Love for music;

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  1. KLEINE ENGEL
     
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    uuuuuuuuuuuuup up uuuuuup ù.ù
     
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  2. .Enigmatic
     
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    up.
     
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  3. .Enigmatic
     
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    Up.
    *Me sta andando in astinenza
     
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  4. Sarè <3
     
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    uuppppp
     
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  5. .Enigmatic
     
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    up
     
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  6. .Enigmatic
     
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    upupup!
     
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  7. KLEINE ENGEL
     
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    up up uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuup
     
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  8. .Enigmatic
     
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    E intanto l'astinenza degenera ò__ò
     
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  9. Monique;
     
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    Capitolo 6

    Sapevo che sarebbe stato un disastro.
    Dopo lo spettacolo di Tom che vomitava anche l’anima nel corridoio del primo piano del Mabou, cercai Didi come in preda ad una delirante semicoscienza. Sia lui che Gustav accompagnarono Tom in bagno, e io aspettai fuori per circa mezz’ora, camminando su e giù per il corridoio come un leone in gabbia. Non avevo idea del perché fossi così preoccupata, né ci volevo pensare, perché la parte più sveglia del mio cervello era impegnata ad elaborare una possibile spiegazione a tutti gli eventi della serata.
    Proprio quando non avevo più unghie da rosicare, lui e Gustav vennero fuori trascinandosi un pallidissimo Tom in stato semicomatoso e rantolante.
    Discussero della quantità di drinks che aveva bevuto, un numero che non riuscii ad afferrare e lo trasportarono in macchina, dove lo aspettavano Bill e Georg.
    Vissi tutto così velocemente che la mattina della domenica, rintanata sotto le coperte con una tazza di latte stretta in mano, avevo solo pochi ricordi confusi degli ultimi minuti della serata.
    Il primo pensiero che ebbi fu rivolto a Bea. La sua serata non doveva andare in quel modo, me lo ripetevo in continuazione e mi trastullavo con il senso di colpa. Fissavo la piccola scrivania di legno chiaro di fronte al letto, piena di fogli e cianfrusaglie, e pensai che se le cose erano andate in quel modo, era solo colpa mia. La paura che Didi e Bea non fossero compatibili con quei ragazzi e i loro caratteri, in realtà era solo il riflesso di ciò che accadeva a me: io non sapevo integrarmi; io, con la mia mania di fasciarmi la testa prima di rompermela, compromettevo tutto in partenza.
    Esattamente come mi aveva sempre detto mio padre, con termini meno delicati, ma con lo stesso significato.
    Sospirai e chiusi gli occhi, il manico della tazza quasi vuota stretto in mano.
    Poi c’era Tom.
    Mi aveva sconvolta con le sue parole violente e con quel gesto rude, indesiderato, che mi ero trovata a ricambiare anche solo per qualche istante.
    Perché?, era la mia domanda continua.
    Ero talmente confusa che tra tutte le idee che mi vorticavano in testa faticavo a riconoscere quella di me stessa.
    «Sissi?». Didi bussò piano, e socchiuse la porta tanto da poter infilare la testa bionda e sconvolta nella fessura. «Posso entrare?».
    Annuii e bevvi l’ultimo sorso di latte, poggiando poi la tazza sul ripiano dello scaffale in legno accanto al letto.
    Didi entrò, lasciò la porta aperta e si sedette, incrociando le lunghe gambe fasciate dal pigiama giallo sul mio piumino lilla. Il contrasto era quasi ridicolo.
    «Stai bene?», mi chiese.
    «Certo. Perché me lo chiedi?».
    «Non è da te restare a letto così a lungo».
    Aveva ragione, era mezzogiorno passato. «Sono solo fiacca», gli risposi, sbrigativa.
    «Per via di ieri sera?».
    Come al solito fece centro. Non mi sforzai neanche di negare; mi chiusi in un silenzio equivalente ad un sì, Didi lo sapeva.
    «Dovrei essere io quello triste, l’idea è stata mia», sorrise appena, gli occhi azzurri dal taglio vagamente orientale abbassati sul piumino. Il solo guardarlo equivaleva ad una dose extra di miele sparata in vena.
    «Pensavo soltanto a Bea», cercai di distrarlo, quasi commossa dal suo faccino. «Le ho rovinato la serata».
    I suoi occhi guizzarono su di me, animati da una vispa scintilla di curiosità. «Tu?».
    Mi ero tradita da sola, ne ero consapevole. Ma mi sentivo così spossata da non riuscire a pentirmene.
    «È successo qualcosa tra te e Tom, non è vero?», si sporse verso di me, avvicinando il viso, la fronte solcata da una piccola ruga perplessa.
    Di nuovo, non risposi.
    «Ti ha fatto del male?», insistette, preoccupato.
    Mi tastai discretamente il braccio coperto dalla manica del pigiama, poco sopra il gomito: dove le dita di Tom mi avevano stretta, sentivo dolore, prova inconfutabile dei lividi che erano sbocciati sulla pelle. Ma non volevo far preoccupare Didi inutilmente.
    «No, non mi ha fatto male».
    «Ma non ti sei ridotta così per niente», osservò.
    «Sto solo reagendo in modo esagerato ad un paio di insulti, niente di nuovo».
    «Che tipo di insulti?», chiese, ma proprio in quel momento udimmo il rumore della porta d’ingresso che si apriva e chiudeva, violentemente. Conoscevo solo una persona che adottava quel modo di fare, e comparve sulla soglia della mia camera dopo pochi secondi.
    Bea mi guardò perplessa, i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e le guance e il naso rossi per il freddo. «Ne hai uccisi molti?», mi chiese. La sua espressione era quella di sempre: seria e leggermente sarcastica insieme.
    «No!», esclamò Didi, io alzai gli occhi al cielo.
    «Sì, tu sei la prossima».
