Mayday.

« Se le tue labbra si sentono sole e secche, bacia la pioggia. »

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  1. ‚savannah
     
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    Capitolo # 5




    Sentiva l’anima sgretolarsi lentamente, sentiva il cuore sezionarsi in mille cavità. Buchi, spazi vuoti, ai quali il sangue progressivamente non giungeva più. Lentamente il suo vivere parve arrestarsi, le sue forze corporali bloccarsi nella staticità del suo volto che, assente, appariva come ancora agli occhi di lui. Era protagonista di reazioni insensate che la spaventavano, che le rendevano ogni respiro così complicato da volersi strappare i polmoni con le sue stesse mani. Ma lei, dopotutto, era felice. Gioiva all’ignoto, sorrideva alle lacrime degli occhi nocciola del ragazzo, ricordandosi di aver rappresentato, se pur per un solo momento, se pur per un solo irripetibile attimo, la sua unica valvola di sfogo. Ma nel frattempo, quel pianto umido e freddo, doloroso e frustante, impugnando sciabole affilate, uccise il suo sensibile animo. Era un acido che corrugava la sua serenità, riducendola in brandelli di sofferenza e rassegnazione. Viveva di stenti nel dolore dei suoi occhi. E’ possibile respirare nella morte? Voleva vivere d’amore. I tremolii a cavallo delle ginocchia, le sussurravano “ cedi “ e lei avrebbe avuto voglia di ascoltare quei quasi silenziosi consigli, se solo non avesse voluto scattare fotografie in bianco e nero a quel momento irremovibile dai suoi ricordi. Era colpa di quegli occhi nocciola, era colpa di quel dannato profumo che i pori della sua pelle emanavano, era colpa di quell’amabile senso di protezione che avvertiva tra le sue braccia, era colpa di quell’imprevedibile situazione che finì per ridurla succube di ogni sua azione, schiava di ogni suo gesto, morente davanti ad ogni suo sguardo. Era un ladro, pensò. Un ladro di cuori che masticava con apparente noncuranza, condendoli con residui di anime che il suo fascino risucchiava sgarbatamente. Evelyn non avrebbe mai pensato a quanto il primo amore sarebbe potuto esser così crudele, tanto da renderle annebbiata ogni risposta che dava al suo cuore. Perché hai abbandonato te stessa? Perché ti sei concessa ad un uomo? Perché lui ? Le palpitazioni cardiache le apparivano come assordanti suoni di campane in città, come i dolci ma forti richiami degli uccelli in alta montagna. Dovette premersi le mani alle orecchie per nascondere quel rumore, mutando il suo essere in quello di un finto sordo. La infastidiva tutto ciò che non rifletteva la sonorità della voce del ragazzo perché era la sola melodia che, in un silenzio cupo e doloroso, poteva esser suonata. Sebbene fosse una melodia cattiva e crudele. Sebbene fosse una melodia assassina.

    L’aria cominciò a pizzicare freddamente sulla pelle dei due giovani, aumentando i brividi che infierirono sulla loro epidermide sin dall’inizio di quell’intima situazione. Intima, per non esser mai stata svelata prima da parte sua. Intima, per essersi manifestata con silenziose lacrime sincere che scorrevano su una pelle di verità e purezza. Divenne il loro segreto, il sigillo del loro amore che ancora non li aveva uniti. Eran pochi metri a separare i loro corpi, in quella notte ormai fonda, ma entrambi consideravano quella lieve distanza come intralcio ai loro sensi. Nessuno dei due era più in grado di stare lontano dall’altro. Le loro sensazioni morivano nei gesti dell’altro. Le loro anime camminavano per mano su un sottile filo spinato al quale eran stati posti agli estremi amore e passione. Se fossero caduti, avrebbero incontrato l’impossibilità di vivere l’uno dell’altro, gli sarebbero stati negati sulla pelle i sospiri, i tocchi, le promesse. Sarebbero stati uccisi dall’assenza dell’altro. Dovevano uscirne perciò vincitori, perché si trattava della loro sopravvivenza. Avrebbero percorso la finezza di un filo sottile stringendosi forte, o sarebbero caduti lasciandosi maltrattare da un malvagio dolore?

