Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Titolo: è scritto di sotto ^^
    Autore: Monique;
    Genere: Romantico, malinconico, commedia.
    Raiting: G/PG.
    Avvisi: nessuno.
    Note: Gli eventi narrati in questo breve scritto non hanno scopi lucrativi e non sono mai accaduti.
    Precisato questo, penso sia doveroso scrivere qualcosa su questa storia, anche se non sono molto conosciuta nel fandom. Love for music è nata come un esperimento, all'inizio era solo una bozza imprecisata nella mia mente e volevo scriverla solo per il gusto di provare tecniche nuove, come la narrazione in prima persona. Man mano che questa storia si è evoluta, però, è diventata sempre più viva e impegnativa e mi ha tolto l'ispirazione quasi per qualsiasi altro scritto che ho in cantiere. Significa molto per me per il semplice fatto che dentro c'è molto, molto di me.
    Spero davvero che vi piacerà e vi appassionerà tanto quanto piace e appassiona me.
    Dopo questa premessa, buona lettura.


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    Credits to Fizzy. e grazie per questo magnifico blend.

    Lista dei Capitoli:
    Capitolo 1 - messaggio corrente
    Capitolo 2 - pagina corrente
    Capitolo 3 - pagina corrente
    Capitolo 4 - pagina corrente
    Capitolo 5 - pagina corrente
    Capitolo 6 - pagina 4
    Capitolo 7 - pagina 6
    Capitolo 8 - pagina 7
    Capitolo 9 - pagina 9
    Capitolo 10 - pagina 9
    Capitolo 11 Parte I - pagina 10
    Capitolo 11 Parte II - pagina 10
    Capitolo 12 - pagina 11
    Capitolo 13 - pagina 11
    Capitolo 14 - pagina 11
    Capitolo 15 - pagina 12


    Love for music



    Prologo



    Ho sempre pensato che ognuno abbia il proprio modo di esprimersi e che debba difenderlo con le unghie e con i denti, perché è una delle poche cose che un individuo possa vantare come personali, unicamente proprie.
    C’è chi usa le parole, il mezzo più ordinario, chi il look, chi il disegno, chi la cucina…
    Io avevo la musica.
    Pizzicare corde, premere i tasti di un pianoforte e sentire la melodia librarsi dallo strumento che suonavo mi faceva sentire piena, viva, consapevole dei miei sentimenti. Suonare mi aveva sempre aiutata a conoscerli, capirli, analizzarli. Se non sapevo riconoscerne il vortice confuso, bastava che mi avvicinassi ad un basso, ad una chitarra, ad un’arpa o una tastiera e cominciassi a suonare. La melodia si plasmava seguendo le forme delle mie percezioni, lenta e malinconica, oppure energica, o sferzante e dura.
    Era uno sfogo, un tuffo a capofitto in me stessa, quando chiudevo gli occhi e lasciavo che le mani si muovessero da sole.
    In alcuni momenti mi sentivo così in comunione con la musica da sentire di essermi confusa e mescolata ad essa. Io ero un insieme di note, così disarmonico e lineare insieme da confondere e stordire.
    Ma era la musica, e la musica era me. Era tutta la mia vita.