    E poi avvenne ciò che, in media, accadeva una volta ogni era glaciale: non replicò, cosa già di per sé molto preoccupante, ma a rincarare la dose fu il suo sorriso, indulgente come quello che un essere supremo rivolgerebbe ad un inetto minorato mentale. «La solita acida intrattabile», mi blandì. Si tolse i guanti, il giubbotto e la borsa e li lanciò sul piccolo comò accanto alla porta, sommandoli alla montagnetta di indumenti già presente.
    Ma che le era preso?
    «Cos’è quell’aria così giuliva?», chiese Didi.
    Bea si sedette sul letto accanto al mio amico continuando a sorridere enigmaticamente. «Nulla, è soddisfazione».
    «Vuota il sacco», le ordinò con cipiglio imperioso. «Cosa hai combinato ieri sera?».
    La scena era da immortalare: visti dalla mia angolazione, quei due sembravano più che mai due comari intente a spettegolare.
    «Ero molto occupata a divertirmi», fu la risposta enigmatica di Bea.
    «Ma se siamo corsi via dopo appena tre ore, di cui una passata a soccorrere quel relitto rantolante», feci notare, guardandola scettica.
    Mi restituì uno sguardo furbo. «Non ho idea di cosa abbia fatto tu, probabilmente eri impegnata a sbavare veleno sul grande Kaulitz, ma io ero in ottima compagnia».
    Mi venne in mente l’immagine di lei che si trascinava Georg in pista e spariva e realizzai che la serata era andata male solo a me. Mi sentii immensamente sollevata nell’immediato.
    Didi intanto si puntellava i fianchi con le mani. «Non avrai concupito il bassista dei Tokio Hotel?».
    «Non ho concupito un bel niente», si difese lei, imbronciata. «Però è simpatico».
    Un campanello d’allarme trillò nella mia mente. Conoscevo Bea, e simpatico non era una parola intesa nel senso comune del termine, per lei, specie se associata ad un ragazzo. Un ragazzo simpatico a Bea era intelligente, capace di stare al passo della sua lingua affilata, di metterla a suo agio e di trovarsi a sua volta a proprio agio. Conoscendo il soggetto, era praticamente impossibile trovare un uomo così.
    Non era una persona facile da capire, Bea. Era, se possibile, più chiusa di me. Con la differenza che io non facevo nulla per mascherarlo, attirandomi le antipatie e il disinteresse delle persone, e lei si prodigava, nonostante il cinismo e il sarcasmo che la caratterizzavano, per non avere problemi con la gente. Del resto, il tempo e le persone che era stata costretta a frequentare per una vita – la famiglia all’antica e maschilista, i compagni di classe e parte del resto della gente con cui aveva avuto a che fare – avevano sempre cercato di snaturarla e correggere il suo modo di fare e di porsi. Il padre aveva offerto tutte le occasioni di farsi strada al fratello maggiore e a lei era toccata la gestione di una rivista di giardinaggio praticamente sconosciuta, con la speranza che le responsabilità “le mettessero la testa a posto”.
    Animata dalla voglia di ribellarsi a quel sistema, insopportabile come un vestito stretto, l’aveva trasformata in una rivista di gossip e le aveva dato un taglio giovane e fresco. Con i guadagni era andata via di casa a ventidue anni e aveva affittato un piccolo appartamento poco distante da casa nostra.
    Aveva conosciuto Didi al Mabou, quando chiese al responsabile se un posto di barista fosse disponibile. Si licenziò circa tre settimane dopo aver conosciuto me e i ritmi insostenibili del bar.
    Ci eravamo sempre capiti, noi tre. Ma eravamo abituati a non essere compresi dagli altri e ad essere considerati come un gruppo di persone unite da non si sapeva cosa. In realtà, stavamo bene insieme perché tutti e tre avevamo sperimentato sulla nostra pelle il senso di una vita all’insegna del senso di inadeguatezza ed eravamo riusciti, in qualche modo, a sganciarcene.
    Chi più, chi meno.
    Ora, vedere che qualcun altro si inseriva con naturalezza in questo equilibrio mi atterriva. Non che Georg fosse un cattivo ragazzo, ma…
    «Terra chiama Elsa, rispondete, rispondete!».
    Vidi che Bea mi stava sventolando una mano davanti al viso e i miei occhi si focalizzarono sulla realtà, definendone i contorni.
    «Vedo del fumo, vacci piano», continuava intanto lei.
    Scacciai la sua mano con poca forza. «Simpatica».
    «Dov’eri?», chiese Didi.
    Contemporaneamente, Bea esclamò:«oh! Ieri nel trambusto non ho avuto il tempo di chiederti nulla, ma non avevi un bell’aspetto quando ti ho vista, fuori dalla discoteca. Cos’è successo?».
    «Tom mi ha vomitato davanti, tu come avresti reagito?».
    «Io l’avrei lasciato lì», mi rispose con assoluta calma. Sapevo che non era vero, in ogni caso.
    «E che ci facevate tutti e due nel corridoio del primo piano?», intervenne Didi.
    In momenti come quelli, ero combattuta tra l’idea di amputargli la lingua e quella di farla finita una volta per tutte.
    «Ero andata in bagno e… l’ho visto», tentennai nel rispondere, e sperai con tutte le mie forze che nessuno dei due lo notasse.
    «Ma mi hai detto che avete litigato», mi fece notare il mio amico.
    «Infatti, quello dopo».
    «Dopo cosa?».
    «Dopo aver vomitato».
    «Anche tu hai vomitato?».
    «No, lui».
    «Quindi ci hai litigato dopo che ha vomitato».
    «Sì. Cioè no».
    Mi stavano guardando tutti e due, chi con le braccia conserte, chi con un sopracciglio talmente inarcato che poteva sparire da un momento all’altro nell’attaccatura dei capelli.
    «Non la trovi tenera?», chiese Bea a Didi, mentre entrambi mi osservavano.
    «Molto. Non riesce nemmeno a mentire in modo lontanamente credibile».
    «Oh, finitela». Mi offesi e persi la pazienza. Ero determinata a tenere per me l’accaduto di quella serata, perché sapevo che se mi fossi fatta sfuggire qualcosa, tutto sarebbe stato travisato e avrebbero continuato a fare domande e supposizioni che non stavano né in cielo né in terra; e io ne avevo fin sopra i capelli di intromissioni dei Tokio Hotel nella mia vita privata.
    «Posso anche capire che tu non voglia parlare di loro», disse Didi, più serio, «ma non capisco perché se se ne parla, vai in tilt del tutto».
    «Ciò che io non capisco è perché invece vogliate parlarne a tutti i costi. Si tratta solo di un lavoro temporaneo, un trampolino di lancio».
    «Sicura che sia solo lavoro?», mi chiese Bea.
    «Sì». Ma nemmeno io ne ero sicura.