    Nessuno decise di muoversi per primo, sebbene entrambi avessero una confessione da fare. Nascondevano i battiti cardiaci dietro alla loro gabbia toracica che, ogni qual volta i loro sguardi si scambiavano messaggi d’intesa, desiderava sgretolarsi per smascherare le loro vere intenzioni. Per vederli arrossire alla vista del loro cuore impazzito. Evelyn avvertì l’allontanamento di Tom, come un volontario distacco dai suoi futili consigli, dalle sue superflue sicurezze. Si sentì morire, ancora una volta. Lui aveva la capacità di renderle a brandelli ogni sua forza e sicurezza. Si sentiva colpevole di ogni sua sofferenza, di ogni sua freddezza, di ogni sua noncuranza. Rinacque, quando lo vide voltarsi nuovamente verso di lei, strappandole un sorriso di riconoscimento. In quel momento, il vento si alzò, stuzzicando maggiori brividi sul corpo della ragazza, che reagì iniziando a sfregarsi le mani sulle braccia nude.

    - Aspetta, ti dò la mia giacca. - disse Tom, avvicinandosi al suo corpo.
    - Ma io non ho freddo! - risposi, tentando di convincermene davvero.
    - Oh, felice di averla tra noi, Superwoman. - scherzò.

    Con rapidi movimenti, si tolse la giacca. Notai le sue braccia dotate di evidenti muscoli rimanere scoperte sotto a quella temperatura fin troppo bassa oramai. Feci attenzione alla delicatezza con la quale alcuni nei, al tempo della sua nascita forse, si posarono sulle sue braccia. Incominciai a studiarne la forma, la consistenza, la perfetta posizione che essi occupavano sui suoi avambracci. Mi affiancò appoggiando la giacca sulle mie spalle, sistemandomela meglio successivamente, rimanendo poi fermo dietro di me. Il calore che sentii invadere la mia pelle fu come il bruciore dei raggi solari in piena estate. Fu quasi come sentire la sua epidermide coricata sul mio. Sentii la sua protezione avvolgermi in un’aurea indistruttibile. Il suo calore era la mia dimora, era le mura entro le quali potevo confessarmi.

    - Va un po’ meglio? -
    - Lo ammetto: enormemente. -

    Momenti di silenzio squarciarono le nostre parole.
    Le sua braccia cinsero i miei fianchi in una forte morsa, e il suo viso si appoggiò alla mia spalla sinistra. Il suo respiro urtava contro la mia gota sinistra, riscaldandola maggiormente rispetto al calore dell’emozione che in quel momento provai. Vidi le sue dita della mano destra intrecciarsi con quelle della sinistra, poggiandole poi sul mio ventre. Aveva mani bellissime. Esse eran leggermente rovinate sui polpastrelli, particolare che mi fece trovar certezza che all’interno della band era lui il chitarrista. Quanto mi sarebbe piaciuto sentire una sua composizione, vederlo seduto su uno sgabello in una stanza solitaria rimaner concentrato nel tentativo di tener il ritmo sbattendo la punta del piede a terra. Quanto avrei voluto scorgere nell’angolo della sua stanza la sua chitarra, immaginandomi quelle corde vibrare per merito dei suoi tocchi. Silenziosamente, incominciammo a guardare il cielo sereno.

    - Amo guardare il cielo, sai? - dissi, correndo il rischio di esser presa in giro per il mio sconfinato romanticismo.
    - E’ veramente bellissimo. -
    - Mi dà senso di libertà, di spensieratezza. -
    - Guarda quella stella là. Non è magnifica? - disse, indicando un punto lontano in cielo.
    - Ma io non ved.. -

    Mi pizzicò il naso mentre guardavo la stella inesistente, e apprezzai quel gesto come un bambino afferra gioioso il suo regalo da sotto l’albero di natale. Mi voltai per ridargli indietro un colpetto sulla spalla, ma lui iniziò a correre. Mi tolsi le scarpe col tacco, appoggiai la giacca a terra, e diedi me stessa per vendicarmi scherzosamente nei suoi confronti. La sua risata rimbombava nell’atmosfera, mentre malediva i suoi pantaloni troppo larghi per permettergli di correre agilmente come avrebbe voluto fare. Tentavo di stargli dietro urlandogli mille parole che avrei voluto gli giungessero come segnale della mia più sincera felicità.