    Capitolo 1

    Era una giornata come tante. Solo una giornata come tante.
    Mentre mi vestivo, facendo particolare attenzione agli abbinamenti, continuavo a snocciolare quella frase fino a trasformarla in una nenia senza senso.
    Per la verità, non ero particolarmente euforica, né particolarmente allegra. Conservavo solo un vago sentore di felicità per il nuovo lavoro che ero riuscita ad ottenere (tramite raccomandazione, sia chiaro) e che avrei cominciato quel giorno, ma cercavo di reprimerlo con tutta me stessa. Non lasciarmi prendere troppo dagli eventi e dalle emozioni era un’abitudine per me, uno dei limiti che imponevo a me stessa.
    Mi scrutai allo specchio, cercando di studiarmi attentamente e di capire cosa fare per migliorare il mio aspetto. Nel complesso non ero male. Belle labbra, sottili e rosa, e lineamenti delicati e armonici. Le uniche pecche erano il colore innaturale della mia pelle, che mi faceva sembrare sempre malaticcia, e quello degli occhi: un bel castano vivace, poco usuale per una tedesca, ma comunque non degno di nota. Forse sui miei capelli potevo puntare di più. Erano di un biondo luminoso, e sciolti si allungavano in ciocche ondulate fin sotto i seni. Li sistemai e passai un velo di trucco sul viso, giusto per avere un colorito meno cadaverico.
    Benché normalmente non badassi troppo al mio aspetto esteriore, quel giorno vi feci più attenzione: non volevo presentarmi ai miei nuovi datori di lavoro bianca come un cencio.
    Terminato il restauro facciale, uscii di casa e m’infilai in macchina. Guidai per le strade di Amburgo fino a raggiungere l’indirizzo che mi aveva indicato l’uomo con cui avevo parlato al telefono. Era un posto isolato, perciò ci misi una buona mezzora a raggiungerlo.
    Visto da dietro il vetro appannato della mia C3, e sotto il cielo plumbeo di quella mattina, sembrava più una masseria isolata che un vero e proprio studio di registrazione. Sui muri di cotto rossiccio si arrampicavano edere verdeggianti, che mettevano radici in un prato inglese molto curato, intrecciandosi ai cespugli.
    Molto rustico.
    Non avrei mai immaginato uno studio di registrazione così. Piuttosto mi aspettavo un ambiente buio e pieno di stanze che trasudava tecnologie moderne, nascosto in un’anonima palazzina in periferia. Probabilmente, però, questi tizi avevano molta più fantasia di me.
    Uscii dall’auto stringendomi nel cappotto e nella sciarpa per ripararmi dal vento. Cercai di ricordare esattamente il nome dell’uomo con cui avevo parlato al telefono e che avrei incontrato di lì a qualche minuto.
    Un certo David… mi sfuggiva il cognome. Ricordavo solo che appena l’avevo appuntato sul block notes, insieme all’indirizzo e al numero di telefono, avevo pensato che era un cognome da stupido.
    Camminai fino all’entrata principale, approfittando per guardarmi un po’ intorno: non c’erano auto parcheggiate oltre la mia. Forse non c’era nessuno. Suonai comunque il campanello, in fondo avevo un appuntamento.
    Poco dopo mi aprì un uomo leggermente più basso di me, con il viso allungato, la mascella squadrata, e due occhi azzurri fin troppo vispi, coperti dai ciuffi ribelli dei suoi capelli neri.
    Mi squadrò un momento, diffidente, prima di aprir bocca. Tra le sopracciglia gli si formò una piccola ruga. «Lei è…?».
    «Elsa. Elsa Fränze», risposi meccanicamente. «Ha parlato con me al telefono ieri».
    «Ah, è qui per il posto di sound editor», disse. «Dev’essere la cugina di Erika. Io sono David Jost».
    Oh, ecco qual era il cognome da stupido che non riuscivo a ricordare.
    «Esatto». Sorrisi e gli porsi la mano.
    Lui l’afferrò. Aveva una stretta asciutta e decisa. «Prego, entri. Le faccio conoscere la band».
    Erika era la mia cugina di quinto grado. Era una giornalista affermata in Germania, e si era fatta parecchie conoscenze. L’avevo pregata, in nome della nostra parentela fittizia, di trovarmi un lavoro adatto alle mie conoscenze – mi ero diplomata al Conservatorio e avevo frequentato con successo corsi di formazione specifici – e mi aveva combinato un incontro con un famoso produttore di una band musicale, molto in voga in quel momento. Ovviamente non avevo la minima idea di chi fosse la band in questione, e non avevo nessuna aspettativa. Mi serviva un lavoro, non un idolo.
    «Perdoni la diffidenza iniziale, ma sa, le fan sono sempre pronte a rovinare le vite a tutti», spiegò mentre mi conduceva all’interno.
    Le stanze erano l’esatto opposto dell’esterno: luminose, ariose, arredate in modo moderno e sui toni del bianco e del marrone chiaro.
    «Le fan?», domandai perplessa, lasciandomi guidare.
    «Sì», confermò. «La band è estremamente famosa, ma non si fa vedere da un po’ di tempo in giro per concentrarsi di più sull’album nuovo. E le ragazze non si fanno scrupoli ad invadere la loro privacy».
    Il fatto che considerasse le masse di fan parlando solo al femminile la diceva molto lunga sul tipo di band che curava. Tuttavia non riuscivo a concepire come si potesse essere tanto insensibili. Anche i… musicisti – mi sforzai di chiamare tali quelli che probabilmente componevano solo motivetti orecchiabili – erano umani, no?
    «Capirà quando avrà passato un po’ di tempo con noi», disse, probabilmente notando la mia espressione perplessa. David mi portò davanti ad una porta bianca e l’aprì, cedendomi il passo.
    Entrai per prima nella stanza buia, contigua ad un’altra camera che si poteva vedere tramite l’enorme vetro che copriva metà della parete di fronte a me.
    Sorvolai sulle meravigliose apparecchiature e sui monitor accesi unicamente perché vidi quattro ragazzi dall’altra parte del vetro.
    Erano tutti tanto, tanto diversi.
    Il primo su cui posai lo sguardo fu il batterista, che batteva sui suoi piatti con poca intensità, ma con uno sguardo concentrato. I lineamenti appena paffuti e i capelli biondi e corti gli davano un non so che di tenero e rassicurante. Mi fu subito simpatico.
    Poco più a sinistra, seduto su uno sgabello, c’era un altro ragazzo dai capelli lunghi e castani che scivolavano lisci su una parte del viso. Pizzicava con le corde del suo basso con sicurezza e maestria. Anche sotto la maglia a maniche lunghe che indossava, potevo individuare un paio di bicipiti piuttosto floridi. Senza volerlo, sulle mie labbra spuntò un sorriso: quel ragazzo era una vera gioia per gli occhi.
    Al centro, invece, c’era una pertica oscura, che sembrava appena poggiata allo sgabello. Il viso era così gentile da poter essere tranquillamente scambiato per quello di una ragazza, ma dai fianchi stretti e dalla totale assenza di petto capivo che si trattava di un ragazzo. Mormorava quasi, gli occhi chiusi, le mani sulle cuffie. I suoi modi di muoversi, di sfiorare con le labbra il reticolo del microfono, di increspare le sopracciglia mentre cantava lo rendevano magnetico, ed era difficile non concentrare l’attenzione su di lui per tanto tempo.
    Accanto, il chitarrista suonava ad occhi chiusi. Indossava vestiti di grossa taglia e una bandana nera che raccoglieva i rasta biondi che gli toccavano appena le spalle. Un cerchietto metallico gli perforava il labbro inferiore. Come il cantante, era concentratissimo.
    Erano tutti e quattro molto gradevoli agli occhi, ma solo del chitarrista pensai, istintivamente, che era bellissimo.
    Vidi David avvicinarsi alle apparecchiature e premere un pulsante rosso. Poi avvicinò la bocca al microfono: «ragazzi, venite fuori», mormorò. I quattro s’interruppero e mi lanciarono occhiate perplesse. Vennero fuori e mi si piazzarono di fronte, guardandomi con aria perplessa.
    Perché mi guardavano così? Avevo i capelli fuori posto? Il trucco sbavato? La cerniera dei pantaloni aperta? Cosa?!
    Decisi di rompere il ghiaccio per prima, ma David fu più svelto. «Lei è Elsa Fränze, la nostra nuova tecnica del suono», mi presentò.
    «Piacere Elsa, io sono Bill». Il ragazzo più alto, il cantante con i capelli neri si presentò con un largo sorriso. Mi porse la mano elegante e inanellata, inclinandola leggermente in avanti. La sua stretta calda ed equilibrata mi mise subito a mio agio.
    «Io sono Tom, piacere», disse il ragazzo con i dreadlocks, porgendomi subito la mano nerboruta. La strinsi, osservando attentamente la sua espressione: meno esuberante del cantante, ma anche più riservata e sicura di sé. Sfoderò un sorriso piuttosto ambiguo, che mi fece increspare le sopraglia. Risposi al suo sorriso.
    Mi sembrò di afferrare una somiglianza tra i ragazzi, specie nel profilo dritto del naso e nella forma degli occhi, ma non ne fui sicura.
    «Ehi Tom, spostati!». Il ragazzo con i capelli castani e lunghi gli diede di gomito, stirando le labbra da un lato. Poi tornò a guardare me. Benché la stanza fosse illuminata solo dalla luce giallognola della piantana, notai due bellissimi occhi verdi. «Scusalo, quando c’è una bella ragazza in giro diventa esibizionista. Io sono Georg». Strinsi anche la sua mano e risi alla battuta.
    «Non è vero, qui l’esibizionista è solo Bill», s’intromise il ragazzo dal volto roseo e vispo. Il cantante protestò contrariato, ma nessuno ci fece caso. Sembravano abituati. «Io sono Gustav, l’unica mente sana in questo gruppetto di pazzi». Mi fece l’occhiolino e ci stringemmo la mano.
    «Bene», il manager batté le mani una volta, «avrai capito con che personaggi avrai a che fare, e immagino che li conoscerai meglio in futuro. Ci vediamo domani», mi liquidò. Dalla sua espressione e dal tono di voce capivo che voleva liquidarmi in fretta. L’ipotesi che fosse uno scemo mi convinse definitivamente.
    «A che ora posso venire?», chiesi un po’ acida.
    Fece una smorfia che voleva sembrare pensierosa, ma forse era solo fastidio. «Puoi venire alle nove», rispose.
    Salutai i ragazzi e mi feci accompagnare all’uscita. Speravo solo che andasse tutto bene.