    Con che faccia mi sarei presentata a quei quattro? Con quale coraggio avrei fatto finta che nulla fosse successo?
    Potevo tentare di mettere su la migliore faccia tosta di cui disponevo, ma avevo il vago presentimento che non sarebbe mai bastata: non ero una brava attrice, purtroppo.
    Quindi, nella mia macchina, con il riscaldamento rotto e le mani congelate, maledicevo chi farneticava tanto sui viaggi nel tempo e non faceva mai nulla di reale per concretizzarli.
    Ero in ritardo di dieci minuti, e una parte della mia coscienza mi strillava che dovevo tirare fuori le palle ed andare a fare ciò per cui ero pagata anche abbastanza bene.
    Sbuffai pesantemente e aprii lo sportello, senza però scendere dall’auto.
    Ma come avrei affrontato Tom?
    Se potessi vendere paranoie, saresti ricca, lo sai?, disse quell’insopportabile vocina nella mia testa.
    La ignorai e la relegai in qualche anfratto nella mia testa.
    Forse avrei potuto chiamare e avvisare che ero ammalata…
    «Ehi!», qualcuno aprì di scatto il mio sportello ed infilò la testa dentro, facendomi sobbalzare pesantemente.
    «Accidenti, Georg, ma è una dote la tua?!», sbottai portandomi una mano sul petto per lo spavento. Uscii dall’auto e mi appoggiai alla carrozzeria, con lui accanto. Strano a dirsi, ma di nuovo la sua presenza non suscitava in me il minimo turbamento.
    Georg infilò le mani nella tasca del suo cappotto, dopo averci soffiato dentro. «Si può sapere cos’hai tanto da pensare?».
    «Niente, davvero», un altro argomento, mi serviva un altro argomento, subito. «Tom come sta?».
    Perfetto. Avevo scelto esattamente l’argomento che più volevo evitare.
    «Oh, meglio. La notte di sabato ha vomitato e rantolato per un’altra oretta, poi è crollato, e ieri mattina quando ho telefonato a Bill per chiedere di lui, ha detto che non si ricorda nulla di sabato sera».
    Rimasi per un attimo interdetta. Davvero il cielo mi aveva fatto un regalo così grande? E quanto mi sarebbe costato?
    «E come mai tu non hai dormito allo studio?», tergiversai di colpo.
    «Non dormiamo sempre qui», spiegò, «capita, ma il più delle volte ci obblighiamo ad essere puntuali». Mi lanciò un’occhiata obliqua. «E tu oggi sei in ritardo».
    Inutile sperare che Georg non notasse cose del genere. Del resto, era abbastanza evidente.
    «Ogni tanto mi succede. Andiamo dentro ora? Fa freddo», mi strofinai le braccia con le mani ridotte a due ghiaccioli e contemporaneamente sbadigliai. Mi sentivo stanca, e probabilmente quel senso di spossatezza derivava da tutta la tensione psicologica che stavo subendo in quei giorni.
    Mio padre mi avrebbe dato della pappamolle, se mi avesse vista; forse avrebbe usato un termine più aulico.
    «Oggi non voglio fare niente», stava dicendo Georg intanto, mentre camminavamo sul pietrisco a passo lento, come se stessimo passeggiando.
    «Non prendere l’andazzo di Tom, per pietà», supplicai.
    Lo sentii ridacchiare sotto i baffi. «No, ma ho come l’impressione che nemmeno tu sia in forma».
    «È un effetto collaterale della presenza prolungata di Didi e Bea», spiegai, mentre lui apriva con le chiavi, «dovresti provare».
    «Gentile, ma ho già le mie grane a cui pensare. Voi quando vi siete conosciuti?».
    Appendemmo i nostri soprabiti all’attaccapanni.
    «Io e Didi ci conosciamo dai tempi del liceo. E lui ha conosciuto Bea al Mabou, quattro anni fa».
    Lo scrutai attentamente mentre parlavamo, cercando di cogliere qualche indizio su ciò che lui e la ragazza in questione avevano fatto sabato sera, ma non individuai nulla di rilevante, a parte un sorriso appena accennato.
    Ti stai comportando come quella pettegola di Didi, mi avvisò la parte posata e razionale di me, smettila subito.
    Georg si accorse di essere osservato e mi restituì un verde sguardo perplesso. «Cosa c’è?».
    «Niente, niente», mi affrettai a rispondere scuotendo la testa. «Voi, invece, vi siete conosciuti nella stessa gabbietta dello zoo?».
    «Non per niente ci chiamano animali da palcoscenico», mi rispose argutamente, ammiccando.
    Risi di nuovo.
    «Oh», il suo sguardo veleggiò sul salotto vuoto dello studio. «Credo che non siamo gli unici ad avere poca voglia di lavorare, oggi».
    Mi misi le mani sui fianchi e scrutai anche io l’ambiente, che senza le solite quattro, rumorose presenze, appariva tristemente anonimo. Inutile dirlo, nonostante tutti i miei preconcetti e le mie raccomandazioni, mi stavo scoprendo affezionata a quei ragazzi.
    «Nemmeno Gustav è venuto, chi l’avrebbe mai detto», dissi.
    «Non parlare troppo presto, donna di poca fede».
    Sia io che Georg ci voltammo nell’udire la voce di Gustav alle nostre spalle. Lo vedemmo strisciare i piedi sullo zerbino e togliersi il cappotto.
    «Bene, ora mancano solo i gemelli», sussurrai, concedendomi di sedere sul divano. Mi sentivo strana, come se mi mancasse qualcosa.
    «Benjamin non viene?», s’informò Gustav.
    «No, oggi no», risposi.
    Benjamin Ebel era uno dei produttori più vicini alla band, insieme a David. Spesso lavorava con noi, ci aiutava nella composizione dei brani, ma altrettanto spesso si assentava insieme al manager per assicurarsi che la popolarità della band, nonostante l’assenza, non calasse oltre il livello critico. Così, io che dovevo essere il tecnico del suono, mi ero trovata a svolgere anche la parte di produttore.
    Solo dopo un quarto d’ora di chiacchiere, i Kaulitz ci onorarono della loro presenza. Entrambi entrarono, ed avevano un muso così lungo che avrebbero potuto inciamparci dentro. Bill guardava costantemente in basso¬, con l’espressione di un bambino scontento: lanciò il suo soprabito e la sua sciarpa sul bracciolo del divano, a poca distanza da dov’ero seduta io e non mi degnò di uno sguardo.
