Love for music;

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  1. SgMab
     
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    Hey ma il resto della ff ?? Sono curiosa di sapere .. Posta ti pregoooooooooo
     
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  2. Monique;
     
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    Sono viva! Grazie davvero tante dei commenti, sono un grande sprone per me. Purtroppo tra soggiorni in ospedale e viaggi ho avuto diversi impedimenti, ma sto continuando a scrivere. Please, pazientate, io non muoio!
     
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  3. Monique;
     
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    Non so chi di voi sia ancora viva e segua ancora questa ff. Per chi ancora legge/segue voglio dire che non l'ho abbandonata, anzi, non ho mai smesso di scrivere. Ho appena finito il capitolo 18 e domani sera posterò, beta reader permettendo.
    Scusate se ci ho messo mesi, ma ho attraversato un lungo e difficilissimo periodo in cui scrivere era impensabile. Tante cose sono cambiate nella mia vita e sto cercando di trovare una mia stabilità. Love for music fa parte di questa stabilità, o almeno provo a farcela rientrare.
    Con la speranza che ci sia ancora qualcuno, vi lascio un bacio.
     
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  4. paolina91
     
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    Io ci sono ancora e sono qui ad aspettare il continuo di questa bella storia, capisco che tutti possono avere periodi difficili e magari il cosidetto blocco dello scrittore e non ti devi giustificare, io spero ci siano anche altre lettrici perchè voglio sapere cosa succederà :)
     
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  5. Monique;
     
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    Eccomi, come promesso.
    Paolina, è bello leggere che ci sei ancora. Grazie.
    Consiglio di leggere attentament, questo è un capitolo importantissimo per me. Dodici, sudate e sofferte pagine, è lungo un chilometro XD
    Grazie grazie grazie al mio amatissimo beta reader nonché migliore amico Nicola, che mi assiste e consiglia nella scrittura come in ogni altro aspetto della mia vita senza farmi mai mancare il suo sostegno.
    Buona lettura

    Capitolo 18

    Inforcai gli occhiali da sole e mi distesi sul lettino, le braccia abbandonate sopra testa. Pensai di infilare gli auricolari per ascoltare un po' di musica, ma ci ripensai subito: lo sciabordio delle onde era già di per sé meraviglioso e rilassante.
    Feci un respiro profondo e sorrisi.
    Sole, mare, solitudine, silenzio. Avrei potuto considerarmi ad un passo dalla beatitudine e dalla pace dei sensi se solo ci fossero stati un cocktail alla frutta sul tavolino accanto a me, e uno di quegli adoni da infarto a farmi vento con una foglia di palma.
    Anche così, tuttavia, non mi andava esattamente malissimo.
    Era l'ultimo giorno che passavamo a Miami e avevamo la giornata libera. La sera saremmo ripartiti, così avevo deciso di non darmi alla pigrizia come gli altri per svegliarmi presto e godermi l'ultima mattinata in spiaggia. La situazione era rosea in modo quasi imbarazzante: l'album si stava plasmando sotto le nostre mani, nonostante tutti i dissapori. Io, proprio io, Elsa, mi stavo rilassando in una splendida spiaggia quasi vuota di Miami Beach. Le mie turbe mentali, corredate di vocine psicotiche, mi stavano lasciando in pace, la temperatura era perfetta e mi sentivo così in pace col mondo che se mi fosse passato davanti Stalin mano nella mano con Heidi avrei sorriso e salutato.
    Mi ero svegliata molto di buonora per raggiungere quel posto, ma ne era assolutamente valsa la pena.
    Ad Amburgo avevo poche occasioni per andare al mare e il clima grigio della Germania non era certo un incentivo a farlo.
    Feci la lucertola al sole, beandomi della mia serenità fino a quando non mi sentii sciogliere, così mi tirai su. Volevo fare il bagno per rinfrescarmi un po'. Poggiai i piedi sulla sabbia.
    Ahia!
    Forse se avessi saltellato sulla sabbia bollente fino alla battigia avrei evitato di ustionarmi.
    La differenza di temperatura mi fece rabbrividire quando riuscii a bagnarmi i piedi, ma fu una sensazione piacevole.
    Avanzai lentamente nell'acqua cristallina fino a quando non mi raggiunse le cosce, godendomi ogni brivido che le piccole onde e la sabbia mi provocavano.
    Era quella l'estasi? Mi sentivo così tranquilla...
    Ma all'improvviso mi sentii sbalzata in aria. Qualcuno mi afferrò dalla vita e dalle gambe insieme, e, dandomi appena il tempo di urlare di sorpresa, si gettò in mare portandomi con sé.
    Finii sott'acqua.
    Lottai per liberarmi dalla presa ferrea di quelle braccia sconosciute, urtando con le mie le gambe la persona dietro di me. Scalciai sperando di far del male all'aspirante suicida che mi aveva trascinata sott'acqua e fui convinta di riuscirci.
    Quando riemersi, ero completamente infreddolita e tossivo sonoramente. Il naso, gli occhi e la gola mi bruciavano come l'inferno.
    Sentii delle risate sguaiate e assurdamente familiari.
    «Chiunque sia stato si troverà con un arto infilato nel posto sbagliato!», gracchiai, la gola ancora raschiata dall'acqua salata.
    Altri umilianti, irritanti scoppi di risa.
    Scostai dalla faccia la cortina dei miei capelli zuppi e mi stropicciai gli occhi, decisa a terminare la persona che aveva osato fare un tale scempio della mia tranquillità.
    Vidi Tom. Ero sicura di avergli fatto male, eppure rideva di gusto nel vedere la mia espressione furente. Alle sue spalle, c'erano Bill, David, Natalie, Patrick e Benjamin che entravano in acqua, sereni, bellissimi e baciati dalla luce abbagliante del sole, ridendo anche loro per lo scherzo così ben riuscito.
    «Tu!!!», gridai, in direzione di Tom. «Ti uccido! E voi», puntai il dito contro gli altri ragazzi, «vi trucido!».
    «Addirittura», disse Benjamin.
    Strinsi le mani sulla pelle accapponata delle braccia, cercando di scaldarmi. Tremavo.
    «A guardarti sembra che sia stata gettata nelle acque del Polo Nord», commentò David, entrando in acqua con naturalezza e – con mio grandissimo disappunto – completamente indifferente allo sbalzo di temperatura. I maschi e la loro pelle coriacea!
    Gli lanciai un'occhiataccia inceneritrice e mi immersi di nuovo lentamente fin sopra le spalle, rabbrividendo ancora. «La prossima volta provo io a farvi affogare, tutti quanti, giusto per farvi provare questo brivido». E poi realizzai: ero in mare con cinque uomini seminudi, ognuno dei quali poteva benissimo essere classificato alla stregua dei Bronzi di Riace. Certo, Bill forse era un Bronzo un po' atipico, smilzo com'era...
    Ringraziai il cielo che ci fosse Natalie con me, stemperava l'imbarazzo, ma una parte della mia mente si trastullava con il pensiero che qualunque fan avrebbe voluto essere al mio posto, a godersi un momento e un panorama che in realtà sarebbero stati solo miei.
    Sì, decisi che quella parte egoista e un po' perfida avrebbe prevalso.
    Sogghignai tra me e me.
    «Lasciando da parte che, ancora una volta stai ridendo da sola», esordì Tom piacevolmente, nuotandomi intorno come un avvoltoio, «dimmi, Sigrid cara, perché non ci chiedi come ti abbiamo scovata?».
    Sigrid era il simpatico soprannome che mi era stato affibbiato in quella settimana, per sottolineare il mio lato da Sergente di Ferro e la mia leggera propensione alla dittatura.
    «Lo sbalordimento dovuto al vederti ancora vivo dopo una levataccia mi ha inibito qualsiasi altro pensiero, caro il mio celenterato. Perfino quello di ucciderti». L'acqua sottolineava la pelle dorata di Tom, modellata dai muscoli, allungati ed armoniosi. Non ebbi più freddo.
    Ormoni, a cuccia nell'ormonile, mi ammonii.
    Sei patetica, te l'ho già detto?, domandò la vocina, con tono compassionevole. Ecco, era tornata anche lei.
    «Volevo tramortirti di sorpresa, ma noto con dispiacere che anche tu sei ancora viva, vegeta, e parlante, purtroppo».
    «Questa sì che è una dichiarazione d'amore da manuale!», rise David.
    «Allora, Sigrid, non chiedi niente?», incalzò Tom.
    Sospirai. «Come mai, mio adorato primate, vi trovavate nello stesso posto in cui mi trovavo io, alla stessa ora, e con il chiaro intento di rovinarmi la mattinata?», cantilenai con una vocina da bambina bacchettona.
    «Perché, mia venerabile misantropa, noi siamo magnanimi e misericordiosi e perdoniamo sempre la tua mancanza d'educazione nell'andare in qualsiasi posto da sola prima di noi. Quindi, per darti la possibilità di sdebitarti, ho proposto di seguirti, sicuro che ci avresti condotto in un bel posto. Così ci hai risparmiato la fatica di scegliere una spiaggia poco frequentata ed economica, o di affittarne direttamente una».
    Parlavamo nuotando e galleggiando nell'acqua cristallina. Intorno a noi, anche gli altri si stavano godendo il sole e la freschezza dell'oceano.
    «Sono commossa», mi portai teatralmente la mano al petto. «Oh, e io che non volevo farmi toccare da tanta bontà d'animo...».
    Tom fece un sorrisetto e allungò le mani sotto l'acqua, decisamente troppo a sud del mio girovita, in modo da costringermi a piegare le gambe, e mi avvicinò sé. «Oh, toccarti invece era proprio in cima alla lista delle cose che avevo pensato di fare».
    Sorrisi e avvicinai lentamente il mio viso al suo. «Ah, davvero?», domandai. Gli accarezzai le braccia e feci scorrere le mani sulle spalle, guardandolo fisso negli occhi. «Vuoi sapere cosa c'è in cima alla mia, di lista, Tom?», continuai. Cercai di pronunciare il suo nome nel modo più suadente possibile, intanto gli accarezzavo i lobi delle orecchie. Mi sentivo cuciti addosso tutti gli sguardi degli altri. Avevano perfino smesso di cincischiare per guardare la scena. Chissà cosa si aspettavano. Forse un porno dal vivo.
    Tom intanto annuì, rispondendo allo sguardo con la stessa intensità.
    Sorrisi. «Esattamente... questo», all'improvviso gli premetti le mani sulle spalle e lo spinsi verso verso il basso aiutandomi con tutto il mio peso. Lo mandai sott'acqua e lo scavalcai, nuotandogli bellamente sopra.
    Scoppiai a ridere con tutti gli altri, mentre un inusuale calore mi si allargava nel petto, piacevole come una cioccolata calda d'inverno davanti ad un camino, mentre io quasi lacrimavo per le risate.
    Tom riemerse tossendo e stropicciandosi gli occhi. Mi lanciò uno sguardo omicida che mi fece solo ridere di più. «Tu, stregaccia vipera...».
    Avrei voluto fotografare la sua espressione, tanto era comica. «Siamo tornati ai soliti epiteti alati. Meno male, qualcosa di normale»
    «Te l'ha fatta, Tom», intervenne Bill per la prima volta, ricevendo in cambio dal fratello un educatissimo dito medio.
    Battei il cinque a Natalie, e continuai a scherzare e giocare con il gruppo di quelli che ormai chiamavo amici. Per la prima volta nella mia vita ero lontana da Didi, da Bea, dal mio appartamento e da tutto ciò che mi era familiare e mi sentivo comunque a casa.