    Parcheggiai nella mia via con le idee piuttosto confuse riguardo quello che mi era accaduto.
    Ero stata certa di cominciare a lavorare quel giorno stesso, di rendermi utile da subito, invece mi avevano rispedita a casa come un pacco indesiderato, recapitato all’indirizzo sbagliato.
    Dalla confusione passai rapidamente al nervoso, e dal nervoso all’arrabbiatura. Il tutto, ovviamente, nell’arco di tempo in cui aprii il portone e cercai di far partire quel ferro vecchio che si faceva passare per ascensore.
    Che avrei fatto per tutto il giorno?
    Entrai nel mio piccolo salottino sbuffando. Per capire come occupare la giornata, diedi un’occhiata in giro: non c’erano briciole sul divanetto alla mia destra, e i cuscini erano in ordine. Il tappeto era a posto, le cornici sulla televisione spolverate e visibili. Inoltre avevo sistemato le stanze e il bagno il giorno prima. Che stizza, era tutto in ordine, non avevo nemmeno distrazioni.
    Gettai le chiavi sul piccolo mobiletto, accanto al telefono. Qualche minuto dopo, con un cucchiaio di gelato al cioccolato in bocca, mi buttai sul divano e accesi il televisore: avrei visto il primo film che fosse capitato a tiro.
    «Che ci fai qui?».
    Feci sfrecciare lo sguardo in direzione della porta del corridoio, da dove proveniva quella voce assonnata che conoscevo bene. Il mio coinquilino, che indossava solo un paio di slip con motivi a cuoricini, mi guardava stropicciandosi gli occhi.
    «Didi!», esclamai, segretamente riempita dalla felicità. «Non dovresti essere al negozio?». Alla televisione, una puntata di Baywatch stava cominciando.
    «Ho chiesto a Ferdinand una mattinata di permesso», rispose. «Stamattina alzarsi era fuori discussione». Le parole gli vennero fuori come poltiglia.
    Scossi la testa, tornando al gran figo che correva a petto nudo sulla spiaggia. «Quando la smetterai di lavorare in quel locale?», domandai distrattamente.
    «Quando troverò una discoteca ugualmente famosa disposta ad assumermi», rispose sventolando una mano con aria altezzosa. Affondò sul divano accanto a me, e poggiai le gambe sulle sue. Iniziò a guardare la televisione senza interesse.
    Malgrado non lo rimproverassi spesso di stressarsi troppo con i suoi due lavori - era barman in una grande discoteca di Amburgo la notte e commesso in un negozio d’abbigliamento femminile di giorno – quella mattina ero davvero sollevata all’idea di averlo con me.
    Didi non era il suo vero nome, in realtà. Aveva avuto la sfiga di due genitori bigotti e all’antica, che gli avevano affibbiato un nome come Diedrich, perciò si faceva chiamare Didi quasi da tutti. Altra caratteristica che saltava agli occhi di chiunque: la sua totale, irrimediabile, innegabile omosessualità. Lo si poteva capire, oltre che dagli atteggiamenti petulanti e dalle movenze aggraziate, anche dai boxer decorati dalle fantasie più assurde, che puntualmente spuntavano dai suoi pantaloni di pelle, sempre troppo bassi. Gli ultimi che avevo visto avevano un motivo tigrato sul di dietro, con qualche schizzo verde qua e là, e sulla parte anteriore c’era disegnato Tarzan in una posa alquanto compromettente. Ero rabbrividita e avevo distolto lo sguardo, quando ci avevo posato gli occhi la prima volta.
    Nonostante ciò, era il mio migliore amico da sempre. Ci eravamo conosciuti al liceo quando avevamo quattordici anni, frequentavamo la stessa classe. Ed eravamo sempre stati inseparabili. Finita la scuola, prendemmo casa insieme. Ed eravamo ancora lì.
    «Che ti prende?», mi chiese tranquillo.
    Giusto. Avevo dimenticato che era anche un ottimo osservatore.
    «Niente». Feci spallucce e continuai a guardare lo schermo.
    Si sporse verso di me con tanto di sorriso angelico e ciglia sfarfallanti su due occhi limpidi e turchini. «Tanto non ci credo».
    Mi strappò un sorriso. «Mi scoccia che passerò una giornata a casa. Niente di particolare». Feci di nuovo spallucce.
    Si drizzò sul divano così veloce che mi fece sobbalzare, e si aprì in un sorrisetto machiavellico che mi spaventò.
    «Bene», concluse. «Allora stasera andiamo a divertirci».
    E fu lì che cominciai a tremare.
    Mi costrinse ad infilarmi in un vestitino sintetico a tinta unita, che mi avrebbe sicuramente fatta morire di freddo. Le paillette dorate riflettevano la luce ogni volta che mi muovevo, e uno scollo a barca mi lasciava scoperto il petto. Scendeva leggero e vaporoso sul seno e si stringeva all’altezza dei fianchi, arricciato da un sottile laccetto, terminando in una gonna a pieghe che s’impigliava fra le gambe.
    «Ma fa freddo!», protestai davanti allo specchio.
    «Metterai i collant più pesanti», replicò Didi dietro di me.
    «Ma è troppo corto!», fui costretta ad ammettere, lagnandomi come una bambina.
    Didi osservò attentamente il mio riflesso nello specchio, poi perlustrò anche la mia parte posteriore con perizia. «Credimi, farà la gioia di molte persone», sussurrò. «Adesso sbrigati».
    Continuai a guardare il mio riflesso nello specchio, imbronciata. Non era da me vestirmi in modo così appariscente, non ero mai stata una fanatica dell’attenzione.
    «Elsa!».
    Di malavoglia, e facendo attenzione a non rompermi le caviglie mentre camminavo sui tacchi alti, lo seguii fino in macchina.
    «Dove si va, autista?», chiesi, ammirando il suo petto armonico e la muscolatura appena evidente sotto la maglia verde che si era messo. Certe volte rimpiangevo che fosse gay.
    «Dove non si paga, ovvio. E non guardarmi così».
    Sbuffai, ignorando il suo ultimo commento. Mi avrebbe portata dove lavorava e poi mi avrebbe imbucata senza problemi. «Ovvio».
    Quella sera mi divertii sul serio e non pensai a niente. La musica mi riempì la testa e le orecchie, aiutata dall’alcool che mi scolai senza problemi. Mi presi una bella sbronza. Di certo il giorno dopo sarei stata uno straccio, ma che me ne importava in quel momento?