    Tom era pallido e aveva due occhiaie spaventose, e sembrava, più che imbronciato, davvero incazzato.
    Probabilmente erano ancora arrabbiati l’uno con l’altro. Prenderne atto mi fece sentire terribilmente in colpa, ma proprio non riuscivo a capire come io potessi essere la causa di un litigio tra i due fratelli più uniti e affiatati che avessi mai visto.
    E poi, nessuno dei due mi guardava. Bill non mi aveva sorriso. Tom non mi aveva salutata nel suo solito modo tagliente.
    Ma era quello che volevo, no? Poca considerazione e più fatti. Ma lo stesso mi sentivo così… triste.
    «Viva il buonumore», commentò la voce sarcastica di Georg.
    Tom si limitò a grugnire qualcosa e sparì oltre la porta della cucina.
    Mi sporsi sul bracciolo e cercai lo sguardo di Bill, che stava trafficando con il suo soprabito lungo. «Ciao», lo salutai, alzando la voce.
    Mi rivolse un’occhiata stentata e un saluto appena accennato.
    Mhm. Bene, probabilmente non ce l’aveva solo con il fratello, ma anche con me.
    «Che succede, ragazzi?», chiese Gustav dal divano bianco, di fronte a me.
    «Niente», mugugnò Bill.
    Analizzai la situazione. Bill e Tom, a quanto pareva, erano intrattabili, quindi in quel momento essere autoritaria avrebbe solo generato altre liti. Georg cercava di mascherarlo, ma era visibilmente distratto. Gustav… beh, Gustav non faceva testo: era sempre tranquillo e razionale, anche nei momenti più critici. Era una qualità che gli invidiavo.
    Georg prese posto accanto a Bill, che sembrava essere intenzionato a sfoggiare tutte le sue considerevoli doti da regina del dramma. Fissava il tavolino al centro dei divani con un’intensità tale da poterlo penetrare, le braccia conserte e il cappellino ancora calato sugli occhi.
    «Non sembra “niente” quella faccia da funerale. Ti è finita la lacca, per caso?», domandò Georg.
    «Dovrei ridere?», ribatté con tutta l’acrimonia di cui era capace, fulminandolo con lo sguardo.
    Proprio in quel momento Tom riapparve con una bottiglia d’aranciata mezza vuota in mano. Bevve un altro sorso, poi si pulì la bocca con il dorso della mano. «State tranquilli, il suo problema è solo l’orgoglio ferito e ne fa una tragedia greca». E gli scoccò un’occhiata che avrei potuto definire solo meschina.
    Bill batté un pugno sulla pelle bianca del divano e replicò, improvvisamente animato: «Il tuo invece qual è? Difficoltà ad accettare i rifiuti?».
    «Ehi, Bill, che ne dici di andare a farti fottere?».
    «Dico che lo fai abbastanza tu per tutti e due».
    Scattai in piedi. «Io invece dico che mi sono stancata. Piantatela, tutti e due».
    Quel concentrato di ferormoni e vanagloria conosciuto anche come Tom Kaulitz mi guardò per la prima volta da quando era entrato, e il suo sguardo non era ostile, ma nemmeno benevolo. Non seppi spiegarmelo.
    Sapevo che gli costava enormemente prendere ordini da me, ma anche quella volta obbedì e si appoggiò al muro accanto alla porta, tracannando aranciata.
    Non mi andava di lavorare in quel clima così negativo, non avremmo concluso nulla.
    Gustav, Georg e anche Tom mi stavano guardando, aspettando che dicessi qualcosa: senza accorgermene, avevo preso a rappresentare il ruolo del leader, la figura di riferimento, e mai come quella volta ne sentii addosso tutta la responsabilità.
    La mia mente elaborò in fretta una soluzione e sperai con tutte le mie forze che fosse quella giusta.
    «D’accordo, oggi tutti abbiamo la luna storta».
    «Ma non mi dire…», intervenne Bill sottovoce.
    Gli lanciai un’occhiata in tralice. «Quindi, ci diamo una calmata e… e poi usciamo».
    L’avevo sganciata.
    Controllai gli sguardi dei presenti: tutti erano scettici, e Bill mi guardava come se avessi detto la più grossa baggianata.
    «Uscire?», chiese educatamente Gustav.
    Annuii per sembrare convinta. «Sì. È chiaro che non si può lavorare, o rischierete di azzannarvi a vicenda, ergo, oggi, relax». Inoltre, realizzai che la sensazione di fastidiosa mancanza era derivata dall’aver dimenticato il computer portatile, più tutti i materiali, in macchina. Era un chiaro segnale: ero proprio sfasata, nemmeno io avrei concluso nulla, anche sforzandomi al massimo.
    Si scambiarono delle occhiate, soppesando la proposta anche senza l’uso delle parole. Mi ricordarono me, Bea e Didi in qualche modo, e il nostro modo di comunicare che a volte escludeva l’uso della parola.
    «Per me va bene», concesse Georg, alla fine, dopo aver scambiato un’occhiata con Gustav.
    «Anche per me».
    Si sentì il forte rumore di uno schianto e voltai la testa verso Tom, che aveva gettato con forza la bottiglia vuota nel cestino dei rifiuti.
    «Stai dimenticando il piccolo particolare della nostra popolarità. Se qualcuno ci becca e ci fotografa finiamo sulle copertine e sui siti internet di tutto il mondo in meno di mezzora».
    «E se qualcun altro ci pedina non solo avrai problemi tu, ma scoveranno noi e saremo costretti a cambiare di nuovo studio di registrazione», aggiunse Bill.
    Avevano ragione su tutto. Li stavo conoscendo meglio, non come celebrità, ma come persone ordinarie, e questo implicava inevitabilmente il trattarli come tali. Ma non lo erano.
    «Sabato non vi ponevate tutti questi problemi», feci notare comunque. «Vi siete camuffati e nessuno vi ha riconosciuto tra la folla. Perché dovrebbe essere diverso ora, che è lunedì mattina e non c’è nessuno?».