    - Giuro che me la pagherai! -
    - Sono troppo furbo per cadere ai tuoi trucchetti! -
    - Mi sottovaluti, caro Tom! -

    Ad entrambi fu difficile scambiarsi discorsi, in quanto la fuga dall’altro rendeva i nostri respiri affannosi. Ci fermammo dopo interi minuti passati a ridere e vivere di quelle sottigliezze che, in quel momento, bastarono ad entrambi per annebbiare le preoccupazioni. Raggiungendo il centro della prua, appoggiò le ginocchia a terra, prima di sdraiarsi a terra completamente allargando le braccia in segno di rassegnazione. Mi avvicinai a lui vedendo il suo torace alzarsi e abbassarsi e il suo fiato condensarsi rapidamente nell’aria. Mi distesi lungo il suo fianco sinistro, appoggiando la testa sul suo petto. Una decisione affrettata, della quale mi sarei potuta pentire, ma che in quel momento considerai la più giusta da fare. Ero stanca di dover contenere emozioni che non facevano altro che morirmi nell’animo ogni volta che tentavo di esternarle. Ero stanca di contenere il bisogno di lui. Sentii la sua mano sinistra appoggiarsi delicatamente sui miei capelli e dar vita a movimenti tranquilli, mentre a contatto col mio orecchio, giungeva il suo cuore ancora vivo di battiti incontrollati. Il silenzio decise di non lasciarci in mano a parole che avrebbero rovinato la dolcezza dei nostri corpi vicini. Appoggiai una mano sul suo ventre, percependo gli addominali ben scolpiti su di esso. Sarei potuta morire uccisa dal rumore del suo cuore, dalla passione dei suoi tocchi, dalla nascosta malvagità del silenzio.

    - Credevo di aver dei polmoni più resistenti, son sincero. - esordì, con voce ancora affaticata.
    - Lo credevo anche io. - dissi, sentendo la sua disapprovazione manifestarsi tirandomi una ciocca di capelli.

    Perché il tempo non si fermò? Perché il momento in cui tutto sarebbe finito era sempre più vicino?
    Volevo ancora abbandonarmi a lui, volevo ancora nutrirmi delle sue carezze.
    Silenzio.

    - T.. Tom.. -
    - Sì? -
    - Ho paura. -
    - Di cosa? -
    - Io.. mio padre.. -
    - Continua. -
    - Mio padre è.. non so se.. -
    - Evelyn, ti prego. Mi stai facendo preoccupare. -
    - Mio padre è la persona più importante della mia vita. Mi ha cresciuta, mi ha accudita sostituendo la figura di mia madre che è stata assente sin dai primi momenti. Ricordo i pomeriggi trascorsi sulle altalene del parco giochi di fronte a scuola, quando gli strattonavo la maglietta dal basso pregandolo di comprarmi il cornetto alla vaniglia. Lui tirava fuori dalle tasche qualche spicciolo, e mi diceva di andare da sola a prenderlo. Dovevo abituarmi a parlare con gli altri, sosteneva. Ero troppo timida per andarci, così rinunciavo ogni volta a quello che, in fin dei conti, era solo uno sfizio. Papà mi sorrideva dall’alto, e mi stringeva forte attorno a sé. Tornava stremato a casa dopo il lavoro, e mi chiedeva quale cartone animato preferissi vedere. Mi faceva sedere sulle sue ginocchia, per cantarmi la sigla dei cartoni Disney. Sopportava i miei pianti notturni meglio di qualunque altro, e mi riponeva sotto le coperte raccontandomi storie da lui inventate. Non ne ho mai sentita una di quelle popolari, le ho sempre ascoltate di sua invenzione. Ha formato la mia adolescenza alternando i sì e i no, proprio come un genitore dovrebbe fare. Mi ha sempre confidato tutto, mi ha sempre compresa. E’ sempre stato parte della mia quotidianità ed ogni volta che dovevo allontanarmi da lui, mi veniva un magone atroce. E ora, corro il rischio di allontanarmi da lui per sempre. Mio padre è malato, Tom. Gli è stata diagnosticata una grave forma di leucemia. I medici hanno detto che non gli restano più di cinque mesi di vita. Non ho la certezza di essere abbastanza forte da reggere un peso simile, ho paura di non esser l’appiglio adatto a cui lui ora deve aggrapparsi. Ho paura di rimanere sola, ho paura di rimanere viva in un ambiente morto. Sto crollando. -