    Mi lasciai Miami alle spalle con un senso di malinconia, ma con la consapevolezza di aver fatto al meglio il mio lavoro e di aver vissuto un'esperienza realmente gratificante e importante. Dormii per la metà del tempo del volo di ritorno, e parlai e giocai con i ragazzi per l'altra metà. Nell'attesa tra uno scalo e l'altro, Bill e Tom riuscirono ancora a ignorarsi, ma la tensione tra loro andò stemperandosi con il passare delle ore. Mi faceva piacere constatare che per quanto si impegnassero, non riuscivano a tenersi il muso per troppo tempo. Se pensavo al mio bacio con Bill, tuttavia, mi sentivo comunque ansiosa ed irrequieta, e sapevo che per lui era lo stesso. Tentava di fare come se nulla fosse accaduto ma io sentivo il bisogno di dovergli parlare.
    Nonostante le mie ansie verso Bill, però, in quei giorni mi sembrava di vivere in una dimensione parallela, assolutamente irreale, fatta solo di serenità, buonumore e positività. Non sapevo quanto sarebbe durata – la sensazione di guai dietro l'angolo era onnipresente – ma per la prima volta nella mia vita una vocina nella mia testa – diversa dalla solita – mi diceva che avrei potuto anche abituarmi. Era come se la mia vita fosse giunta ad una svolta e tutto ciò che un tempo mi sembrava inarrivabile e impossibile, come la tranquillità, la soddisfazione di me stessa e la sicurezza di essere amata e di potermi fidare di qualcuno, faceva finalmente parte di me.
    Atterrammo all'aeroporto di Amburgo stanchi e assonnati, e decidemmo di comune accordo di tornare a casa senza fare nessuna tappa intermedia. Fortunatamente non ci fu nessun gruppo di fan pronto a braccarci o a romperci i timpani, episodio che in quei mesi era successo più di una volta.
    Una volta arrivata a casa, salutai e abbracciai Didi – che continuava a comportarsi da malato terminale nonostante la sua salute fosse visibilmente migliorata – e mi gettai nel letto, saltando bellamente la cena. Forse per pietà verso me e la mia faccia da uovo strapazzato, non mi sottopose a nessun interrogatorio imbarazzante.
    La mattina dopo, mentre ancora sonnecchiavo, un piacevole odore di caffè mi raggiunse le narici. Mi rivoltai nel letto, e sentii una mano tra i capelli.
    «Buongiorno, piccola Sissi».
    Mi voltai nella direzione da cui proveniva quella voce e misi a fuoco Didi, che indossava ancora i suoi occhiali dalle lenti troppo grandi, seduto sul mio letto. Sentivo di avere una palpebra ancora saldamente chiusa.
    «Non uccidermi per il prematuro risveglio, ti ho portato la colazione».
    Ucciderlo? A malapena ricordavo chi fossi e come si muovesse la bocca. Mi guardai intorno. Ero nella mia stanza.
    «Che faccia da pesce palla».
    «Ripetilo e rivaluterò l'idea di non ucciderti».
    «Ora ti riconosco. La vuoi, la colazione o no?».
    Colazione?
    Mi appoggiai con la schiena alla testata del letto e mi vidi mettere davanti un vassoio stracolmo: c'erano una tazza di caffè, pane, burro, marmellata, cereali, una lattiera, del succo di frutta, miele e perfino dei biscotti.
    Scrutai scetticamente tutto quel ben di Dio. «Hai svaligiato un supermercato? Potrei sfamarci una squadra di calcio, con tutto questo».
    «Sempre a lamentarti, non ti va mai bene niente». Incrociò le braccia, scocciato.
    Mi sentii un po' in colpa e sorrisi. «Mi va benissimo. Grazie». Comunque non mi spiegavo tutta quell'attenzione e come mai non fosse al lavoro. Cominciai a spalmare del burro su un cracker. «Sei ancora in malattia o hai detto a Ferdinand che non saresti andato a lavorare nemmeno oggi?».
    «Sono ancora meravigliosamente in malattia».
    «E mi hai preparato questo splendido pasto luculliano perché ti sono mancata tanto?».
    Fece spallucce e mi sembrò discretamente adorabile. «Sì, mi andava». Dopo che ebbe parlato, mi sembrò assolutamente adorabile.
    Sorrisi senza farmi domande e gli schioccai spontaneamente un bacio sulla guancia. Quel gesto parve stupirlo molto.
    «Sai, ti trovo molto meglio così», disse dopo un po' che ruminavo cibo.
    «Così come?».
    «Così...», gesticolò con le braccia nel tentativo di spiegarsi, «così... non lo so, rilassata. E calorosa. Ti guardo e sei molto più luminosa. Preferisco questa versione di te alla solita Elsa nervosa, irascibile, fredda, scostante, intollerante, diffidente...».
    «D'accordo, basta così», lo interruppi. «O potrei montarmi la testa».
    «Guarda che è una cosa bella. Non che non ti volessimo bene prima, ma così sei molto più... più tu. Eri così quando ti ho conosciuta, più o meno».
    «Spiegati meglio». Mi sentivo in imbarazzo per la piega che stava prendendo la conversazione, ma c'era in me un certo interesse e lasciai che Didi continuasse a parlare.
    «Ora è molto più facile starti intorno e comunicare con te. Ascolti, partecipi alle conversazioni, non bisogna più elemosinare una risposta ad una qualsiasi domanda o considerazione e le minacce di morte sono scherzose e non così frequenti come prima. Fino a qualche settimana fa ancora rispondevi male a qualsiasi cosa ti venisse detta e ti irritavi per niente. Eri sempre un fascio di nervi e per rilassarti dovevi essere sicura di star sola». Fece una pausa. «Per carità, io ho sempre saputo chi sei realmente. Sapevo che il tuo comportamento era solo il prezzo che pagavi per tutte le barriere che mettevi tra te e il mondo, per tutta la solitudine che ti obbligavi a patire, ma non vedevo comunque l'ora che la finissi di chiuderti in quel modo».
    Ero così colpita che avevo smesso di mangiare. Posai il cracker alla marmellata e ingoiai. «La mia opinione sul mondo e sulle altre persone non è cambiata».
    «Può darsi, ma hai fatto entrare qualcun altro nella tua vita, o sbaglio? Ti sei permessa di essere felice».
    Sospirai. «Vorrei poter dire che è merito mio».
    «Cioè?».
    «Intendo dire che in realtà io ho fatto poco e niente. È stato Tom che ha insistito per entrarci. Ha praticamente sfondato le mie barriere, anche se ammetterlo mi imbarazza a morte e mi costa. E ne ha ancora molte da superare. Ammesso che gli interessi farlo, perché personalmente non vedo un solo motivo per cui qualcuno dovrebbe essere interessato a me. Specialmente uno come lui».
    Didi alzò gli occhi al cielo. «Non fare la teenager insicura, per favore».
    «Non hai capito. Intendo che io ho ventitré anni, lui diciotto. È una rockstar ed un teenager, praticamente, e tutti e due sappiamo che i ragazzi a quell'età non sono esattamente l'immagine della maturità. Mentre io ero, sono, una ragazza chiusa che si fa un sacco di paranoie, più grande, ed ho la stessa capacità di socializzare di un eremita. Era questo che volevo dire».
    «Ti stai contraddicendo, lo sai? Prima dici che è merito suo se è entrato nella tua vita perché ti ha rotto le palle fino a sfinirti. Poi dici che non è interessato a te, che avete due caratteri diversi, tu sei grande e matura e problematica e lui è un ragazzino infantile che non guarderebbe mai attraverso i tuoi muri perché gli costerebbe troppa fatica».
    «Ma insomma!», m'infervorai. «Non esasperare la questione così, sono vere entrambe le cose. Quello che voglio dire è che non so quanto seria sia questa... cosa che sta in piedi tra noi due, perché nonostante si veda che si è impegnato per costruirla con me, non ha esattamente a che fare con una ragazzina alle prese con la sua prima storia, ma con un'adulta che bada a se stessa da un bel po' di tempo e, se mi permetti di dirlo, con un bel po' di cicatrici».
    Didi mi sorrise, comprensivo, rimettendomi in mano la tazza di caffè con fare amorevole. «Cicatrici o no, non è necessario che andiate in terapia di coppia ora per risolvere i problemi di domani, o che raccontiate il vostro passato l'uno all'altra al suono di un violino. Sono cose che vengono col tempo, senza correre».