    «Andiamo, ragazzi», mi spalleggiò Gustav, alzandosi. «Non concluderemmo nulla comunque, perché non provare?».
    I gemelli annuirono controvoglia, irradiando cattivo umore da ogni poro e tutti ci preparammo ad uscire. Quando fummo fuori, Tom era già pronto ad aprire la sua macchina.
    Gli abbassai il telecomando con una mano ed ignorai il brivido che mi attraversò la schiena quando lo toccai. «Portare a passeggio una Cadillac non è il modo migliore di passare inosservati», feci notare con tutta la calma di cui disponevo.
    Ripose l’aggeggio in tasca. «Quindi cosa proponi?».
    «L’unica macchina normale, fra tutte, è la mia».
    «E ci entriamo in quella scatoletta di latta?».
    Calma, calma. Era nervoso e dovevo cercare di sorvolare, ribattere sarebbe stato controproducente.
    «Se ci stringiamo».
    Georg, Bill e Tom occuparono i sedili posteriori, Gustav si accomodò sul sedile del passeggero.
    Lo sentii dire qualcosa che non capii, perché Bill piagnucolò: «accendi il riscaldamento! Fa freddo!».
    E come glielo spiegavo che il riscaldamento era rotto?
    Decisi semplicemente di ignorarlo e feci retromarcia, uscendo dalla recinzione che limitava gli spazi dello studio.
    «Sai almeno dove andiamo?», berciò Tom.
    «Vorrei farvi notare che siamo cinque, qui dentro. Potreste anche proporre».
    Accidenti, mi sembrava di avere a che fare con dei bambini incapaci perfino di nutrirsi da soli.
    «Io voglio andare a casa», s’imbronciò Bill con decisione.
    Ignorare era la chiave, ignorare.
    «E che faresti se andassi a casa?», chiese Georg, seccato.
    «Mi butterei sul letto con le cuffie nelle orecchie e sparirei per qualche ora».
    «Cioè come una dodicenne con problemi di cuore…», sentii borbottare da Tom.
    «Vaffanculo!».
    Stavo per sbottare. Ancora un’altra parola o replica e li avrei sbattuti fuori dalla mia macchina a calci.
    «Ignorali», mi suggerì Gustav, quando mi lesse l’esasperazione in viso, «quando litigano è meglio lasciarli perdere, se non vuoi rimetterci qualche estremità vitale».
    Sospirai. «Ti ho mai detto che invidio a morte la tua calma?».
    «No, solitamente preferisci affibbiarci soprannomi orribili e denigrare ogni nostra buona azione».
    Ridacchiai e in quello stesso momento sottili scaglie bianche cominciarono a posarsi sul parabrezza, sciogliendosi nello spazio di pochi secondi.
    «Fantastico, ricomincia a nevicare», sbuffai. Fortuna che a causa delle bufere precedenti il mio meccanico aveva montato pneumatici da neve.
    «Che bello, la neve!».
    Lanciai a Bill un’occhiata divertita dallo specchietto retrovisore: guardava fuori dal finestrino con gli occhi spalancati e un sorriso che mi ricordava uno squarcio di cielo tra le nuvole. Sembrava non avesse mai visto neve in vita sua, e invece nei giorni precedenti ne era caduta così tanta che ai bordi delle strade c’erano cumuli di soffice ghiaccio alti almeno dieci centimetri.
    Tutti ebbero la stessa reazione, sorpresa ed indulgente allo stesso tempo, a parte Tom, che, immaginavo, conosceva perfettamente i cambi improvvisi di umore del fratello. In quel momento, però, immaginai che fosse troppo incazzato con il mondo per curarsi di cosa accadeva intorno a lui.
    Le strade erano scivolose, quindi impiegammo tre quarti d’ora a raggiungere Amburgo. Ci fu silenzio per la maggior parte del tragitto, un silenzio imbarazzato e teso, interrotto sporadicamente da qualche commento di Georg, o dalle esclamazioni di Bill.
    Da qualche tempo avevo cominciato a sentirmi a casa tra loro. Riuscivo a distaccare i preconcetti e le preoccupazioni da me, a sbatterle fuori da quello studio di registrazione e godermi la loro compagnia. Invece, quella volta, nemmeno la forte complicità che li connetteva riuscì a mutare l’atmosfera negativa e io mi sentivo spiazzata come un pesce fuor d’acqua. Sperai di non trasmettere anche a loro il mio disagio.
    Sistemai l’auto in un parcheggio protetto dai rami spogli di tre pareti d’alberi e soffiai nelle mani per scaldarle un po’. Avevo vagato per la città cercando un posto che potesse essere abbastanza nascosto, ma non tanto da avere la sensazione di soffocare e avevo trovato ciò che cercavo nella Hohe Bleichen. Era la strada di un quartiere piuttosto periferico, costeggiata da alberi e palazzi alti e grigi.
    Era molto vicino a casa mia: riflettendoci qualche minuto, era quasi ovvio che sarei andata lì. Era solo un parcheggio, ma ci tornavo ogni volta in cui volevo stare da sola a riflettere.
    «Dove ci hai portati?», chiese Gustav.
    «Dove non c’è il pericolo di essere assaliti dai vostri plotoni di seguaci». Assatanate, ma questo non lo dissi.
    «E ora che facciamo?».
    Non ne avevo la minima idea, ma era più che evidente che tutti si aspettavano una risposta da me.
    «Adesso scendiamo», dissi con finta naturalezza, e aprii lo sportello.
    «Ti è saltata la rotella, per caso?», berciò Tom. «Se qualcuno ci vede non dormiamo per un mese».
    Alzai gli occhi al cielo e rantolai, esasperata. «Caro il mio principino, non vi sto dicendo di salire su un piedistallo e urlare la vostra presenza con un megafono, ma solo di scendere ed essere discreti».
    «Ma chi sa chi siamo ci riconosce anche dalla punta dei nasi!».
    «In questo caso non correte pericolo, dato che tutte le vostre regali appendici nasali sono coperte dalle sciarpe».
    «Vipera velenosa…», borbottò. La sua voce mi ricordò il brontolare di una pentola di fagioli.