    Dopo un post sbornia traumatico e difficile, il giorno dopo ero alla villa all’orario prestabilito. Lo specchietto retrovisore mi rimandava l’immagine sbattuta di una ragazza più bianca di un cencio, con due occhiaie paurose sotto gli occhi. I capelli biondi che di solito riuscivano a ravvivare il colorito, contribuivano a farmi sembrare appena uscita da un campo di lavori forzati.
    Mi rifiutai di guardarmi oltre, facevo troppa paura. Non osai immaginare che impressione avrei fatto agli altri. Scesi dall’auto e la chiusi.
    Il cielo era ancora grigio e freddo. Tirava più vento del giorno precedente. Di nuovo, non c’era alcuna auto oltre la mia. Tutto sembrava uguale al giorno prima, immerso in una calma immobile e desolante. Se non avessi avuto chiari i ricordi della mia presenza lì, probabilmente avrei dubitato di esserci veramente stata.
    Suonai. E non aprì nessuno. Continuai a premere l’indice sul campanello, innervosendomi di più ogni secondo che passava.
    Era inconcepibile che dopo una notte insonne e circa quattro ore passate a vomitare non si presentasse nessuno all’appuntamento!
    Mentre mi accanivo contro il campanello, brontolando, finalmente la porta davanti a me si aprì. Una donna dall’aria stanca e consumata, probabilmente straniera, mi guardò circospetta.
    Ma perché tutti quanti mi guardavano come se fossi un avanzo di galera?
    Mascherando il mio malumore, mi sforzai di assumere un’aria professionale. «Buongiorno, sono una dipendente di Jost, ho un appuntamento alle nove».
    La donna davanti a me, la donna delle pulizie a giudicare dai guanti di lattice e la scopa, scoppiò a ridere. «Sì, lo sono tutte. Ora, signorina, mi dispiace che abbia fatto tanti sforzi per venire qua, ma prima di passare i guai, se ne vada». Fece per chiudermi la porta in faccia.
    Indignata, la bloccai con una mano. «Non ho nessuna intenzione di muovermi da qui, io devo lavorare!» protestai, e le mostrai la stampa del cartellino di riconoscimento che Jost mi aveva mandato per posta elettronica.
    La donna confrontò la fotografia della ragazza con il relitto umano che ero, poi mi fece passare, fingendosi addolorata. Entrai e camminai sicura verso la stanza che avevo visto il giorno prima, quella degli strumenti.
    «Scusi tanto, ma lei è così giovane, e ogni giorno ragazze di tutte le età si appostano…».
    «Lo so, lo so», tagliai corto. Ero troppo irritata per ascoltare qualcuno parlare. Avevo l’umore di un primo giorno di ciclo, sarei stata fastidiosa ed antipatica per tutto il tempo, e mi sarei incazzata con il primo malcapitato che non avesse seguito le mie istruzioni. Lo sapevo, perché mi conoscevo.
    «Beh?», esalai sconcertata, quando la donna mi accompagnò nella stanza buia del giorno prima. Era vuota.
    Mi rispose con un’alzata di spalle. «Il signor David stamattina mi ha telefonato per chiedermi di avvisarla, di cominciare a lavorare anche senza di lui e i ragazzi».
    Ero allibita. Con cosa avrei dovuto lavorare se non avevo il materiale e le password che sbloccavano i computer?
    «Quando arrivano?», chiesi, sforzandomi di mantenere la calma.
    «Di solito prima delle undici non si comincia. I ragazzi dicono che hanno bisogno di “scaldarsi”, ma è solo una scusa per non fare niente. Scusi, vado a finire». E si defilò.
    Rimasi da sola nella stanza silenziosa. Mi lasciai cadere sul divanetto bianco.
    Assurdo.
    Quel pagliaccio impomatato aveva creduto che solo perché avevo ventiquattro anni poteva trattarmi a suo piacimento? Bene, gli avrei fatto cambiare idea, a momento debito.
    Per passare il tempo azionai le apparecchiature e provai ad accendere i computer. Niente, come prevedevo, erano bloccati. Cambiai tattica e mi diressi alle librerie. Passai al setaccio gli archivi, sfogliai vecchi album fotografici che mi fecero scoprire e rivivere molti momenti della vita di quei ragazzi di cui non sapevo nulla, e trovai anche un raccoglitore che conteneva i libretti di istruzioni e le garanzie delle apparecchiature e degli strumenti musicali che avevano acquistato. Le due ore passarono lentamente, e questo contribuì ad aumentare il mio malumore. Quando sentii un vociare avvicinarsi, mi diressi a passo di carica verso l’entrata. Il quartetto delle meraviglie, il loro splendido produttore e una donna bionda erano appena entrati. Mi fissavano tutti, probabilmente chiedendosi cosa ci facesse lì una ragazza imbufalita, dall’aspetto di una scoppiata. Il produttore mi guardava tranquillo, a dispetto delle facce sorprese degli altri. E mi sentii ancora più presa in giro.
    «Ma come si è permesso?», cominciai, sputando le parole velocemente. Il tono basso che usai, a confronto di come mi sentivo, era fin troppo pacifico e rispettoso.
    Succedeva sempre così, non riuscivo mai ad infuriarmi come si doveva.
    «Scusi?». Sbatté le ciglia.
    «Sono qui a ciondolare dalle nove, non mi ha dato nemmeno uno straccio di materiale su cui lavorare, e il riscaldamento era spento. Con chi crede di avere a che fare?», sbottai, l’irritazione che traspariva dalla voce.
    Non sembrò minimamente scalfito dalla mia sfuriata. Dio, che tipo odioso.
    «Allora dovrebbe essere contenta, le pagherò due ore di ciondolamenti», rispose tranquillo.
    «Perché mi ha fatto venire? Sapeva che non avrei potuto fare niente».
    Alzò le spalle e si tolse il giubbotto. Vedendolo agire con tanta disinvoltura, anche la brigata dietro di lui cominciò a fare come se non esistessi nemmeno. Mi ignoravano.
    «Perché le persone poco capaci si stancano subito, si sentono prese in giro, e per orgoglio se ne vanno. Qui si lavora duro e bisogna avere un bel paio di palle se si vuole sopravvivere. Prego, si sieda pure».
    Rimasi un attimo spiazzata, incapace di trovare qualcosa con cui controbattere. Mi limitai a fare come aveva detto, a sedermi sul divano accanto ai ragazzi che facevano colazione con qualcosa che non vedevo.
    Fecero come se non ci fossi. Fu il ragazzo moro della combriccola ad accorgersi di me. Mi rassicurò con un sorriso e mi si sedette accanto, offrendomi un croissant. Rifiutai, rigida. Le persone che invadevano troppo il mio spazio senza il mio permesso m’irritavano, e quel giorno mi diede fastidio il doppio.
    «David è un po’ strano», cominciò, le labbra sporche di zucchero a velo, «ma è un tipo a posto». Sorrise di nuovo e si pulì con la mano.
    Cercai di ricambiare il suo sorriso. Non ci riuscii bene, e non cercai nemmeno di nasconderlo. Poi i ragazzi cercarono di coinvolgermi nella conversazione, come se fossi apparsa proprio allora.
    Il tipo con i capelli lunghi – non riuscivo ad associare i nomi che non ricordavo alle persone – si rivolse a me: «Dunque ehm…».
    «Elsa».
    «Sì, stavo per dire quello. Quanti anni hai?».
    «Ventiquattro».
    «E da dove vieni?», chiese il biondino. Non era realmente interessato, glielo leggevo in faccia, me lo chiedeva solo per educazione.
    «Ho sempre vissuto ad Amburgo», fu la mia risposta telegrafica. Non mi importava assolutamente niente di sembrare una maleducata asociale.
    «Come mai sei qui?», continuò il ragazzo, sperando che la domanda mi spillasse qualche parola in più.
    Quindi il mio lavoro consisteva nella conversazione?
    Alzai le spalle, ma prima che potessi rispondere, il ragazzo con i rasta mi precedette: «Ma ha le palle girate, la volete lasciare in pace?», disse tranquillo, leccando la marmellata dal suo croissant.
    Mi accigliai, ma una parte di me, quella pacifica, sepolta sotto i numerosi strati di irritazione e stanchezza, apprezzò infinitamente: erano le esatte parole che avrei detto io.
    «Tom, sei il solito orso». Il ragazzo accanto a me scosse la testa. Quindi era lui Tom.
    «E voi i soliti impiccioni», replicò Tom.
    Malgrado tutto, mi sfuggì un sorriso divertito. I modi di fare di quel tipo, forse un po’ rudi, mi piacevano.
    Restai a guardarli pungolarsi e finire di fare colazione per un altro quarto d’ora, finché David decise che era ora di lavorare. Ci spostammo nella sala registrazione, dove mi fornì le password dei computer. Mi sedetti alla mia postazione e accesi anche il portatile che mi ero portata dietro, provvisto di una scheda audio professionale.
    «Allora, da dove cominciamo?», chiesi.
    Tutto ciò che sapevo era che erano vicinissimi alla pubblicazione del loro quarto album, di cui non avevo ascoltato nessun pezzo, e che il loro precedente tecnico del suono si era licenziato.
    I ragazzi boccheggiarono.
    «Dove sono i pezzi?», chiesi più cauta, di nuovo sulla difensiva.
    Il ragazzo più alto, che stava sempre al centro del gruppo, prese la parola. «Ehm… veramente, non abbiamo vere e proprie canzoni pronte… sono più che altro…».
    «Arrangiamenti», soggiunse Tom.
    Mi misi una mano sulla fronte, stancamente. David lasciò la stanza.
    Calma, calma.
    «Mi state dicendo che… non avete niente di pronto?». Mi sforzai di non perdere il controllo.
    «No, siamo stati molto impegnati, e non abbiamo avuto tempo di lavorarci seriamente», mi rispose la voce profonda del ragazzo con i capelli lunghi.
    «Assurdo», borbottai. Riflettei per qualche minuto, poi presi la situazione in mano. «Dunque. Prendete gli strumenti che si possono spostare, e andiamo da qualche parte dove possiamo sederci e dove c’è un tavolo. Il cantante, o chiunque componga i testi, prenda carta e penna».
    «Sono io». Il moro alto si fece avanti. «Perché dobbiamo fare tutto questo?»
    «Beh, dobbiamo tirarle fuori queste canzoni, no? E prima voglio sentire cosa avete di pronto».
    «Fai anche la produttrice?»
    «Se serve, sì», risposi. Il mio lavoro richiedeva versatilità, e tanta esperienza sul campo, altrimenti non si arrivava da nessuna parte. Sapevo suonare tutti gli strumenti, conoscevo le tecniche di registrazione e i sistemi tecnologici digitali, e sapevo anche arrangiare bene. Insomma, ero una figura di mezzo tra un semplice arrangiatore e un informatico, ed avevo una buona conoscenza della musica, uscendo da un Conservatorio.
    Nelle sei ore successive, scoprii che gli arrangiamenti di cui parlavano i Tokio Hotel non erano che una manciata di note messe lì quasi per caso, che il bassista si chiamava Georg, il cantante Bill e il batterista Gustav.
    Malgrado tutto l’atmosfera che si respirava nel gruppo era piacevole e mi distese, invece che annerire il mio umore. Lavorammo fino alle cinque e mezza passate, concentrandoci sulle basi musicali, poi Bill – che avevo capito era il piagnucolone del gruppo – annunciò di essere troppo stanco per continuare a lavorare. A lui si accodò Georg, e anche Gustav.
    «Se siete stanchi…», concessi controvoglia. Io avrei continuato a lavorare, il clima di collaborazione che si instaurava fra loro era troppo piacevole. Però sbattei le palpebre e mi dimenticai di riaprire gli occhi.
    «Forse anche tu dovresti andare», mi disse Bill, di nuovo con quel sorriso sereno.
    Rilassata dalla stanchezza che improvvisamente aveva preso a spingere sulle palpebre, mi concessi anch’io un sorriso stanco. «Sì, forse… è meglio…», farfugliai, nascondendo uno sbadiglio con la mano. Era troppo presto per avere sonno. Ma il cielo che era diventato già buio e mi invogliava a dormire.
    «Mi sembri troppo stanca per guidare, se vuoi ti accompagniamo noi», propose ancora Bill.
    «Sì, è una buona idea», disse Georg.
    «No, sto bene». Non mi andava di concedere loro troppa confidenza.
    Bill insistette. «Ma ti si chiudono gli occhi! E quelle occhiaie di sicuro non sono i segni del cuscino!».
    «Non è lontano» ribattei. Mi alzai, raccolsi le mie cose e infilai in borsa il mio portatile. «E’ stato un piacere lavorare con voi, ragazzi. Ci vediamo domani».
    Georg, Gustav e Bill mi salutarono con un sorriso e un «ciao Elsa» piuttosto affettuoso. Tom invece si limitò a salutarmi con la mano, e, non sapevo perché, la cosa mi infastidì. Uscì dall’edificio, riparandomi con il giubbotto dal vento di gennaio e continuando a crogiolarmi nelle mie riflessioni. Non che non fossi abituata ad essere ignorata, ma di solito ero io la persona distaccata, che si faceva attendere. Forse era proprio questo il problema, il capovolgimento di ruoli.
    «Smettila subito», mi ordinai. Misi un bel freno alla mia mente. Sapevo dove mi avrebbe portata quel genere di pensieri, e non volevo assolutamente concedermeli. Tom mi aveva solo salutato con la mano, era solo stato distaccato e professionale per tutto il giorno, come era giusto che fosse. Non c’era alcun problema.