    La prospettiva riusciva ad atterrirmi. Il mio passato faceva ancora male a me, come potevo raccontarlo a qualcun altro?
    Accantonai quelle domande senza risposta e bevvi del caffè.
    «Intanto puoi essere sicura che le sue intenzioni sono delle più serie. Ci tiene a costruire qualcosa con te».
    Lo guardai scettica. «E tu che ne sai?».
    Sfoderò un sorriso furbo. «Altrimenti perché un ragazzino diciottenne che fino a poco fa pensava solo a spargere il suo seme, pardon, il suo verbo, si sarebbe sbattuto tanto per conquistarti?».
    Abbassai lo sguardo e sorrisi anch'io, segretamente lusingata.
    «Come sei carina», squittì Didi stringendosi i pugni al petto – coperto da un orrendo pigiama a righe e coniglietti.
    Ecco, ora lo riconoscevo. Da lusingata mi sentii imbarazzata e con le guance in fiamme.
    «Oddio, tu stai arrossendo per Tom!!! O mio Dio!».
    Volevo affondare la faccia nel cuscino ma non potevo. «Ti prego, smettila».
    «Sei da immortalare però, sappilo. E sappi anche che oggi passeremo la giornata fuori».
    Fuori? «Perché!? Sono tornata ieri sera, devo ancora riprendermi dal viaggio e sono intenzionata a stare a letto fino a quando il mio culo non prenderà la forma del materasso».
    Didi guardò l'orologio della mia sveglia, poi mi scoccò un'occhiata omicida che doveva somigliare molto ad una delle mie. «Hai dormito quattordici ore da ieri sera, il tuo culo ha già la forma del materasso. E poi ti sto chiedendo di passare una giornata con me perché non lo facciamo da secoli. Devo chiedere un appuntamento, travestirmi da Tom, usare metodi coercitivi, fare una telefonata o cosa?».
    Alzai gli occhi al cielo, sorridendo bonariamente. «Mi perdoni, vostra maestà. Il tempo di mangiare, di vestirmi e di restaurarmi e verrò con te anche in capo al mondo».
    «Accidenti, a sentirti parlare sembri quasi me».
    «Sii fiero di te allora».
    «Non ho bisogno di te per essere orgoglioso di me stesso», si alzò e, naso per aria, uscì dalla mia stanza sculettando vistosamente.
    Risi.
    Dopo aver ingerito una quantità di cibo sufficiente a vivere per tre giorni, lasciai che Didi mi facesse da consulente di immagine per vestirmi. Non mi spiegavo tutte quelle attenzioni e tanto interesse, ma non mi feci domande. Lasciai che creasse per me un outfit, come lo chiamava lui, romantico, sui toni del beige e del rosa antico. «Si addice ai riflessi dei capelli e alla nuance della pelle», diceva ogni volta che protestavo. Non avevo idea di cosa stesse parlando. Avevo i capelli rosa? E cos'era una nuans?
    Di nuovo, tacqui. Insistette perfino perché indossassi un paio di stivali con il tacco – chissà da dove li aveva scovati, dato che non ricordavo della loro esistenza – e nemmeno provai ad oppormi: sarebbe stato inutile.
    Quando scendemmo in strada – riuscivo miracolosamente a non traballare sui tacchi – Didi mi sfilò le chiavi della macchina di mano.
    «Guidi tu?», chiesi sorpresa.
    «Guido io. Obiezioni a riguardo?».
    «Nemmeno una». E comunque il suo sopracciglio alzato e la sua area di superiorità avrebbero mortificato anche qualcuno molto più coraggioso di me.
    Ci accomodammo in macchina. «Dove andiamo?», chiesi.
    «Vedrai».
    Dopo circa mezzora, in cui lottammo contro il traffico, Didi spense la macchina in un parcheggio nella zona centrale di Amburgo.
    «Perché siamo venuti qui?», domandai.
    «Vedrai», ripeté, e scese.
    Scesi anch'io, stizzita, avendo cura di pestare il piede per terra e di sbattere lo sportello della sua macchina. Sogghignò alla mia reazione, e mantenne un'espressione divertita per tutto il tempo in cui lo seguii a piedi.
    «Insomma, Diedrich, mi dici dove stiamo andando?». Nonostante fosse marzo il cielo era come al solito grigio e c'era un forte vento freddo che mi spettinava. Odiai pure quello.
    «Possibile che tu non sappia aspettare due minutini? È una sorpresa!».
    «Io odio le sorprese, ti ricordo».
    «Questa l'amerai».
    Scettica, non replicai. Arrivammo in prossimità dello Stadtpark, uno dei parchi centrali di Amburgo, ed entrammo. Davanti a noi si srotolava un lungo sentiero verde, con fitte file di alberi ai lati. Era uno dei parchi più belli, per me, e mi guardai intorno incantata dal verde e dalla natura.
    Quando ci fermammo, vidi un magnifico edificio in cotto dalla forma allungata e simmetrica che proiettava il suo riflesso in un grande specchio d'acqua rettangolare che si allargava davanti a noi. Una meravigliosa cascata vi si riversava dentro.
    Ammirai incantata quel panorama. «Il Planetario?».
    «Sapevo che hai sempre voluto venirci e ho pensato che oggi fosse una buona occasione. Buon compleanno, Sissi».
    L'emozione e la sorpresa mi invasero e andai in iperventilazione. Guardai Didi con occhi sgranati, mentre lui mi sorrideva, radioso, stringendomi la mano.
    «Cosa?», chiesi con voce sottile.
    «Oggi è il 24 marzo. È il tuo compleanno. E anche se sapevo che te ne saresti dimenticata, volevo fare comunque qualcosa di speciale».
    Di regola, io odiavo le gentilezze, le sorprese, o qualsiasi cosa che mi mettesse al centro dell'attenzione. Mi irritava e imbarazzava esserlo. Ma quel gesto da parte di Didi, così organizzato e pianificato, così carino e genuino, mi commosse. Faceva capire più di quanto non dicesse.
    Mi sentii sopraffatta dal bene che volevo al mio migliore amico, e, con gli occhi gonfi di lacrime, gli gettai le braccia al collo e lo strinsi. «Grazie». Fu per lo più un miagolio, ma ero incapace di dire altro. Perfino i miei pensieri sembravano congelati dall'emozione.
    «Elsa, sto soffocando».
    Allentai la presa e gli sorrisi. Lui mi asciugò le lacrime con i pollici.
    «Sto diventando sentimentale», pigolai.
    Rise ed entrammo. Mi sentivo perfettamente felice.
    Quando il meraviglioso spettacolo speciale per musicisti al Planetario terminò, Didi ed io entrammo nel caratteristico negozio, dove osservammo tutti gli articoli ispirati al posto e ridemmo delle costose cianfrusaglie più assurde per turisti. Tuttavia mi incantai ad osservare uno splendido carillon a forma di globo su uno degli scaffali: era in vetro blu, con un sostegno di spessi cordoni scanalati in argento che si intrecciavano per poi ramificarsi intorno alla sfera illuminata dall'interno.
    Didi mi invitò anche a pranzo fuori, ma entrambi non avevamo molta fame, dopo la colazione super abbondante di quella mattina, quindi ci limitammo a mandar giù un leggerissimo passo a base di cotoletta di pollo e broccoli in una bäckerei. Dopo, con incrollabile entusiasmo e ignorando i miei piedi già doloranti, il mio amico mi trascinò in un centro commerciale e mi costrinse a fare shopping. In realtà non ebbe bisogno di insistere molto, perché nonostante il dolore, mi sentivo così ben disposta e di buonumore che l'idea di spendere un po' dei miei soldi in vestiti e accessori per una volta mi allettava e basta, invece di annoiarmi.
    Lanciammo i sacchetti nel bagagliaio della macchina e vi risalimmo quando erano ormai le sette del pomeriggio passate. Mi facevano davvero male i piedi per la giornata sui tacchi, ma non volli rovinare l'atmosfera con le mie polemiche. <
    «Sono felice», confessai invece, quasi vergognandomi. Dovevo imparare a vedere il mondo con più positività, me lo ripromisi in quel momento.
    «E non è ancora finita», rispose Didi con un tono di voce pieno di promesse.