    Mi guardai intorno cercando aiuto negli altri tre, per niente toccata – o almeno, così sperai – dal suo amorevole insulto. Bill meditava con una mano a tormentare le labbra, ma probabilmente stava pensando agli effetti del freddo sulla sua pelle delicata e a quale crema usare per lenirli.
    Fu Georg a venirmi in aiuto prima che i miei occhi veleggiassero sugli altri due. «Ma sì, non muore nessuno se corriamo un piccolo rischio. E poi non c’è nessuno».
    Scoccai a Tom un’occhiata vincente e scesi dall’auto, seguita dagli altri tre. Percorsi la breve distanza che separava me dal marciapiede e dall’altro lato della strada avvistai il bar in cui spesso andavo. Prima che potessi proporre una delle magiche cioccolate del barista plurisecolare che dirigeva quel bar, qualcosa di freddo e duro mi colpì la schiena, sbriciolandosi poi ai miei piedi.
    Mi voltai lentamente, vagamente scandalizzata e vidi che Bill cercava in tutti i modi di trattenersi dal ridere, Georg rideva piegato in avanti, Gustav sogghignava, appoggiato alla mia macchina e Tom traboccava compiacimento.
    «Chi è stato?», chiesi, lentamente, lasciando trapelare la minaccia dal tono della mia voce.
    Tutti e quattro indicarono qualcun altro.
    «Non giocate a scaricabarile!», raccolsi un po’ di neve dal tettuccio di un’auto vicina e la scagliai contro Bill. Il piccolo mucchio esplose proprio contro il suo braccio.
    Ovviamente, la Diva arruffò le penne come se gli avessi fatto un torto imperdonabile. «La mia giacca!», esclamò, la voce stridula.
    Mi divertii ancora di più e gli scagliai un’altra palla di neve. Lui si vendicò lanciandomene un’altra che colpì la mia spalla sinistra. Anche Gustav e Georg cominciarono a lanciarsi la neve addosso, e in pochi secondi quello che era stato uno scherzo si trasformò in una vera e propria battaglia, che aveva le nostre risate come sottofondo.
    Georg scivolò e atterrò sul sedere, e Gustav ne approfittò per infilargli della neve nel colletto del giubbotto. Bill vendicò il suo amico schiacciandogli una palla di neve tra i capelli e io gli colpii una gamba, per tutta risposta.
    Continuammo a divertirci con quel gioco da bambini, ridendo a più non posso e facendoci dispetti stupidi, finché non mi accorsi che Tom non partecipava. Se ne stava appoggiato al muso di una macchina bagnata d’acqua ghiacciata, con una sigaretta tra le labbra e lo sguardo assente. Sembrava non curarsi del freddo pungente che gli arrossava le mani e del bagnato che penetrava i suoi vestiti.
    Lo fissai mordendomi le labbra per qualche secondo, poi raccolsi una piccola manciata di neve da terra e la lanciai nella sua direzione. Il grumo biancastro gli colpì preciso la mano con cui reggeva la sigaretta, che cadde a terra e si spense nel ghiaccio.
    Mi restituì un’occhiata profondamente irritata. «Mi hai fatto male», sibilò nella mia direzione.
    Il fracasso delle risate degli altri era talmente forte che mi costrinse ad avvicinarmi a lui.
    «Era solo un po’ di neve», mi giustificai. «Stiamo giocando».
    «Beh, con i tuoi giochetti stupidi mi hai quasi distrutto una mano».
    Santo cielo, ma chi era la principessa tra lui e il fratello?
    Lo fissai contrariata e anche segretamente po’ delusa. «D’accordo, scusami. Volevo solo giocare».
    Mi guardò con la stessa intensità con cui mi fissava la sera del sabato, quando mi aveva immobilizzata sul balcone. Feroce e rabbioso. Pieno di rancore.
    «Allora dovresti smettere di giocare con le persone, con me prima di tutto».
    Afferrai più di un significato in quella frase pregna di risentimento. «Cosa vorresti dire, scusami?».
    Lo vidi contrarre i muscoli della mascella e ciò che succedeva intorno a noi – potevo percepire solo con una minima parte del mio cervello la battaglia di palle di neve che continuava – non importava più. Le macchine scivolavano lente sulla strada ghiacciata, i ragazzi ridevano, ignari della brevissima conversazione che stavamo avendo io e lui.
    Dischiuse le labbra per dire qualcosa, guardando rigido altrove, come se parlare gli costasse.
    «Accidenti, fa male!», Bill indietreggiò fino a frapporsi tra noi, riparandosi il viso con le braccia, le maniche sporche di neve.
    Sia io che Tom distogliemmo lo sguardo nello stesso momento.
    «Georg, hai tirato troppo forte!», continuò contrariato.
    «No, sei tu che hai gli stuzzicadenti al posto delle braccia!», protestò Georg.
    «Guarda che la neve fa sempre male, se la lanci troppo forte!».
    Mi sforzai di unirmi alla risata di Gustav con scarso successo, mentre Bill mi scrutava cercando di essere discreto. Gli rivolsi un’occhiata interrogativa, a cui rispose scrollando le spalle.
    Scossi la testa, come per sgombrarla da ogni pensiero.
    «Gente, non per guastare la festa, ma le mie mani si stanno congelando», disse Georg.
    «Così impari ad uscire senza guanti», lo redarguì Gustav.
    Bill si sfilò uno dei suoi e si fissò la mano arrossata. «A me si stanno spaccando le mani anche nei guanti».
    Mi coprii meglio le orecchie con la sciarpa e mi feci sfuggire un sorriso alla sua espressione da cucciolo bastonato. «Che ne dite di una cioccolata calda?», proposi, lanciando un’occhiata al bar dall’altra parte della strada.
    «A me non fa schifo l’idea…», approvò Gustav, subito supportato dagli altri tre.
    «Benissimo, quelle di quel bar sono insuperabili!». Approdai al marciapiede e mi voltai ad aspettarli. Tutti e quattro si scambiavano delle occhiate che non capii e mi seguirono.
    Erano buffi da vedere da quell’angolazione: sembravano un piccolo gregge di pecore fedeli. Il pensiero mi fece ridacchiare sotto i baffi.