    Si alzò mettendosi a sedere, costringendomi a togliere il capo dal suo torace, e prese il mio viso tra le mani. Le sue erano ormai fredde, ma quando vidi il suo sguardo penetrare nel mio, le sentii bollire su di me. I suoi muscoli facciali erano tirati, e i suoi occhi diventarono rabbiosi quando videro i miei arrossarsi e le mie labbra tremare.

    - Sei forte, Evelyn, e supererai anche questo enorme ostacolo. Sarà difficile, forse ti sembrerà impossibile, ma ne uscirai intera. Lui è ancora lì al parco a guardarti giocare, lui ti sta ancora raccontando le favole prima che tu ti addormenti, lui è ancora lì a crescere sua figlia se pur lontana. Lui non smetterà mai di vivere dentro di te. Tu sarai il suo unico appiglio, la sua unica speranza, il suo ultimo saluto. Rimarrete sempre insieme, perché non sarà di certo una malattia a strappartelo via. -
    - Quando lui se ne andrà, io sarò sola. Sarò nel salone di casa a riguardare le sue fotografie vivere tra le mie mani, e le sue carte di lavoro non avrò il coraggio di spostarle dalla scrivania. Non posso farcela da sola, non posso. -

    Ero indebolita al sol pensiero di quell’abbandono al quale, un giorno, avrei dovuto rassegnarmi. Ero in procinto di perdere tutto, ma non potevo perdere ciò che avevo appena trovato. Avrei preferito scontare mille pene di morte, piuttosto che invecchiare in mancanza della loro presenza.

    - Posso farti mio? Mi stanno togliendo dalle mani mio padre, non posso far sì che mi tolgano anche te. -

    Prese il mio corpo tra le sue braccia, e mi parve di esser cullata da braccia angeliche. Avvicinò le sue labbra alla mia fronte, e rimase immobile per interminabili attimi. Le mie lacrime cominciarono a sgorgare dai miei occhi come acque torrenziali mentre, segretamente, il mio cuore si fondeva col suo.

    - Io voglio essere tuo. -


    ***


    E’ scientificamente provato, che l’imperterrito movimento e la fatica rendono difficile il respiro. E noi umani, abbiamo perciò bisogno di piccole soste in cui fermarci, in cui depositare i residui del dolore che graffiano le pareti di un’anima perforata, squamata. Ho fame d’affetto, ho fame d’amore. Essa costituirà uno stato di permanente e immutabile insaziabilità. Lo stomaco sussurra, ho fame del tuo amore. E se senza acqua non si vive, ho sete della sonorità della tua grossa voce. La dolce rugiada sulle foglie, rende sfuocata la loro vera identità. Le invade con gocce trasparenti, coprendo il loro verde vivo. Ma è giunta perfino al mio corpo, bagnandolo di una solitudine marcia, di un affetto che mi strappa la pelle. Avvolto dalle lenzuola di seta di un soffice letto, potresti afferrarmi il viso voltandolo verso il tuo mediante gesti delicati, timorosi. E se questo non dovesse bastare, potrei sempre dissetarmi delle tue lacrime, sostituendole alle vitamine alimentari, così da non farti soffrire. Ti sentirei, ti avvertirei, ti curerei, ti avrei. Perché ti nascondi? Stringimi forte, prima di andartene un’altra volta. Ancora, ancora. Toglimi il fiato, uccidimi, ma prima stringimi.

    Edited by ‚savannah - 9/2/2011, 16:23
     
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