    A quel punto mi sentii autorizzata a tremare, in silenzio: il mio amico non mi avrebbe comunque rivelato niente. Didi insistette per portare tutti i sacchetti degli acquisti – non che dovesse fare tanta strada, dall'automobile all'ascensore – fino a casa.
    Aprii con la mia copia delle chiavi e cercai nel buio l'interruttore dell'abat-jour sul tavolino accanto alla porta. Intanto pensavo ad un lungo e rilassante bagno agli oli essenziali, con musica classica, candele al profumo di vaniglia, bolle – tante bolle – e...
    «Sorpresa!!!».
    La luce si accese, ma non quella della piccola lampada che cercavo: la grande plafoniera che pendeva sul tavolo della cucina illuminò Bill, Gustav, Benjamin, David, Erika, la cugina di quinto grado che mi aveva aiutata ad ottenere il lavoro per i Tokio Hotel, Georg con Bea, e perfino Sven. Sven! Il senso di orrore che la sua vista scatenò fu presto spazzato via dall'estremo stupore per la presenza di tutta quella gente e per i palloncini colorati che addobbavano ogni angolo della cucina di casa mia. Feci due passi incerti verso tutta quella folla, mentre con gli occhi cercavo di vedere il più possibile per rendermi conto di ciò che avevano combinato. Sul tavolo allargato e apparecchiato per tutti ed undici, campeggiavano tante ciotoline e piattini pieni dei cibi più disparati e al centro spiccava una grossa torta alta e tonda, piuttosto semplice: sulla copertura di pasta di mandorle color crema, una bordatura di cioccolato tracciava un pentagramma che, per quanto vedevo, ne percorreva tutto il contorno. Al posto delle note musicali, c'erano delle lettere disposte in modo asimmetrico che formavano una scritta deliziosamente ondulata: Tanti auguri. Sulla sua sommità era incastrata una candela accesa, immediatamente prima il disegno di una chiave di violino composto da rose rosse di zucchero. Un ventiquattro di cioccolata dalle linee allungate ed eleganti si accostava alla chiave in un complesso perfettamente armonico e fine.
    Il cuore mi batteva all'impazzata. Non mi capacitavo di tutto quel che vedevo e di ciò che capivo essere successo mentre ero via. Mi portai le mani a coprire la bocca e contemporaneamente sentì un riff di chitarra. Era un accordo di do, lo riconobbi subito. Quando mi voltai, vidi Tom appollaiato su una sedia accanto alla porta del corridoio, che imbracciava una delle sue chitarre elettriche, collegata ad un piccolo amplificatore. Aveva un sorrisetto compiaciuto stampato sul viso che si allargò quando incontrò il mio sguardo emozionato. Ad un suo cenno, tutti intonarono la famosa canzone d'auguri di buon compleanno, accompagnata dalla sua base.
    Voglio piangere.
    Mentre formulavo quel pensiero e contemporaneamente mantenevo la mia intelligentissima espressione sconvolta e commossa, Didi mi prese delicatamente la mano e mi guidò dolcemente dietro la torta. Quando la canzoncina finì, soffiai sulla candela e qualcuno stappò una bottiglia.
    Non ebbi bisogno di esprimere un desiderio. Tutto era perfetto.
    Fui stretta da braccia sempre diverse: Didi, il più vicino, che mi stampò un sonoro bacio sulla guancia, Benjamin, Erika, che salutai calorosamente, seguita da David, Gustav, Georg e Sven, che mi abbracciarono augurandomi buon compleanno.
    Bea mi tenne stretta un attimo in più degli altri. «Auguri, piccola Sissi», mi sussurrò, e mi strinse le mani in un raro gesto di tenerezza e affetto, così insolito da parte di Bea. Tentava di nascondere l'emozione ma i suoi occhi azzurri e liquidi la tradivano.
    «Ti credevo a Nizza con Georg», miagolai.
    «Siamo tornati prima. Non potevo perdermi il tuo compleanno, diamine!». Due lacrime le rotolarono sulle guance arrossate e sparirono nel suo sorriso. Quasi fossimo in simbiosi, la vista si offuscò anche a me.
    Non era il primo evento di quel genere che festeggiavamo insieme, e non sarebbe stato l'ultimo, ma in passato non avevamo mai pianto. Anzi, ridevamo delle nostre condizioni, qualsiasi esse fossero.
    Dopo anni di sofferenze, solitudine e dolori, di compleanni passati davanti ad una pizza e ad una birra a brindare a quanto fossimo sfigate, mi resi conto che tutto era diverso ormai. Non seppi mai cosa pensò lei, ma io, guardandola negli occhi, ripercorsi tutti gli anni passati nella tristezza della mia solitudine per gran parte autoindotta e li confrontai con l'immensa gioia che mi riempiva in quel momento.
    Volli dirle quanto le volevo bene, quanto profondamente le ero affezionata e un sacco di altre frasi al saccarosio, ma qualcuno ci separò rudemente.
    «Largo, largo, fatemi augurare buon compleanno a nonna Sigrid», berciò una voce maschile e profonda.
    Frugai disperatamente nella mia testa alla ricerca di qualcosa di brillante e caustico da rifilare a Tom, ma non trovai nulla. Perfino la vocina era silenziosa, tramortita da tanta positività. Quindi, mandando al diavolo prudenza, riservatezza, paranoie e svariati comizi di vocine saccenti e antipatiche, gli gettai le braccia al collo e lo baciai.
    Lo colsi così alla sprovvista con i mio gesto che si sbilanciò un attimo all'indietro e dovette reggersi al tavolo con una mano per rimanere in equilibrio. Mi sentii un'adolescente innamorata: leggera, spensierata, semplicemente felice.
    E con questo, direi che la vostra relazione non potrebbe essere più palese.
    Fu un bacio brevissimo ma intenso, con ululati e applausi degli altri come sottofondo. Sorrisi a Tom, che per dispensa divina non fece commenti umilianti su quello slancio d'affetto, anzi, mi ricambiò semplicemente. Forse era felice quanto me. Sperai che fosse così, che sentisse quanto tangibile e reale fosse la mia gioia e che ne fosse partecipe.
    Continuai a sorridere come un'idiota anche quando posai gli occhi sullo sguardo rannuvolato di Sven e quello mite di Bill.
    Il successivo silenzio e gli sguardi di aspettativa di tutti mi comunicavano che dovevo dire qualcosa. Con il cuore che ancora mi martellava contro il petto e scandiva velocissimo il tempo come un metronomo, lasciai il braccio di Tom che mi cingeva la vita esattamente dov'era – avevo bisogno di un supporto per tenere un discorso nello stato d'animo in cui mi trovavo – e mi schiarii la voce.
    «Ehm». Pessimo inizio. «Ehm...». Ancora! Ero bloccata dall'emozione, ma mi imposi di disciplinarmi. Feci un respiro profondo e ci riprovai. «Vi ringrazio tantissimo per questo gesto». Okay, ero riuscita ad articolare la prima frase sensata. Vai avanti, Elsa. La voce che mi parlò mi fece venire in mente mia madre, anche se non avevo mai ascoltato il suo tono di voce. Mi fu d'incoraggiamento. «Non so nemmeno esprimere quanto apprezzi tutto questo. Quanto...», e questa era la parte estremamente difficile, ma le parole stavano finalmente venendo fuori, «significhi per me. Nessuno si era mai preso la briga di organizzare qualcosa del genere. È tutto così programmato e studiato nei minimi dettagli, meraviglioso. Per la prima volta nella mia vita mi sento», respiro profondissimo, «parte di una famiglia. Ed è solo merito vostro. Tutto questo non ha prezzo. Grazie, grazie, grazie».
    «Ormai fai parte della nostra famiglia, Elsa», mi stupì David, mettendomi in mano un bicchiere di quello che immaginavo fosse spumante. «Schizofrenia, psicosi galoppante e tutto il resto».
    «Solo una schizofrenica psicotica poteva riuscire ad entrarci e a sopravviverci, tra l'altro», concluse Benjamin.
    «Auguri, nonna Sigrid», mi sussurrò Tom all'orecchio.
    Brindammo a me tutti insieme.
    Ero al centro dell'attenzione, tutti gli occhi erano su di me, ma non mi sentivo imbarazzata, né nervosa, né infastidita. Era una dimensione del tutto nuova. Così piacevole, così serena, lontana anni luce dal nervosismo che ricordavo essere sempre stato parte di me.