    Edited by ;tokiaholic - 28/11/2011, 18:30
     
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  2. kleine_engel
     
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    uuuuuuuu mi piace già questa ff!!!!
    continua presto!!!sono curiosa!!!:D
     
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  3. ;ninni
     
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    CITAZIONE (kleine_engel @ 23/6/2009, 16:01)
    uuuuuuuu mi piace già questa ff!!!!
    continua presto!!!sono curiosa!!!:D

    Ti quoto Mari
    Mi piace come inizio e mi piace anche il modo in cui descrivi le cose, le persone e le situazioni :behappy:
    Continua presto
    *flappeggia
     
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  4. scialla483
     
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    belllllllllllaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
    pèosta prestooooooooooooo
     
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  5. kleine_engel
     
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    CITAZIONE (;ninni @ 25/6/2009, 12:15)
    CITAZIONE (kleine_engel @ 23/6/2009, 16:01)
    uuuuuuuu mi piace già questa ff!!!!
    continua presto!!!sono curiosa!!!:D

    Ti quoto Mari
    Mi piace come inizio e mi piace anche il modo in cui descrivi le cose, le persone e le situazioni :behappy:
    Continua presto
    *flappeggia

    la ninniiiiiiiiiiiiiii!!!! :behappy:
    *prende sottobraccio
    *incominciano a ballare la caramell
    su su postaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
     
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  6. Monique;
     