    «Ora ride da sola», fece notare Tom, imbronciato. «Sei proprio allo stadio terminale».
    «Meno male che ci sei tu con il tuo lume, a tirare avanti questa carovana».
    «Che cazzo c’entra adesso il lume?», chiese lui, mentre attraversavamo.
    «E cos’è una carovana?», aggiunse Bill.
    Sia io che Gustav e Georg scoppiammo in una risata, mentre aprivo la porta che si spalancava su uno dei bar più belli che avessi mai visto.
    Le pareti e il soffitto erano rivestiti di legno, ed avevano un che di compatto che faceva sembrare l’ambiente molto raccolto e accogliente. Delle maschere tribali erano appese sulla parete dietro la cassa, esattamente di fronte a noi, e alla nostra destra si allungava un bancone in legno scuro, preceduto da una fila di sgabelli. Sulla sinistra, c’era un piccolo ambiente semibuio, riempito da sedie e tavolini. Era vuoto a quell’ora, quindi i quattro dell’Apocalisse dietro di me non dovevano preoccuparsi più di tanto dell’anonimato.
    «Finalmente, caldo», sentii la voce di Bill.
    Mi srotolai la sciarpa dal collo e allargai la cerniera del giubbotto.
    «C’è qualche anima in questo posto?», chiese Tom con il solito tono sprezzante, come se guardasse tutto dall’alto.
    «Andate a sedervi», dissi, «qui faccio io».
    Tutti si diressero verso un tavolino, ma mi premeva fare una cosa. «Bill, aiutami a portare i due vassoi, per favore».
    Lo vidi titubare qualche secondo, lo sguardo basso, poi mi si avvicinò, con gli occhi puntati su un qualcosa davanti a lui. Mi stava evitando, era chiaro. Sentii qualcosa pungermi dentro, una piccola spina incastrata nel cuore.
    Stavo per parlare, ma il proprietario, un uomo alto e panciuto vestito sui toni del nero e del rosso, sbucò dalla porta d’ingresso, pulendosi le mani sul grembiule.
    «Scusate se vi ho fatto aspettare. Oh, buongiorno Elsa». Mi sorrise sotto i baffi curati. Con la coda dell’occhio, vidi Bill voltare lo sguardo per non permettergli di vederlo attentamente in faccia, sicuramente un riflesso involontario di tanti anni passati cercando di non farsi riconoscere nei momenti in cui era in borghese.
    «Ciao, Alfons», lo salutai. «Allora, quattro cioccolate con panna e… fragole, e una solo con panna», dissi.
    «Certamente», annuì e si mise all’opera.
    Mi voltai, appoggiandomi con la schiena al bancone per poter guardare attentamente Bill. Sembrò messo a disagio dal mio sguardo e infilò le mani nelle tasche della sua giacca.
    «Ehm… come mai sembri sempre conoscere tutti?».
    Lanciai un’occhiata ad Alfons che armeggiava dietro di me. «C’è stato un periodo in cui insegnavo a suonare il piano ad una ragazza che abita qui vicino. Dopo ogni lezione venivo qui, così sono diventata cliente di fiducia».
    Annuì ma non disse altro, seguitando imperterrito a mantenere il suo adorabile musetto offeso.
    Mi feci coraggio. «Posso azzardare a chiedere cosa ti ha preso stamattina?», domandai con tono casuale. «Tom è sempre il solito musone, niente di nuovo, ma tu sembri aver perso l’argento vivo».
    Alzò le spalle. «Ho altre cose per la testa».
    Mi morsi le labbra, torturata dalla voglia di chiedergli cosa lo preoccupasse tanto. Solitamente mi facevo gli affari miei, se una persona non aveva voglia di parlare, nemmeno mi azzardavo ad insistere. Odiavo quando qualcuno – cioè Didi e Bea, sempre – tartassava me, quindi non ripagavo mai con la stessa moneta.
    Ma… ero maledettamente curiosa. «E cioè?».
    Ecco. Non ce l’avevo proprio fatta a cucirmi la bocca.
    «Ho litigato con mio fratello», rispose con disarmante sincerità. Forse questo apprezzavo di più in lui: la spontaneità, almeno entro i suoi ristretti confini. Sapere che avevo attraversato quei limiti mi faceva molto piacere… ma Bill non disse più nulla. Non aveva cominciato a parlare a raffica, quindi c’era qualcos’altro che si teneva dentro.
    Inoltre, anche se non facevo che ripetermi di non essere presuntuosa, continuavo a credere di essere io la causa. Gustav me l’aveva detto, ma avevo davvero un potere così grande?
    «Come mai?», chiesi.
    Scosse la testa e mi guardò profondamente risentito. «Perché dovrei dirtelo? Ti riguarda?».
    Non mi aspettavo una reazione così violenta, specie da lui. Aveva ragione.
    Boccheggiai come un’idiota per qualche secondo. «No, ma…».
    «Tu non ti rendi conto che così peggiori solo le cose. Quindi non fare finta di essere preoccupata per me, perché non me la bevo».
    Ero allibita. E incredula. Era davvero Bill quello che mi stava parlando?
    «Ma che stai dicendo? È ovvio che sono preoccupata per te». Cercai di tenere la voce bassa per non dare spettacolo davanti agli altri tre e al proprietario del bar, che continuava come se non stesse ascoltando la conversazione.
    «Non ti credo». Bill fu risoluto, sicuro e lapidario. Mi ferì in un modo che mi ricordava tanto qualcun altro.
    «Sembri un clone di tuo fratello adesso. Ti ha fatto il lavaggio del cervello?», chiesi.
    Per tutta risposta, incrociò le braccia e mi restituì un’occhiata rabbiosa. «Credo che sarebbe più sincero di te in ogni caso».
    Perché non riuscivo più a capirlo? Cos’avevo fatto di tanto atroce da far arrabbiare perfino lui?
    In quel momento i due vassoi con le cinque cioccolate furono poggiati sul legno del bancone. Continuai a guardarlo, chiedendogli spiegazioni con lo sguardo, ma non durò a lungo la nostra conversazione a senso unico.
    Afferrò uno dei vassoi e si diresse verso il nostro tavolo senza dire più nulla. Io presi tra le mani il mio stupido vassoio di plastica rossa e lo seguii ripetendomi solo una domanda: cosa stava succedendo?