    «Voglio sapere di chi è stata l'idea», dissi dopo un po', masticando. Ci eravamo seduti intorno al tavolo della cucina e da almeno mezzora, tra chiacchiere e risate, stavamo consumando tutta la – considerevole – quantità di cibo che c'era.
    «Mia, ovviamente», disse Bea con alterigia.
    Benjamin fece un gesto snob con la mano. «Sciocchezze. È stata mia».
    «Ma che dici, è palese che sono stato io ad idearla e proporla», intervenne Sven, che cercava dall'inizio della serata di comunicare col volgo.
    «Certamente, Oxford», lo prese in giro Gustav – lui e Sven andavano piuttosto d'accordo. «In realtà è tutta farina del mio sacco».
    Risi, ma fui distratta da Didi che osservava con espressione da folletto malizioso Tom, seduto accanto a me, che tagliava concentratissimo e in religioso silenzio una mozzarella. «Tom?», cantilenò il mio amico. «Non dici la tua?».
    «In realtà è stata un'idea mia», disse a bassa voce, senza guardarmi. Gli altri continuarono a scherzare in sottofondo.
    Fui così stupita che mi trattenni dal guardarlo con occhi sgranati solo per non offenderlo. Il cuore aveva ripreso a battere fortissimo, toccato dalla modestia, quasi dall'imbarazzo che emanavano dalla voce di Tom.
    Non avrei mai creduto che fosse capace di tanto di affetto, di tanta cura e considerazione. Pensavo fosse il ragazzo incapace nelle relazioni e negli approcci con gli altri, che manteneva la maschera da duro, borioso e insensibile e da cui mi sentivo attratta come una calamita dal ferro per qualche oscura e incomprensibile ragione.
    Eppure in quel momento la intuii. Tutto fu chiaro.
    Sapevo che quella del ragazzo stronzo e menefreghista era una facciata ma non mi ero mai soffermata razionalmente su quello che c'era dietro. In quell'istante però sì, e considerai sotto quella nuova luce tutto il tempo che avevo passato con Tom.
    Tom che mi aveva seguita quando ero scappata dalla sala da pranzo della casa di mio padre. Tom che mi chiedeva preoccupato se stessi bene la sera in cui mi ero lasciata sconvolgere dall'album di fotografie di mia madre. Tom che si soffermava a pensare alla mia opinione sull'amore e me ne parlava, che mi offriva il pranzo e mi consolava per la freddezza di mio padre verso di me in una pungente domenica di febbraio. Tom che osservava di nascosto le mie abitudini e carpiva i miei stati d'animo per poi sorprendermi, che mi faceva complimenti mascherandoli da provocazioni, che mi difendeva da un tizio ubriaco in una discoteca, che si informava sul mio compleanno e si prendeva la briga di organizzarmi una festa a sorpresa.
    Pensai che metteva sempre suo fratello e la sua famiglia al primo posto, che riversava tutta la passione di cui era capace nel suo lavoro, che si esprimeva a gesti e a fatti, più che a parole.
    Nonostante tutti i difetti di facciata, nel profondo Tom era buono. Sensibile. Generoso. Discreto e riservato per non sbandierare le sue doti, tuttavia abbastanza comunicativo da esprimerle con azioni concrete.
    Lo stavo comprendendo davvero solo in quel momento, il perché ero attratta da lui. Non per la facciata, ma per ciò che c'era dietro.
    E in quel frangente, una potentissima verità dalla portata così elementare a cui non avevo mai pensato realmente mi colpì con la forza di un ariete: ero innamorata persa di Tom. Del vero Tom, di quello che stavo imparando a conoscere e che mi sorprendeva ogni giorno. Finalmente stavo scoprendo cosa c'era in lui.
    «Terra chiama pianeta Elsa, rispondete, rispondete! C'è segnale in quel vuoto cosmico?».
    Avevo preso a fissare immobile il mio piatto pieno senza vederlo realmente, ma quando mi sentii richiamare, fissai lo sguardo su Didi, che mi sventolava una mano davanti. Mi sentivo così frastornata da quello che avevo appena capito da non avere la presenza di spirito di rispondere a tono.
    «Elsa, ti senti bene?», chiese Erika. «Sei pallida».
    «Elsa?». Era la voce di Sven.
    Anche gli altri mi fissavano preoccupati. Dovevo dire qualcosa, giusto?
    «Sì, sto bene».
    Tutti si rilassarono un po'.
    «A cosa pensavi?», chiese Georg.
    Non avrei mai e poi mai risposto sinceramente a quella domanda. «Mi chiedevo chi ha cucinato».
    Ingiustificato scoppio di risa da parte di tutti. Tuttavia Didi mi guardava serio gli occhi assottigliati. Avrei dovuto subire il suo terzo grado, dopo.
    «Sei pazza se pensi che qualcuno di noi si prenderebbe la briga di cucinare», rispose Gustav. «E poi non volevamo avvelenare nessuno».
    Sorrisi.
    «Io ho preparato la torta, però», annunciò Bea con aria orgogliosa.
    «Noi abbiamo preparato la torta», la corresse Georg.
    «Stendere la pasta di mandorle può considerarsi preparare una torta?».
    «Comunque è importante».
    Non volevo ribadire quanto significasse per me tutto ciò che avevano organizzato, quindi rimasi in silenzio e ascoltai divertita i battibecchi tra Bea e Georg, conditi dalle risate e dai commenti aggiunti di tutti gli altri. Eravamo un gruppo piuttosto eterogeneo, ma tutti sembravano inserirsi e comunicare bene. Erika non sembrava affatto turbata dalla popolarità dei ragazzi, Sven sembrava disinvolto e a suo agio, Bill andava molto d'accordo con Didi e Bea.
    Osservavo le persone intorno a me, quell'unica persona speciale accanto a me, sentendomi così disperatamente felice che avrei potuto abbracciare tutti e sciorinare frasi e parole sdolcinate a chiunque.
    Dopo aver sparecchiato ogni genere alimentare presente sul tavolo, Bea tirò fuori la torta dal frigo e ripetemmo la scena del soffio sulla candela. Mi aiutai con un coltello per distribuire pezzi di torta a tutti e la gustammo nella stessa atmosfera rilassata e colma di risa e scherzi.
    Dopo il pezzo di torta, volevo fumare. Tutti avevano già fumato, così mi arresi all'idea di andare da sola. Presi le sigarette dalla borsa e uscii nella veranda del cucinino, fiocamente illuminata dalla luce dell'interno. Mi appoggiai allo stipite e accesi una sigaretta.
    C'era molto più silenzio rispetto al chiasso della cucina. Fumai in pace, godendomi quella tranquillità e l'aria fresca. Mi concessi una pausa da tutte le emozioni che avevo provato nel corso della giornata.
    Mi voltai quando sentii dei passi. Era Sven, che avanzò nella semioscurità e si appoggiò allo stipite di fronte a me. Ovvio che si aspettasse un confronto dopo la scena del bacio con Tom. Me lo sarei dovuta aspettare.
    «Fumi ancora», osservò con aria casuale. E lui odiava ancora il fumo.
    «Sì, lo so. Dovrei smettere».
    «Dovresti».
    Ci guardammo in silenzio. S'infilò le mani nelle tasche e sospirò, sciogliendo la posa rigida della schiena. Era la stessa persona che conoscevo da tanti anni, quella con cui ero stata così in sintonia, con cui avevo condiviso così tanto. Ci avevo messo una pietra sopra da molto, ormai, ma ciò che c'era stato non poteva sparire, e in quel momento aleggiava inespresso tra noi e i nostri sguardi.
    «Sven, parla. Stai morendo dalla voglia di dirmi qualcosa», lo spronai alla fine. Aveva gli occhi pieni di pensieri taciuti, lo potevo capire benissimo. Lo conoscevo.
    Non rispose subito. «L'hai baciato», sussurrò alla fine, guardandomi.
    «Sì».
    «State insieme».
    «Sì».
    «E tu... sei sicura di quello che stai facendo? Non è troppo piccolo?».
    «Sven, non preoccuparti di questo. Non preoccuparti per me».
    «Non posso non preoccuparmi per te, Sissi. Lo sai».
    Sospirai e picchiettai sulla sigaretta per far cadere la cenere. «Non ti riguarda più ormai. Ti prego, non rovinare tutto».
    «Elsa, voglio essere sincero con te. Non puoi chiedermi di comportarmi solo da amico, sai quello che provo per te e che è una richiesta irragionevole. Quindi se vengo qui e vedo che baci un'altra persona, una per cui lavori, tra l'altro, non posso restare in silenzio».
    Cos'avrei dovuto rispondere? Fatti gli affari tuoi? Troppo crudele. Ti amo ancora? Non era vero.
    «Io sono sicura che puoi considerare la situazione da un punto di vista più realista», dissi.
    «Ossia?».
    «Noi ci siamo lasciati. Da un po'. Sai perché e voglio risparmiarti come sono stata dopo che te ne sei andato».
    «Quante volte devo dirti che mi dispiace?».
    «Non è questo il punto, Sven. Tu hai scelto cosa volevi, hai scelto per te stesso. E va bene così, è giusto che tu scelga sempre ciò che ti sembra giusto per te. Ti prego, lascia che io faccia lo stesso».
    Mi scrutò. «Quindi lui ti rende felice?».
    «Sì. Quello che c'è stato tra noi è stato importantissimo e lo sai bene. Ma, Sven, è finita. Ho rinunciato da tempo all'idea di aspettarti». Feci una pausa, in cui aspirai. Selezionai con cura le parole da dire. «Mi hai persa nel momento in cui hai scelto di andartene. E l'hai voluto tu».
    Sembrò colpito, esattamente come volevo io. «Eppure tu sai che non c'è mai stata nessun'altra per me».
    Eccolo, il contrattacco perfetto. Mi conosceva bene e sapeva che una frase del genere, vera o meno, avrebbe sbaragliato le mie difese. Alzò una mano e me la posò sulla guancia. La poca luce rendeva l'atmosfera ancora più intima. «Sai bene cosa provo per te», si avvicinò.
    No, no, no. Era tutto sbagliato. Non doveva andare così. Io non volevo lui, non lo amavo più. E ciò che provavo in quel momento era dovuto solo all'influenza dei ricordi, nient'altro.
    Allontanai la mano, cercando di non essere troppo rude e voltai il viso, aspirando ancora. «Ci ho messo una pietra sopra. Fallo anche tu, Sven».
    Sembrò arrendersi. Fece un profondo sospiro e si scostò una volta per tutte. «Non è troppo immaturo per te?».
    «Vuoi chiamarmi nonna anche tu?».
    «Sai cosa intendo».
    Sorrisi. «No, non lo è. Anzi, tira fuori la parte più spensierata di me».
    «Quindi hai solo bisogno di un po' di leggerezza».
    Ci volevano le maniere forti. Avevo sperato di non doverci arrivare. «Sven, non ti ostinare a minimizzare. Sono felice con lui, voglio lui. E non dovrei nemmeno dirtelo, perché non ti riguarda più».
    «Ho capito».