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    Capitolo 2

    «Quindi, riepilogando, sei riuscita a farti assumere dal produttore dei Tokio Hotel, e ora dovrai non solo sopportare i capricci di quattro mocciosetti spocchiosi, ma anche sottostare ai loro orari e comporre l’album con loro. Per non dire “per” loro».
    «Grazie per il riepilogo, Bea. Ora sì che sono felice», dissi, affogando tutta la mia depressione nella birra aperta davanti a me.
    «Sono qui per questo, zucchero». Sorrise e mi strizzò l’occhio, addentando subito dopo il trancio di pizza davanti a lei.
    Bea, mia amica di infanzia e direttrice di un giornaletto locale di gossip, era l’ultima componente del mio ristretto gruppo di amici. Alta e bionda, come qualsiasi tedesca, ed abbastanza eccentrica da trovare il coraggio per andare in giro vestita nei modi più stravaganti. Quella sera aveva proprio deciso di esagerare: indossava un paio di All star verdi abbinate ad un bustino turchese, leggins viola e gonna nera. Sembrava una diciassettenne, piuttosto che una ventitreenne.
    Le persone nella pizzeria in cui avevamo deciso di passare la serata l’avevano squadrata da capo a piedi scettiche, ma Bea era così abituata alle occhiate e ai giudizi sul suo look bizzarro che ormai tutto le scivolava addosso come olio.
    «Magari sarà un’esperienza costruttiva», azzardò Didi, assolutamente a sproposito.
    «Certo. Imparerò a fare la babysitter. Che delizia».
    «E non farla così tragica», intervenne Bea dandomi una leggera gomitata, «magari servirà ad addolcire il tuo caratteraccio. Hai proprio bisogno esercitare la tua pazienza».
    «Giusto», approvò Didi. «Noi ti sopportiamo, tesoro, ma il resto del mondo non può mica essere così caritatevole».
    Mangiando la mia parte di pizza, vidi i due far scontrare i propri pugni tra loro in un gesto amichevole.
    Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. «Sono commossa», commentai arcigna.
    Didi perse la sua aria giuliva e sospirò.
    Io già mi misi in allarme: cattivo, cattivo segno, quel sospiro scoraggiato. Era arrivato il momento dei discorsi importanti. Guardai tutto tranne che lui, tentando disperatamente di scampare alla sua premura indesiderata.
    Didi poggiò una mano sulla mia, abbandonata da qualche parte sul tavolo. «Elsa, seriamente: sei sempre di cattivo umore e non ti si scuce un sorriso nemmeno a pagarlo oro. Non è che c’è qualcosa che non va?».
    Scostai con malagrazia la mano del mio migliore amico dalla mia e presi un altro sorso di birra. «Non c’è niente che non va», dissi perentoria. «Insomma, è solo un lavoro, per giunta a tempo determinato. Appena finiremo l’album me ne andrò, e tanti saluti ai Tokio Hotel».
    I miei due amici capirono l’antifona e cambiarono subito la direzione del discorso.
    Bea mi sorrise. «E va bene, musona. Ma almeno di questa opportunità cerca di essere contenta. Milioni di persone ucciderebbero per il posto che hai tu adesso».
    «E se riesci, facci conoscere questi quattro bellimbusti. Ho visto per caso qualche loro foto in giro, sono parecchio decorativi». Didi mi fece l’occhiolino, e, mio malgrado, riuscii a sorridere.
    «Vedrò cosa posso fare», concessi, e nella mente comparve di nuovo la faccia distaccata di Tom Kaulitz e i suoi occhi distanti e altezzosi.
    Il giorno dopo mi presentai puntuale allo studio di registrazione dei ragazzi, con tanta voglia di rimanere da sola a pensare un po’. Oltrepassai il controllo della donna delle pulizie che venne ad aprirmi, e quando feci per dirigermi verso la stanza adibita alle registrazioni, passando per l’enorme salotto, vidi i quattro ragazzi seduti sui divani che facevano colazione, un enorme vassoio con dei resti di croissant poggiato sul tavolino basso. Il tappeto tra i divani disposti a ferro di cavallo era pieno di briciole.
    «Ora capisco perché sentivo chiasso già dall’ingresso».
    Si bloccarono tutti nell’udire la mia voce, come se qualcuno avesse premuto il tasto pausa.
    Decisi di far finta di niente e mi sforzai di essere più cordiale del giorno prima, secondo il consiglio di Bea. «Buongiorno ragazzi! Che ci fate già qui?».
    «Abbiamo passato la notte qui», m’informò Bill dal divano, con un sorriso allo zucchero a velo che mi fece più tenerezza di quanto non volessi ammettere a me stessa.
    «Perché?».
    «Perché Bill ci ha stressato fino a farci esplodere le cervella», disse Tom, con la solita aria distaccata. Soffocai un sorriso acido, non riuscendo a spiegarmi il motivo di tutto quel distacco. Guardai il cerbiatto moro con un’espressione interrogativa.
    «Sì, è che mi sembra ingiusto che tu venga qui alle nove e sia costretta ad aspettare noi… quindi da oggi saremo tutti mattinieri», disse, e, per la miseria, mi sorrise di nuovo. L’effetto fu una strana morsa allo stomaco, che non fu dolorosa, ma nemmeno tanto piacevole. Mi arrabbiai con me stessa per quella reazione da ragazzina in calore, e mi arrabbiai anche per la gentilezza che Bill mi aveva fatto. Detestavo le gentilezze: non sapevo mai come comportarmi e reagivo con la rabbia. Ed esattamente in linea con me stessa, anche quella volta non potei non apparire burbera e ingrata: «non era necessario, ho del lavoro da fare».
    «Ah». Bill infilò in quella singola sillaba tanta delusione e tristezza che mi fece stringere il cuore anche senza che lo guardassi. Appesi il mio soprabito all’attaccapanni a muro, nascondendo il mio viso. «Però grazie. E’ stato molto carino», mi costrinsi a dire. Mi sistemai il maglioncino scomposto sui fianchi e presi il mio computer, poggiandolo sul tavolo nella stanza adiacente al salotto. Aprii dei documenti a caso, cercando la prima cosa da fare disponibile.
    «Bill, risparmiati la faccia da cucciolo bastonato, per favore», lo pregò Gustav annoiato.
    «Non se la può risparmiare, ce l’ha nel DNA», disse Georg.
    «Che simpaticoni», lo sentii berciare con la sua vocina offesa.
    Ghignai senza farmi vedere.
    «Vedi Bill, potevamo benissimo dormire a casa nostra e stare cento volte più comodi, lei mica si offendeva».
    Mi decisi ad innervosirmi: ne avevo già le scatole piene della sua aria da principino annoiato, odiavo quel tipo di persone. E Tom Kaulitz, a quanto pareva, apparteneva proprio a quella categoria di persone.
    «Se proprio ti costava tanto, potevi andarci da solo a casa e dormire nel tuo bel letto comodo».
    Cazzo. E quella frase al concentrato di acidità da dove mi era uscita?
    In ogni caso, mantenni la mia faccia tosta, mentre il sopracciglio di Tom Kaulitz schizzava in alto e il mio stomaco faceva di nuovo quell’inquietante capriola.
    «Va bene, la prossima volta seguirò il tuo consiglio», mi rispose brusco.
    «Bene».
    «Bene».
    «Tomi, non essere così antipatico, risparmia almeno lei», lo ammonì Bill, mentre io mi accanivo a leggere il pentagramma che era comparso sullo schermo del mio computer, giusto per non innescare altre reazioni pericolose.
    «Ah, le donne…», sospirò, alzandosi dal divano. Si scosse dalle briciole che gli erano cadute su quella tovaglia che aveva al posto della maglietta e lo vidi passarmi affianco per andare alla porta d’ingresso e recuperare il cappotto appeso accanto al mio.
    «Dove stai andando?», chiesero Bill e Georg in coro.
    «A fare un giro, stamattina non mi va di lavorare».
    «Cosa?!», esclamai alzandomi di scatto dalla sedia.
    Sbuffò, sistemandosi la visiera del cappello, in un gesto nervoso. «Stamattina non voglio lavorare. Hai capito bene o devo ripeterlo?», mi domandò, scandendo lentamente tutte le parole. Mi risultò definitivamente antipatico. Il suo atteggiamento annoiato e altezzoso aveva cancellato come un colpo di spugna tutta la presunta simpatia che avevo provato per lui il giorno prima. Ma come accidenti avevo fatto ad essere così stupida?
