schiena, dopo essermi levata in piedi lasciando cadermi alle spalle l’ammasso di stoffa che mi asciugava. Nel cadere, quest’ultimo mi lisciò la pelle e mi spaventai, quando scambiai quel soffice contatto con una sua morbida carezza. Mi parve sentir i suoi polpastrelli lisciarmi la schiena e percorrermi la colonna vertebrale con un soffio di passione. Il ticchettio delle lancette dell’orologio accompagnavano il silenzio della stanza, confondendosi con i ritmi accelerati del mio battito cardiaco che era lì per impazzire sempre più. Proseguii stringendo tra le mani il lungo abito rosa chiaro che sarei stata prossima per indossare. Lo strinsi con la stessa forza con cui strinsi il suo biglietto. La stessa forza con cui la sua promessa entrò nella mie arterie poche ore prima. Non ho mai amato indossare capi sportivi, accostare abiti senza preoccuparmi di un giusto abbinamento. Meditavo minuti e minuti, ore ed ore, pur di trovare il modo migliore per prendermi cura della mia estetica, della quale comunque, non ero mai totalmente soddisfatta. L’autostima la conservavo solo per i miei lati caratteriali. A livello fisico avevo sempre qualcosa da dire, sebbene nessuno mi negò mai un complimento. Ma in quel momento, in quegli attimi, tutto mi parve differente. Stavo prendendo cura di me stessa, per lui. Scambiavo le mie palpitazioni cardiache con forti colpi di batteria in un concerto rock. Dentro, tutto sembrava scoppiare. Era tutto così talmente forte, che forse sarebbe bastato chiedere permesso alle mie ossa, che queste si sarebbero spezzate. Il mio corpo bruciava di passione. Inspiegabile passione. Riaprendo gli occhi, forse chiusi involontariamente pensando, vidi le mie forme prendere vita sotto quella stoffa fine. Il tutto partiva poco più sopra del seno abbondante, lasciandomi così libere le spalle, per terminare poi con frappe onduleggianti non molto sopra le caviglie. I piedi, decisi di richiuderli in un paio di scarpe col tacco non molto alto. Diedi un’accurata ma rapida revisione al trucco leggero che applicai sopra al mio viso, correggendo su un tratto di palpebra non ben coperta l’ombretto marrone, e arrossai leggermente le gote con un tocco di terra. Spruzzai, infine, un goccio d’ acqua di colonia sui polsi e sul collo, prima di afferrare la pochette e varcare la soglia della porta. Sentii la scia di profumo restarmi dietro, inebriandomi le narici di una naturalezza infinita. Mi sentivo naturale, e quella era la sola condizione con la quale esigevo presentarmi ai suoi occhi. Io non mi chiamavo Evelyn. Il mio nome era Naturalezza. Lungo il corridoio non comparve nessuno, come nessuna voce giunse a disturbare quella pace. Cominciai a staccare lentamente i piedi da terra e a dar via ad un cammino piuttosto timoroso e cauto. Mi avviai verso lui. Mi avviai verso l’infinito. Era giunto il momento.

    - Evelyn! - sentii chiamare alle mie spalle.
    Mi girai frastornata, confusa.
    - Max, che sorpresa! - risposi, ricambiando con gioia il saluto.
    - Mi dispiace non potermi trattenere qui, ma ho Céline che mi aspetta in pista. Oggi non ti ho vista in giro, perciò non so se sai della festa di questa sera che hanno organizzato nel Gran salone. Sono già tutti là, se ti va vieni. Sarebbe un piacere per tutti! - disse, facendo emergere il suo accento parigino.
    - Oh, che cosa meravigliosa. Non preoccuparti per noi, avremo l’occasione di ribeccarci altre volte. Può darsi che più tardi venga a fare un salto giù, ma nulla di sicuro. Vai pure ora, non vorrei far preoccupare tua moglie. Buon divertimento e attento con i bicchieri, matto che non sei altro. -
    - Agli ordini, capo! - ironizzò, allontanandosi intanto con passo veloce.
    Risi al solo pensiero di quel vecchio amico d’infanzia fuori di sé a causa dell’alcool.

    Proseguii il sempre più duro cammino, controllando costantemente il tempo che scorreva sul mio orologio, quando notai le lancette segnare le 20.59 non appena posi il piede sul primo scalino della gradinata che precedeva la vista completa della prua. Il cielo scuro proteggeva il mare leggermente mosso, mentre le luci della nave si riflettevano sulle onde. Nessuno popolava quel posto. Avanzai, scorgendo il fumo sprigionarsi da una sigaretta che, con gesti delicati, qualcuno portava alla bocca con la mano destra. Di spalle, lui inspirava nicotina. In un spazio deserto, in un attimo muto e fugace, la sua visione.