    Lo guardai. In quelle due parole c'erano molti più significati di quanti non ne esprimessero. Aveva capito ciò che provavo per Tom. La determinazione con cui l'avevo rifiutato l'aveva convinto di non avere più nessuna possibilità. E aveva capito che, se avevo resistito al torchio della confidenza, dell'intimità e dell'intesa che c'era tra noi, i sentimenti che provavo per Tom erano reali e forti.
    Dopo un tempo che parve interminabile, sorrisi e spensi la sigaretta nel portacenere. «Torniamo di là».
    Attraversammo il cucinino e tornammo nel salotto.
    Era cambiato. I piatti di plastica con le posate e gli avanzi di torta erano stati tolti di mezzo, le sedie rimesse a posto e ora sul tavolo c'erano quattro pacchi regalo.
    «Voi siete pazzi», affermai con convinzione alla folla che, chi in piedi, chi seduto, riempiva la cucina. Era troppo, davvero troppo. Capii perché mi avevano lasciata andare da sola a fumare.
    «Sì, sì, sì, non avremmo dovuto farlo, bastava la festa, eccetera eccetera», mi liquidò Bea.
    «Ora aprili». Didi applaudì eccitatissimo.
    «Sembri Bill quando qualcosa gli riesce bene», osservai sorridendo.
    «Meno male che ci siamo noi a mostrare un po' d'entusiasmo», s'offese Bill incrociando le braccia.
    «Io sono assolutamente entusiasta», sorrisi e mi avvicinai ai tre pacchi. Uno era molto alto, incartato in un foglio verde e un nastro azzurro. Il secondo, rosso e dorato era molto più piccolo: una scatolina rettangolare, lunga sì e no dieci centimetri e larga quattro. Oltre a quella c'era la confezione regalo di una profumeria e accanto, un'altra piccola scatolina quadrata, turchese. La presi per prima.
    «Quella è da parte di noi quattro», disse Gustav, indicando se stesso, Georg e i Kaulitz. Sfilai il nastro e la aprii: su un cuscinetto bianco era adagiato un plettro in legno scuro. Me lo rigirai tra le dita: era piuttosto grande e molto duro, adatto allo stile rock e metal. Osservandolo meglio notai un'incisione su entrambi i lati. La prima delle due scritte recitava Per Elsa e la seconda, sull'altro lato dai Tokio Hotel.
    Lo adoravo, ne ero assolutamente conquistata. Accarezzai la superficie, mordendomi un labbro. «Che pensiero bellissimo, ragazzi. Grazie».
    «Lo dicevo che le sarebbe piaciuto», disse Georg.
    «Chi ne dubitava?», chiesi. Come potevano pensare che qualcosa di così personale non mi piacesse?
    «Io». Ovviamente era Bill.
    «Voleva regalarti una trousse e un set di pennelli», scherzò Tom. Tutti risero, tranne Sven, che si limitò a stiracchiare le labbra.
    «Simpatico», disse Bill con una smorfia. «Avevo in mente qualcosa di più... scenografico».
    «Il plettro è stupendo e va benissimo, Bill. Siete stati fantastici».
    Didi sbuffò, impaziente. «Vogliamo andare avanti?!».
    Riposi il plettro nella sua scatolina e scartai il pacco più grande, che m'informarono essere da parte di Didi e di Bea. Con mia sorpresa, appena sollevai il coperchio, le alte pareti di cartone caddero, rivelando il carillon a forma di globo illuminato di cui mi ero innamorata al Planetario quello stesso giorno.
    «Oh, mio Dio». Mi portai le mani alla bocca. Costava una fortuna e l'avevano comprato. L'avevano comprato!!! «Didi, Bea, è... siete due matti, irresponsabili, avventati e...». Mi mancarono le parole. «Ed è meraviglioso. Grazie».
    Incontrai i loro sorrisi soddisfatti. Didi, oltre a sorridere, saltellava felice come un coniglietto pasquale.
    Dovetti staccar gli occhi dal meraviglioso carillon per aprire la scatola di Erika.
    Era un profumo.
    Non ero così entusiasta – era il classico regalo per una cugina che non si conosceva bene – ma la ringraziai comunque con calore.
    Afferrai l'ultima scatola, quella rettangolare. «E questa di chi è?».
    «Da parte mia, di David e di Patrick, che stasera non è potuto venire», disse Benjamin.
    Ah, ero proprio curiosa. La scartai in fretta e afferrai la scatola simile ad una custodia per occhiali, ma più fine. Conteneva un elegante bigliettino bianco, lungo, con delle scritte in argento. Inclinai il cartoncino ruvido per leggere. C'erano due numeri di telefono e immediatamente sopra, un nome. Rick Rubin.
    Sgranai gli occhi e, continuando a leggere, urlai.
    Non fu un urletto contenuto ed eccitato, da ragazzina felice. Strillai come un'ossessa, saltando sul posto – avevo tolto gli stivali da un po' a favore di un pratico paio di ballerine – e fissando il cartoncino che stringevo tra le dita.
    Quando finii, tutti si erano messi le mani sulle orecchie e avevano un'espressione sofferente. Li guardavo ancora sconvolta.
    «Credo che sia il suo modo di dirci che ne è entusiasta», disse David.
    «Anche se siamo tutti sordi», commentò Gustav.
    «Rick Rubin?!», gridai. «Cazzo! Cazzo, cazzo, cazzo! Rick Rubin!». Era il numero di telefono di Rick Rubin!
    «Qualcuno può spiegare anche a noi profani chi è questo tizio?», chiese Sven.
    «È un famosissimo produttore discografico americano», spiegò Benjamin. «Ha lavorato con pezzi grossi come i Linkin Park, Johnny Cash, Shakira, i Sistem of a Dawn...».
    «Red Hot Chili Peppers...», completò Gustav.
    «Slipknot...», aggiunse Georg.
    «Ed era a Miami la settimana scorsa. L'abbiamo incontrato e gli abbiamo parlato di te. Gli abbiamo anche mandato alcuni tuoi lavori», continuò David. «Era molto interessato. Attualmente abita a Malibu. Ha dei contatti con lo studio Musart Records, a Los Angeles».
    Ero sempre più sbalordita. Il Musart era uno degli studi di produzione discografica più famosi del mondo e mi si stava presentando l'occasione di lavorare lì.
    «Abbiamo davvero grande stima del tuo talento, Elsa», prese la parola Benjamin, «e vorremmo che continuassi a lavorare con noi anche dopo l'uscita di quest'album. Ma abbiamo pensato che meritassi quest'opportunità per fare carriera. Puoi chiamarlo adesso o dopo la collaborazione con noi. Decidi tu».
    Era la svolta della mia vita. Quella che molte persone non osavano nemmeno sognare. E stava capitando a me, proprio a me!!!
    «Voi... siete... incredibili». La portata di tutto ciò che mi stava accadendo mi fece mancare la voce. Abbracciai i produttori cercando di esprimere tutta la gratitudine che provavo. Non fui sicura di riuscirci, perché ero sopraffatta dall'emozione.
    «Credo... di aver bisogno di bere», sfiatai poi.
    Ridendo, Tom allungò la mano verso la bottiglia d'acqua sul tavolo.
    «Kaulitz», lo rimbeccai. «Prendi il vino».
    Altre risate. Si burlarono di me e della mia aria sconvolta per almeno un altro quarto d'ora.
    Erano quasi le undici quando Erika disse di dover lavorare il giorno dopo e se ne andò, dopo avermi salutata. David e Benjamin seguirono il suo esempio subito dopo. Li abbracciai e baciai ancora, prima di farli andare via. Furono seguiti da Sven.
    Gli presi il soprabito e lo accompagnai all'ingresso. Mi sentii in dovere di farlo. Accostai la porta alle mie spalle. «Allora, ciao», esordii imbarazzata.
    Estrasse dalla tasca del suo cappotto una confezione grande quanto la sua mano, verde scuro con una coccarda. «Volevo che fosse il mio regalo per te, ma ormai non sono più sicuro che sia... adeguato».
    Guardai il pacchetto. Qualsiasi cosa contenesse, qualsiasi cosa volesse significare, non era più adatto, ormai. «Non ti preoccupare, va benissimo anche così. Grazie per essere venuto, Sven. Ha significato tanto per me».
    Sorrise amaramente e si infilò il regalo in tasca. «È stato bello vederti stasera, anche se le cose non sono andate come mi aspettavo». Tacque un attimo, riflettendo. «Sei diversa. Non ti ho mai vista così felice, devo ammetterlo».
    «Lo sono».
    Si avvicinò e mi baciò castamente sulla guancia. «Ti auguro ogni bene, Elsa».
    Così formale, così distaccato.
    Era un addio. Un altro taglio con il mio passato. Stranamente, liberarmi di quella piccola parte di me, triste e tormentata provocò un fastidio pungente, una piccola fitta al cuore. Dolorosa, ma necessaria.
    Rientrai, sospirando. Si stavano tutti preparando per andare, Didi aveva dato loro i soprabiti e Bea stava gettando in una grande busta nera gli ultimi avanzi.
    Sorrisi, rendendomi conto di quanto profondamente stanca ero. Quella giornata era stata lunghissima, vissuta secondo per secondo.
    Salutai tutti con affetto, ringraziandoli ancora una volta. Gustav sarebbe andato a casa da solo, con la sua macchina e Georg sarebbe rimasto da Bea per la notte, quindi partirono insieme.
    Un pensiero tentatore mi balenò in mente.
    Potevo farlo? Come avrebbe reagito Bill?
    Notai che Didi si era dileguato e che solo Bill si era infilato il soprabito. Cercò le chiavi della macchina e venne verso di me. «Ancora auguri. Buonanotte».
    Ricambiai il suo sorriso e gli baciai una guancia. «Buonanotte, e grazie ancora».
    Scambiò un cenno con Tom e uscì dall'appartamento, chiudendo dolcemente la porta alle sue spalle.
    «Chi ti ha detto che tu puoi restare?», chiesi scherzosamente, avvicinandomi a Tom. Finalmente eravamo soli.
    Mi stupii di non essermi accorta di voler davvero restare da sola con lui, anche se a Miami avevamo avuto diverso tempo da passare insieme.
    S'infilò le mani in tasca e dondolò sui piedi, stringendosi nelle spalle. «Nessuno. Mi sta solo aspettando giù».
    Gli misi le mani sulle spalle. Non riuscivo a guardarlo con gli stessi occhi, ormai: oltre la – bella, c'era da ammetterlo – apparenza, mi sembrava una persona meravigliosa.
    Sei proprio innamorata cotta...
    Sì, lo ero. «Tom».
    «Mhm?».
    «Grazie davvero per stasera. Per la festa, il regalo e tutto il resto».
    Si strinse nelle spalle. «Vorrei prendermi tutto il merito, ma solo l'idea è stata mia. E le decorazioni. Ne ho parlato con Didi quando eravamo a Miami e lui si è organizzato con Georg e Gustav». Questo spiegava il comportamento misterioso di Didi. «Ci siamo divisi il cibo, Bea ha preparato la torta e Didi stesso ha invitato Sven ed Erika». Fece una smorfia: non aveva approvato la presenza di Sven.
    Mi accorsi che qualcosa non quadrava. Stava rimanendo troppo sulle sue, non era da lui.
    «Tom, va tutto bene?».
    «Certo».
    Alzai un sopracciglio.
    «Okay», sospirò. «Ho origliato la tua conversazione con Sven».
    «Cosa?!».
    «Non l'ho fatto apposta! Ero di passaggio, mi sono trovato nel cucinino per buttare qualcosa e vi ho sentiti».