    Strinsi i pugni ai lati dei fianchi. «No, sei tu che forse non hai capito bene. Non puoi mollarci così, la chitarra ci serve».
    «Non ci possiamo permettere di fare i capricci, Tom, per favore», s’intromise Gustav con diplomazia, «il tempo è poco e siamo nei casini».
    Mi chiesi come facesse a comportarsi con tanta pazienza. Io non ci sarei mai riuscita.
    «Che palle che siete! Stamattina mi girano, non voglio fare niente».
    Se prima avevo cercato di trattenermi, quell’ultima frase mi fece scattare come una molla. «E che cosa pensa sua maestà, che quando girano a lei il mondo debba fermarsi?! Non me ne frega un cazzo se hai o non hai voglia, nemmeno io avevo voglia di tornare qui e rivedere la tua regale faccia di bronzo, ma sono qui, quindi adesso riporta il tuo culo esattamente dov’era e non frignare!».
    Appena terminata la mia filippica, ricollegai il cervello alla bocca. E quando studiai meglio il viso irritato e oltraggiato di Tom Kaulitz, seppi di essere nei casini e temetti per il lavoro avuto appena due giorni prima. Sapevo che sarebbe bastata una frase, una sola parola da parte sua per farmi perdere tutto ciò che stavo costruendo.
    Nella camera scese un silenzio di tomba. Soltanto il frusciare del vento all’esterno lo spezzava.
    Tom mi guardava con gli occhi sgranati e increduli, le labbra modellate in una piega dura e impassibile. Non volevo cedere sotto quegli occhi, malgrado cominciassi già a vacillare. E, soprattutto, non volevo ritrovarmi disoccupata, quel lavoro mi serviva come il pane.
    Poi sentì qualcuno ululare e guardai verso i ragazzi: Georg rideva, battendomi le mani, e Gustav cercava di nascondere il suo ghigno dietro la mano. Bill mi sorrise senza scoprire i denti, stupito e soddisfatto.
    «Finalmente abbiamo trovato qualcuno in grado di riportarti con i piedi per terra, Tomi», disse, e io mi vergognai dal più profondo di me stessa.
    Caratteristica lampante di me: l’incoerenza delle mie reazioni. Quindi, a parte l’indiscutibile antipatia che provavo per lui, più che soddisfatta e vincitrice, mi sentii in colpa per averlo umiliato così davanti a tutti.
    Sospirai. «Facciamo che non è successo niente, ok?», cercai di rimediare.
    «Fanculo», mi rispose sprezzante, e uscì sbattendo la porta.
    Rimasi lì impietrita, a chiedermi quante preghiere conoscessi a memoria. «Cazzo», sussurrai, coprendomi gli occhi.
    Georg mi fu accanto dopo qualche secondo e mi diede due discrete pacche sulla spalla. «Non ti preoccupare troppo, Tom è così all’inizio».
    «Deve solo sapere con che persone ha a che fare, poi ritorna più o meno normale», mi rassicurò Gustav.
    «Gustav, Tom e la parola “normale” non possono stare nello stesso discorso, fanno a cazzotti. Basta vedere come si veste», osservò Bill arricciando il naso, in una smorfia così adorabile che mi strappò un sorriso.
    «Tu invece ti vesti sempre in modo così sobrio e composto», scherzai, ritornando al mio computer e sedendomi davanti.
    Bill sventolò una mano in modo altezzoso, con una vanità buffa molto diversa da quella del fratello. «No, ma mi vesto bene», affermò con convinzione.
    «Assecondiamolo, non possiamo farci niente», disse Georg strizzandomi l’occhio.
    «Quindi stamattina che si fa?», chiese Gustav.
    La mia risposta non tardò ad arrivare. Lo guardai serena e risposi: «si lavora, ovvio. La chitarra la suono io».
    Tutti sbuffarono, ma acconsentirono, e ci recammo nella buia sala di composizione e registrazione. Estrassi gli spartiti da un cassetto sotto la scrivania e li misi sul tavolo, imbracciando una delle chitarre classiche di Tom appoggiata lì.
    «Non male», commentai ammirandola in tutti i suoi dettagli.
    «Sì, Tom si tratta bene», disse Bill.
    Scossi la testa e sospirai. Aveva mostri di chitarre come quella, e nemmeno le sfruttava al massimo. Credeva di essere un mito della chitarra, da quanto avevo capito il giorno prima standoci insieme, ma in realtà era solo un dilettante con la bocca ancora sporca di latte.
    Decisi di non pensare più a Tom Kaulitz per il resto della giornata, non gli avrei permesso di rovinarmi l’umore.
    I ragazzi mi si sedettero intorno, mentre io controllavo che la chitarra fosse ben accordata con il mio apparecchio elettronico.
    «Allora, cominciamo?», chiesi agli altri.
    «Se mio fratello ti vedesse con una delle sue chitarre si arrabbierebbe molto, lo sai?», mi avvisò Bill, il cipiglio preoccupato.
    Inarcai un sopracciglio e risposi con durezza: «tuo fratello è l’ultima delle persone ad avere il diritto di arrabbiarsi».
    Non disse più nulla, e cominciammo a lavorare molto più serenamente di quanto avessi pensato, nella stessa atmosfera allegra e complice del giorno prima, senza il fattore di disturbo Tom. Verso mezzogiorno, Bill cominciò a dire di essere stanco.
    «Bill, non puoi fare uno sforzo? Abbiamo quasi finito», lo pregai, cercando di essere gentile.
    Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Sono preoccupato per Tom».
    «Elsa, lascialo andare, tanto scoccerà finché non otterrà ciò che vuole», intervenne Georg.
    Guardai gli spartiti con le ultime note segnate e sospirai. «Quando ti chiamo per adattare il testo, torna di filato qui».
    «Sì!», esclamò e saltellò fuori, chiudendosi la porta alle spalle.
    Fissai la porta masticandomi le guance: che tipo strano. Sembrava quasi…
    «Non è gay, se è questo che pensi», mi anticipò Gustav.
    Nascosi il mio viso dietro i capelli. «Non lo stavo pensando, infatti».
    «Tranquilla, lo pensano tutti all’inizio». Ghignò.
    Arrossii e abbassai gli occhi sulla chitarra.
    «Gli è andata pure bene, alcuni lo scambiano proprio per una ragazza», aggiunse Georg, ridendo con il suo compagno.
    Rimasi seria e non mi feci trascinare. «Ragazzi, per favore, non distraetevi».
    «D’accordo, capo».
    Bill ci raggiunse mezzora dopo, e lavorammo sulla stessa canzone fino alle cinque e mezza anche quel giorno. Al termine del mio turno, sentii che tutta la stanchezza e il nervosismo che avevo dimenticato mi piombarono addosso, schiacciandomi come un mattone. Mi ero dimenticata di essere così stanca e nervosa. Salutai i ragazzi, presi il soprabito e le mie cose, e uscii da quella villetta con una copia degli spartiti sia cartacea che digitale, per poterci lavorare meglio a casa. Il cielo cominciava ad imbrunire, e il vento diventava più forte, scompigliandomi i capelli. Percorsi il vialetto per raggiungere la mia macchina, i fogli sottobraccio. Camminavo ad occhi bassi, fissando le pietre del pavimento, quando vidi un paio di piedi entrare nel mio campo visivo.
    Sollevai lo sguardo, e Tom Kaulitz era davanti a me, sigaretta tra le dita. La luce dei lampioni in lontananza illuminava parzialmente il suo viso, impreziosendo i suoi lineamenti con ombre e un luccichio all’angolo destro della bocca. Si fermò anche lui.
    «Buonasera», dissi glaciale.
    «Buonasera», mi rispose nello stesso tono, e io pensai a quanto fosse bello, anche con quell’espressione da incazzato con il mondo. Fuggii dal suo sguardo rigido, era insostenibile essere fissata in quel modo. Presi la copia degli spartiti e gliela schiacciai bruscamente sul petto, ritirando poi le braccia. Lui prese i fogli e cercò di riconoscere i simboli che vedeva alla debole luce rimasta.
    «Sei in debito con me», sussurrai e me ne andai, le mani che mi tremavano ancora.