    Se siete arrivate fin qui, complimenti XD
     
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  10. .Enigmatic
     
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    Già, cosa sta succedendo? O.O
    Io ho una mia teoria U.U Di nuovo xD
    Ma stavolta non la dico U.U voglio vedere che succede U.U
    Secondo me Tom è preso da lei, come ho già detto.
    La scena sulla neve, della breve conversazione tra lui ed Elsa, mi ha fatto tremare per un pò. Volevo proprio sapere dove volesse arrivare e quella sua frase a doppio senso ha fatto aumentare la mia curiosità.
    Ora anche il fatto che Bill sia così arrabbiato... boh, magari è geloso ò.ò o magari ce l'ha con lei per qualcosa che ha fatto a Tom, anche se non ne è a conoscenza (stando sempre alla frase a doppio senso di Tom).
    Mmmm, non lo so, così mi va il cervello in fumo >.<
    Inutile dire che Didi e Bea li adoro. Sono troppo simpatici xD
    E soprattutto dei buoni amici.
    Comunque io credo che anche Elsa sia attratta da Tom o non proverebbe tutte quelle emozioni che tu descrivi divinamente *O*
    Ripeto che tifo per la coppia Elsa/Tom. Li vedrei veramente bene insieme. Anche perchè il loro atteggiamento mi ricorda il classico che adottano due persone che si attraggono ma sono troppo orgogliose (o semplicemente stupide xD) per ammeterlo.
    Il personaggio di Elsa mi piace molto.
    Così dura, ma allo stesso tempo tenera nel profondo. Mi piace, mi piace =)
    Il carattere di Tom, come lo descrivi, mi fa impazzire, nel senso buono. Non so, riesce a farmi comunque tenerezza xD
    E, ripeto, è stramaledettamente sexy in tutto quello che fa, persino quando fumava con il sedere a bagno ò.ò
    Bene, dopo questo poema epico, evaporo e mi preparo a combattere nuovamente contro l'astinenza che spero non duri troppo perchè ho il cuoricino fragile; soprattutto ora che voglio sapere quello che succede fra i due ò.ò
    Bravissima, non ci sono parole =)
    Baci.
     
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  11. KLEINE ENGEL
     
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    ma...ma :ohcielooo!:
    bill ma che ti prende :minchia!mammavoglioillatte:
    ok che Elsa ha i suoi difetti ma che ha fatto di tanto grave questa volta?O_O centra Tom ne sono sicura ù.ù brutto Buzzurro arrapante ù.ù
    sai cosa amo di più dei tuoi capitoli monique?
    ch sono lunghissimi e questa cosa mi piaceeee
    posta prestoooooo *^*

    CITAZIONE (.Enigmatic @ 11/5/2010, 16:53)
    Già, cosa sta succedendo? O.O
    Io ho una mia teoria U.U Di nuovo xD
    Ma stavolta non la dico U.U voglio vedere che succede U.U
    Secondo me Tom è preso da lei, come ho già detto.
    La scena sulla neve, della breve conversazione tra lui ed Elsa, mi ha fatto tremare per un pò. Volevo proprio sapere dove volesse arrivare e quella sua frase a doppio senso ha fatto aumentare la mia curiosità.
    Ora anche il fatto che Bill sia così arrabbiato... boh, magari è geloso ò.ò o magari ce l'ha con lei per qualcosa che ha fatto a Tom, anche se non ne è a conoscenza (stando sempre alla frase a doppio senso di Tom).
    Mmmm, non lo so, così mi va il cervello in fumo >.<
    Inutile dire che Didi e Bea li adoro. Sono troppo simpatici xD
    E soprattutto dei buoni amici.
    Comunque io credo che anche Elsa sia attratta da Tom o non proverebbe tutte quelle emozioni che tu descrivi divinamente *O*
    Ripeto che tifo per la coppia Elsa/Tom. Li vedrei veramente bene insieme. Anche perchè il loro atteggiamento mi ricorda il classico che adottano due persone che si attraggono ma sono troppo orgogliose (o semplicemente stupide xD) per ammeterlo.
    Il personaggio di Elsa mi piace molto.
    Così dura, ma allo stesso tempo tenera nel profondo. Mi piace, mi piace =)
    Il carattere di Tom, come lo descrivi, mi fa impazzire, nel senso buono. Non so, riesce a farmi comunque tenerezza xD
    E, ripeto, è stramaledettamente sexy in tutto quello che fa, persino quando fumava con il sedere a bagno ò.ò
    Bene, dopo questo poema epico, evaporo e mi preparo a combattere nuovamente contro l'astinenza che spero non duri troppo perchè ho il cuoricino fragile; soprattutto ora che voglio sapere quello che succede fra i due ò.ò
    Bravissima, non ci sono parole =)
    Baci.

    shu shù non è giusto ù.ù
    non puoi essere brava a scrivere e a commetare contemporaneamente
    mi oppongo ù-ù :minchia!mammavoglioillatte:
     
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  12. Phantom Rose
     
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    Sono curiosa! Posta presto!
     
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  13. .Enigmatic
     
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    CITAZIONE
    sai cosa amo di più dei tuoi capitoli monique?
    ch sono lunghissimi e questa cosa mi piaceeee
    posta prestoooooo *^*

    Quoto e riquoto
    CITAZIONE
    shu shù non è giusto ù.ù
    non puoi essere brava a scrivere e a commetare contemporaneamente
    mi oppongo ù-ù

    Shu shù, ma che dici? >.<
    Mica sto attenta all'italiano mentre commento così come quando scrivo le mie FF xD
    Ormai sei di parte, non vale xD
     
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  14. KLEINE ENGEL
     
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    CITAZIONE (.Enigmatic @ 11/5/2010, 17:29)
    CITAZIONE
    sai cosa amo di più dei tuoi capitoli monique?
    ch sono lunghissimi e questa cosa mi piaceeee
    posta prestoooooo *^*

    Quoto e riquoto
    CITAZIONE
    shu shù non è giusto ù.ù
    non puoi essere brava a scrivere e a commetare contemporaneamente
    mi oppongo ù-ù

    Shu shù, ma che dici? >.<
    Mica sto attenta all'italiano mentre commento così come quando scrivo le mie FF xD
    Ormai sei di parte, non vale xD

    ma che di parte scema non è vero :minchia!mammavoglioillatte:
     
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  15. .Enigmatic
     
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    Tenera lei
    Up! (di già xD)
     
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218 replies since 23/6/2009, 12:26   5970 views
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