    - Hey.. - disse, senza voltarsi.
    Aveva la voce ferita, quasi estinta.
    - Ciao, Tom. - risposi, con un leggero sorriso. Fu la prima volta che lo chiamai per nome.
    Percepii nell’aria quella fiacchezza che gli si sprigionava dalle labbra, vedevo debole anche la sua aria condensarsi in quella fresca ambientale, prima che lui potesse rivolgermi altre parole. Ma non feci domande, non lo indussi a darmi spiegazioni a quell’avvertimento.
    - La tua puntualità sembra fiabesca. Impossibile, introvabile nella quotidianità. - continuava a non guardarmi. Continuava ad inspirare nicotina ad una velocità supersonica, quasi come la divorasse in bocconi. Quasi come fosse uomo desideroso e insaziabile. Il suo corpo, dinnanzi a me, persisteva a darmi le spalle e l’aria fresca faceva agitare i bordi della giacca nera che indossava.
    - Sono un tipo che odia ritardare e che non si fa desiderare. - dissi, aspettando ancora che il suo volto si voltasse verso me.
    - Abbiamo qualcosa in comune, allora. -
    - Sì, e questa sera ti saprò dire se ne abbiamo altre. - scherzai, decidendo di affiancarlo.
    Appoggiai, allo stesso modo che feci la prima volta su questa nave, gli avambracci alla balaustra e inspirai l’aria notturna.
    Non ebbi il coraggio di guardargli il volto. Persi il coraggio di proferir parola, assieme alla forza per sopportare quell’avvertimento doloroso che mi provocò la sua voce fioca. Ma sentii la sua mano su di me, improvvisamente.
    - Io.. io sono diverso, Evelyn. -
    Rabbrividii.
    - Cosa intendi dire? -
    - Ciò che tu purtroppo non puoi verificare, non puoi comprendere. -
    - Sono qui per provarci. -
    - Ti sei mai sentita vuota? Hai mai sentito il cuore stringersi talmente forte da far cessare i battiti? Ti sei mai sentita morire? -
    Quelle domande mi spaventarono, provocandomi il passaggio di un brivido lungo la schiena.
    - Mi sembra addirittura strano, ora, poggiare i piedi a terra. Fino a ieri lo consideravo impossibile, e non so perché questa notte sembro aver riassunto le sembianze umane. Sento di aver sotto di me una sicurezza in grado di sostenermi, in grado di non farmi cadere come invece il resto del mondo fa ogni volta. Le spalle su cui piangere non mi mancano, perché quella di mio fratello e mia madre le ho sempre. Ma la mia esistenza sta assumendo una forma strana, sta diventando maceria. Quando al mattino mi alzo, sembra che le mie ossa si facciano a pezzi. Faccio attenzione al mio sguardo, e lo vedo buio. E io sento freddo, sento freddo nell’anima. E’ lo stesso principio applicato alla costruzione di una frase. Cosa necessita per assumere un significato compiuto? Soggetto e predicato. Ma non sono gli attributi, le apposizioni, gli avverbi, i segni di interpunzione a dare ad essa un significato più vivo e completo? Io sono il soggetto della mia vita, mentre il predicato sono le spalle su cui faccio affidamento. Ma di tutte quelle sottigliezze, io non ne conosco l’ombra. Non le sento dentro me, non mi stanno accompagnando per rendermi l’esistenza più intensa. La gente, là fuori, mi vede come un eroe bastardo. La mia etichetta è severamente associata al mio potere di incantare cuori di teenagers presupponendo che il mio solo respirare costituisca per loro il motivo per cui svegliarsi alla mattina, ma soprattutto, è associata alla mia ingrata noncuranza dei loro sentimenti. Due persone su tre crede questo, e questa loro supposizione, ha indotto pure me a definirmi in tali maniere. Mi hanno indotto a pensare, per un periodo, di non essere in grado di emozionarmi con uno sguardo o con un dolce abbraccio. La mia posizione è piuttosto complicata, ed è per questo che sono rimasto sorpreso dal tuo atteggiamento calmo non appena mi hai visto. Non so se sapessi o meno chi fossi io, non so se hai mai ascoltato qualche canzone della band in cui suono, ma indipendentemente da tutto, sei rimasta nella tua posizione senza batter ciglio, senza prestarmi quelle attenzioni che solitamente ricevo. Avevo bisogno di indifferenza, e non sai quanto mi renda felice il sol pensare che a chiamare la tua attenzione, sia dovuto esser stato io e non tu. Ho bisogno di pace.
    Sembra che Tom Kaulitz non si accorga di quanto siano belli i baci e gli abbracci, di quanto calore si senta nell’anima una volta stretta la mano della propria compagna, ma.. -
    Assistii alla scena più dolorosa di tutta la mia vita.
    Le mie lacrime le ingoiavo come bicchieri d’acqua, ma quelle degli altri mi facevano male. Terribilmente male. La sua voce cominciò a tremargli e qualche lacrima cadde sulla sua gota sinistra, la sola che vedevo.
    - Fanculo. - disse, asciugandosi immediatamente la lacrima che, lentamente, scendeva.
    Non voleva lo vedessi così, glielo si percepì nel tono di voce con cui esclamò quella parola. Capii che si stava vergognando. Gli afferrai il braccio e finalmente si voltò, guardandomi con quegli occhi che mi uccisero. Erano addolorati, sfiniti. Il suo sguardo mi chiese scusa, mi pregò di non deriderlo, mi parlò silenziosamente. Il suo dolore era una spessa lama affilata conficcata nel cuore. I suoi occhi si chiusero, il suo corpo venne a contatto col mio, posò il viso sulla mia spalla e sentii improvvisamente le sue mani avvolgermi in una morsa strettissima. La sua forza mi chiedeva aiuto, perché forse prevedeva che da lì a poco, si sarebbe del tutto affievolita. Abbracciai il suo corpo, stringendolo al mio per iniettargli dentro la certezza che non l’avrei lasciato solo, sentendo a malapena le costole che, se pur protette da un fisico ben sviluppato, eran rese percettibili.
    - Non me ne andrò. - promisi, sentendo la schiena tremargli leggermente.
    - Io.. io ho paura di amare. - concluse, facendo scivolare la sua ultima lacrima sulla mia spalla nuda.
    Congelai dalla freddezza di quel cuore che lui sentiva vuoto, assente.

    Edited by ‚savannah - 6/2/2011, 12:13
     
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