    Non avevo nulla da rimproverarmi per la conversazione con Sven. Ero sicura di quello che provavo. Eppure Tom era lì, davanti a me, che non si sbottonava troppo, quasi fosse... insicuro.
    «E poi», continuò, «ho visto che vi siete appartati sul pianerottolo».
    Santo cielo, mi stava chiedendo delle conferme. Tom, proprio Tom, il menefreghista stronzo e borioso!
    «Sei preoccupato?», chiesi.
    Fuggì dal mio sguardo. «Insomma, non dico che sono preoccupato, ma avete parlato a lungo, lui ha detto tutte quelle cose e qualche domanda me la pongo».
    «Con Sven è finita. Sono stata abbastanza decisa nel ribadirglielo. E l'ha capito».
    Fu il suo turno di essere scettico. «Sei sicura?».
    «Sì. E anche se non l'avesse capito, ormai non mi riguarda più. Non ci riguarda più».
    L'uso del plurale parve farlo rilassare. «Se la metti così... In realtà mi piaceva quello che gli dicevi».
    «Per caso non avevi fiducia in me, Kaulitz?», lo sfidai.
    Lo misi di nuovo sulle spine. «Sì, ma si vedeva da un chilometro che era lì sperando di combinare qualcosa con te. Si è comportato in modo scorretto».
    Ripensai al suo tentativo di baciarmi approfittando della confidenza e dell'intimità della situazione. Dovetti dare ragione a Tom.
    «Non è più importante, comunque», mormorò, e mi baciò prima di darmi il tempo di rispondere.
    Gli feci scivolare le braccia intorno al collo, lasciando che i rasta mi sfiorassero.
    La consapevolezza concreta di essere innamorata di lui rese quel bacio diverso dagli altri. Fu più speciale.
    «Aspetta, aspetta», mi bloccò i polsi sul petto.
    «Cosa?».
    «In realtà volevo darti il mio regalo».
    «Un altro?». Sarebbero mai finite le sorprese?
    «Non è niente di che, eh. È una sciocchezza».
    «Vediamo». Ero curiosa ed entusiasta.
    «È in camera tua».
    Tom non era mai entrato in camera mia, che io sapessi. Curiosa, infilai il corridoio diretta verso la mia stanza, con Tom che mi trottava dietro. Feci scorrere la porta ed entrai.
    Tutto era apparentemente come l'avevo lasciato, forse un po' più in ordine e con più colore.
    «Hai detto che ti sei occupato tu delle decorazioni?».
    «Già».
    C'erano palloncini attaccati anche sui mobili: sulla libreria, sul lato della tastiera elettrica, sullo scaffale accanto al letto, sulla maniglia della finestra.
    Sorrisi a Tom, che si diresse alla scrivania. Non avevo notato il grande cappello che vi era appoggiato sopra. Lo prese e lo lasciò cadere tra le mie mani. Era bianco, con delle particolari stampe nere che ricordavano un'aquila.
    «È uno dei miei preferiti. Mi ha portato un sacco di fortuna». Di nuovo quell'aria modesta e imbarazzata. «Volevo che avessi qualcosa di mio, ecco».
    «Oh, Kaulitz. Lo adoro». Lo infilai e la visiera mi cadde sugli occhi. Era un po' grande.
    «Ti sta bene». Lo sollevò con due dita per guardarmi. «Hai adorato tutto stasera».
    «Infatti. Era tutto meraviglioso. Assolutamente al di là delle mie aspettative». Mi tolsi le scarpe, presi il cappello e mi sedetti sul letto a gambe incrociate, rigirandomelo tra le mani. Tom fece lo stesso e ci trovammo l'uno di fronte all'altra, vicini.
    «Come hai fatto a dimenticarti del tuo compleanno?», mi chiese. «Mi sono sempre domandato come fosse possibile per qualcuno scordarsene».
    Mi strinsi nelle spalle. «Prima non lo facevo. Pretendevo addirittura di festeggiarlo. Ma a casa di mio padre la mia nascita significa la morte di mia madre e lui ha sempre fatto di tutto per farmelo pesare. Mi ricordva anche quanto fossi indegna di appartenere alla sua famiglia solo perché preferivo la musica a qualsiasi altro impiego snob dal titolo altisonante. Quindi con il tempo ho imparato a non parlarne affatto. A furia di tacere ho finito per dimenticarmene. Così anche da quando sono andata via di casa me ne scordo ogni anno».
    «Ti manca? Tua madre, intendo».
    Giocherellai con il cappello, gli occhi bassi. «Non l'ho mai conosciuta e di lei so solo che era allegra, sempre positiva ed estremamente generosa. Era anche bellissima. L'unica donna che mio padre abbia amato con tutto se stesso. Sicuramente più di Annika, quell'arpia che ora vive con lui. Si chiamava Gabriella, io porto il suo come secondo nome. Molte volte sento il vuoto di non aver avuto una madre, specie quando ho bisogno di conferme, o rassicurazioni. E in quei momenti sento anche tutto il peso dell'insofferenza di mio padre verso di me e l'inquietudine per non aver mai avuto una casa in cui sentirmi accettata. Per questo sono andata via a diciannove anni. La sera in cui mi presentai allo studio di registrazione ero sconvolta proprio per questo. Stavo pensando troppo alla mia famiglia».
    «Ed è per questo che sei sempre così scontrosa con tutti».
    Alzai uno sguardo incerto sul ragazzo davanti a me. Mi stavo davvero aprendo con lui, senza sentirmi terrorizzata, al contrario di ciò che avevo detto a Didi quella mattina, e lui stava davvero provando a capirmi. Non fece commenti umilianti o battute che minimizzassero tutto ciò che provavo e sentivo. Mi guardava, serio, volenteroso di comprendere.
    «Immagino di sì. Mi serve un po' per ammorbidirmi e lasciarmi andare, ma intanto sono sempre un fascio di nervi. Penso che sia vero quasi per tutti, però. Chiunque ha una storia triste alle spalle e pensa che sia la più triste in assoluto. Quindi per destreggiarsi in situazioni nuove ci vuole un po'».
    Sorrise appena. «Quanto hai ragione. Quando mio padre se ne andò di casa mi sentivo tradito e deluso. Anche se avevamo solo sei anni, io e Bill capimmo di poter contare solo su noi stessi. Anche a scuola eravamo sempre presi di mira, non solo dai compagni, perfino dai professori. So che sembra stupido, se confrontato con un padre che ti odia solo perché esisti, ma all'epoca ci soffrivamo parecchio, soprattutto Bill. Cercavamo di non darlo a vedere, comunque. Quando ci divisero per metterci in aule separate mi crollò il mondo sotto i piedi. Ogni volta che mi trovo in una situazione nuova e non programmata, divento nervoso. Come se mi bloccassi. Ritorno ad avere sei anni e a sentirmi incapace di gestire una situazione più grande di me. È umiliante».
    Era la prima volta che Tom mi raccontava qualcosa di sé e del suo passato. Di solito preferiva glissare o non affrontare certe questioni. Quello era un momento prezioso, da vivere e custodire con cura.
    «Ma c'era Gordon a sopperire al vuoto lasciato da mio padre. Non è lo stesso, sai, certe cose ti rimangono addosso per sempre, come la paura di essere tradito e abbandonato da un momento all'altro. Non te ne rendi nemmeno conto ad un certo punto, ma c'è. Però Gordon è un tipo a posto, ha reso felice mia madre e ha accettato me e Bill. Ci ha iniziato alla musica. La trovavamo un'ottima valvola di sfogo. In seguito abbiamo conosciuto Georg e Gustav ed è diventata una passione. Abbiamo capito che era quello che volevamo fare nella vita». Sorrise. «Bill l'ha preso come un impegno. Ha dato il cento percento. È soprattutto grazie a lui che siamo qui oggi».
    «Se siete qui oggi, è perché siete tutti e quattro talentuosi, motivati e pieni di passione», dissi. «Io lo so. Vi vedo ogni giorno, lavoro con voi. Bill è un artista fantastico, ma ognuno di voi contribuisce a rendere il vostro gruppo lo splendido gruppo che è».
    Si aggrottò. «Ma tu odi i nostri testi. E non ti piacciono le nostre melodie».
    «Non è vero. È solo un modo di esprimersi diverso da quello che conoscevo. Di solito si compie l'errore di mal giudicare quello che non si capisce, anch'io l'ho fatto, purtroppo. Ma poi ho capito. Voi siete un mondo a parte».
    Sollevò una mano e mi portò una ciocca dietro l'orecchio. «Anche tu lo sei», mormorò piano.
    Ridacchiai. «Voleva essere un complimento?».
    Sorrise anche lui. «Non lo so. Comunque, penso che Aaron sia un perfetto stronzo».
    «Anch'io», sussurrai con voce debole. «A volte vorrei che capisse che oltre ad essere l'assassina di sua moglie e una delusione, sono sempre sua figlia. Con quell'imbecille Joseph invece è diverso. Lo ama, nonostante sia un celenterato mononeuronico. Sinceramente...», feci una pausa, disegnando con le dita cerchi sulla trapunta del mio letto, «non credo che si sia perso molto rifiutandosi di conoscermi. Non mi sento speciale. Ho solo una voglia disperata di essere accettata da lui, per poter dire di far parte anch'io di qualcosa. Di avere un posto».
    «Si è perso tantissimo rifiutandosi di conoscerti, Elsa».
    Lo guardai. Era così serio, credeva davvero in quello che diceva.
    «Dico davvero», ribadì con convinzione. «Non voglio scadere nel banale, o peggio, nei sentimentalismi, ma con tutta la tua schizofrenia, la psicosi, la mania di parlare da sola e maltrattare quelli a cui vuoi bene, sei una persona originale, piena di talento e fascino. Non ti rifugi nel qualunquismo e nel cinismo come fanno tutti, non ti preoccupi di essere conforme alle mode e quando non sei ossessionata dall'idea di proteggerti, sei sempre pronta ad aiutare quelli che ami. Hai degli ideali, un'etica. Sei speciale. Si capisce subito. Aaron lo sa e lo capisce. È solo un idiota a non riconoscerlo. E comunque, un posto ormai ce l'hai, ed è nel nostro mondo».
    Ero colpita. Toccata. Commossa.
    «Credo che tu sia proprio caduto nei sentimentalismi, Kaulitz», dissi, per stemperare quell'atmosfera carica di emozioni e confessioni. La voce mi tremava. «Ma non mi dispiace nemmeno un po'».
    Gli feci scorrere le mani sugli avambracci e lo baciai.
    Tom non si fece attendere. Mi posò le mani sulle cosce e si sporse verso di me, fino a spingermi all'indietro, sul materasso.
    Solo molto dopo, quando eravamo entrambi quasi nudi, un campanello trillò nella mia testa.
    «Oddio, Bill è ancora giù ad aspettare», squittii, guardando Tom dall'alto.
    Mi rivolse un sorrisetto furbo, il respiro un po' pesante. «No. È andato subito a casa quando è uscito».
    Sbattei le ciglia. «Vuol dire che mi hai mentito prima?».
    «Già. Sarei restato anche se mi avessi cacciato», ammise candidamente.
    Non riuscii ad arrabbiarmi. Semplicemente, risi e lo baciai di nuovo.
    Riprendemmo da dove ci eravamo interrotti.
    Quella notte facemmo l'amore.
     
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  6. Nick_Nick1
     
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    Sono ancora una volta estasiato, sei riuscita ancora una volta a sorprendermi sul serio. La scrittrice che traspare da questo capitolo è una versione più matura, migliorata rispetto alla Monique che ricordavo. Hai percettibilmente cambiato stile, senza rinnegare quella brillantezza di linguaggio e quella efficacia comunicazionale che ben conosco e che hanno fatto il successo di Monique in questi anni, hai svoltato su contenuti più profondi, più maturi. Quella di Elsa è una introspezione diversa, l'introspezione di una ragazza che scopre la sua crescita tra alti e bassi (leggasi tre passi avanti e due indietro) ma solida come una roccia. Elsa sta cambiando come non si sarebbe aspettata all'inizio della storia. Elsa inizia a trovarsi a suo agio con il suo stesso mondo interiore, sta valorizzando gli affetti (vedi Didi che forse per la prima volta viene senza equivoci definito "migliore amico") insieme alle emozioni.
    Il Tom introspettivo come un Bill d'altri tempi è un personaggio nuovo, inimmaginabile anche solo un capitolo prima. Il modo in cui lui sguscia fuori dalle sue difese per osare rischiare di aprirsi nel dialogo è quanto meno sano. Rischioso, ma sano. Hai lasciato trasparire come lui non abbia mai voluto accettare prima il rischio di aprirsi al di fuori dello stretto mondo delle sue certezze (Bill in primis) ed ecco che ora, dopo 18 capitoli, lo descrivi passo passo nella sua metamorfosi naturale.
    Bravo Tom, e brava la mente creatrice del suo personaggio.
    Non credo ci sia un capitolo dei precedenti 17 che possa essere paragonato a questo, mi hai sorpreso ancora, te l'ho già detto, e non posso che elogiare questi virtuosismi che rendi con una naturalezza impressionante.
    Ricordo scrittori virtuosi, ma questo che ho davanti è un virtuosismo reso con una semplicità disarmante.
    Comunque, ti faccio una confessione a denti stretti: voglio bene ad Elsa così com'è. E, incredibile dictu, oggi voglio bene anche a Tom
     
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  7. paolina91
     
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    Sono la solita ritardataria e volevo dirti che non sono sparita, avevo detto che avrei commentato perchè ero ancora qui ad aspettare un capitolo di questa fantastica storia e ho mantenuto la parola.
    Che dire è veramente un capitolo importante e pieno di emozioni, per la prima volta Elsa ha bel compleanno con la sua nuova famiglia visto quanto le ha detto Tom nel finale, insomma ora fa parte del loro mondo e Tom è stato dolcissimo a dirle che è una bella persona nonostante le 2000 sfaccettature del suo carattere ma proprio questo la rende unica e speciale. Io penso questo e non vedo l'ora di sapere cosa succederà nel prossimo capitolo continua quando vuoi io sarò sempre qui per questa storia :)
     
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  8. Revolver__;
     
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    Come sempre quello che scrivi mi lascia senza parole.. Adoro il loro rapporto e adoro la sensazione che provo mentre leggo. Un misto tra ansia, emozione, gioia e il classico peso sulla bocca dello stomaco. Continua a scrivere questa storia :)
     
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  9. Monique;
     
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    Vi ringrazio molto :)
     
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218 replies since 23/6/2009, 12:26   5970 views
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