    Edited by Monique; - 2/10/2009, 18:34
     
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  7. Monique;
     
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    Ragazze c'è stato un cambiamento nella disposizione dei capitoli. Dovrete rileggere dal primo post per capirci qualcosa, sempre che leggiate ancora.
     
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  8. scialla483
     
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    wooooow
    bellaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
     
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  9. Shynee
     
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    up up
     
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  10. Isy88
     
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    ma che bella!! mi piace tantissimo,l posta presto!^^
     
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  11. Monique;
     
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    Capitolo 3

    «Non è ora di dormire?».
    «No, devo lavorare».
    «Finirai per perdere la vista».
    «Appunto, quindi meglio approfittare finché c’è».
    «Sei una maledetta testona, lo sai?».
    Mi decisi a voltarmi verso Didi, appena tornato dalla discoteca, e lo guardai con aria colpevole. Erano le tre di notte e io continuavo ad accanirmi sul mio computer per lavorare; questa situazione si verificava esattamente da due settimane, cioè da quando avevo litigato con quel manico di scopa dalla pettinatura improbabile. Purtroppo i nostri rapporti non erano migliorati. Parallelamente a questi, anche il mio umore peggiorava, e, maledetta me, non riuscivo a capire perché mi facevo condizionare tanto da un pallone gonfiato.
    «Fila a dormire», mi ordinò Didi accalorato.
    M’intestardii: «no».
    «Ma la pianti di comportarti come una bambina?!».
    Non potevo andare a dormire, perché non lo capiva? Ero troppo scossa. Ero incazzata nera e chiaramente impossibilitata al sonno.
    Udii Didi sbuffare. «Adesso, noi due dobbiamo affrontare un discorso importante», mi disse con metodicità, sedendosi sulla poltrona, vicina al divano su cui ero stesa.
    «Alle tre di notte?».
    «Non vedo perché tu puoi passare la notte a lavorare e io invece non posso fare un discorso serio con te», mi rispose arricciando quel suo musetto impudente, il cui profilo riluceva alla luce del monitor. Si accomodò sui cuscini e ci saltellò su un paio di volte per saggiarne la morbidezza. «Mi dici il perché di tutti questi scompensi?».
    Mi concessi uno sguardo veloce al suo viso. «Non lo so».
    «Sei una pessima bugiarda. Non sarà mica per il Kaulitz?».
    Appena udii quel nome, feci crollare tutte le mie difese. Normalmente non lo avrei fatto nemmeno sotto tortura, ma avevo un’infinità di ore di sonno arretrate, i nervi a fior di pelle e il raffreddore. «Okay, sì», risposi con voce nasale.
    «Ma non è mica la prima testa calda che ti passa sotto il naso. Cosa c’è di diverso?».
    Di diverso c’era che tutte le teste calde che mi erano passate sotto il naso non mi guardavano come se fossi un fastidioso insetto che passa di lì per caso. E non avevano nemmeno quella sua dannata “strafighezza” congenita che trasudava da ogni maledetto poro.
    «E’ insopportabile».
    «E fin qui ci siamo», ridacchiò, «ma perché?».
    Chiusi il mio computer con più violenza del necessario, e la stanza piombò completamente nell’oscurità. «Perché sì».
    «Elsa, “perché sì” è una risposta che si può usare al massimo fino alla quarta elementare».
    Lanciai un’occhiata di fuoco nella sua direzione, che ovviamente non arrivò a causa del buio pesto che regnava nel nostro salotto. «Non mi va a genio che non andiamo d’accordo. Ma solo perché non mi piace essere sempre così nervosa, non per altro».
    Didi rimase in silenzio per un lungo minuto, e io mi allarmai. Aveva sensi di ragno, lui, particolarmente predisposti a captare la vera entità dei miei sentimenti.
    «Ah…», sospirò poi ispirato, con il sorriso nella voce. «Devo vederlo, assolutamente».
    «Cosa?!», saltai su come se fossi seduta su una dinamite accesa.
    «Hai capito, gioia! L’ultimo ragazzo che ti faceva questo effetto si chiamava Derek ed era un figo mai visto. Peccato che fosse etero…».
    «Era anche uno stronzo patentato, se ti ricordi», m’imbronciai al ricordo. «E comunque no, è fuori discussione. Non esiste».
    «Elsa, io domani verrò con te a lavorare», mi annunciò deciso.
    «Per fare cosa? Per discutere con quella cocorita dark dell’ultimo mascara pubblicizzato? Già è distratto di suo…».
    «Quale cocorita dark?!». Non riuscii a vedere il suo viso avvolto dal buio, ma dalla voce sembrò che gli avessi appena rivelato dove fosse il tesoro di Montezuma.
    «Il cantante», spiegai, rievocando il nasino dritto e le mani svolazzanti di Bill. «E’ una specie di ibrido, un incrocio tra una drag queen e una soubrette, non so se mi spiego…».
    «Meglio ancora!», esclamò, e lo udii applaudire.
    «Tanto non ti porterei con me nemmeno se servisse a salvare il mondo».

    «…sono così su di giri! Non immagino cosa dirà Bea appena glielo racconterò!».
    Didi continuava a blaterare da quando aveva messo piede in macchina, agitando le mani e sfiorando con la voce timbri terribilmente striduli. Io mi ero obbligata a serrare la bocca così tanto da farla assomigliare ad una chiusura ermetica e non avevo ancora spiccicato mezza parola – a parte il colorito vaffanculo che gli avevo urlato, perché lo stronzo mi aveva fatto saltare giù dal letto urlando che uno scarafaggio enorme camminava sul cuscino.
    Risultato di quella mattinata da incubo: i miei capelli erano disastrati e aggrovigliati come i serpenti della Medusa; avevo, tanto per cambiare, due trolley agganciati sotto gli occhi; come al solito, ero nervosa e suscettibile come uno scorpione, e, ciliegina sulla torta, il mio raffreddore mi causava una sgradevolissima voce nasale e difficoltà respiratorie.
    Didi si sporse verso di me e mise su un’irritante faccia da cucciolo. «Andiamo, Elsa. Non hai aperto bocca da stamattina, improperio colorito a parte. Me la dici almeno mezza parolina?».
    «Vaffanculo».
    «Non ti smentisci proprio mai», si offese incrociando le braccia e riappoggiandosi al sedile. «Non riesco ancora a capire perché non riesci a digerire l’idea che ci sia anche io».
    «Ho ben tre motivi per non digerirla», dissi compunta.
    «Esplica».
    «Uno: con quella maglia che sembra lo schizzo di un pittore impressionista sembri appena uscito dal Carnevale di Rio, e in mezzo a quella band di scapestrati non c’è bisogno di altri soggetti strani. Due: Ferdinand ti licenzierà di sicuro perché ti sei preso così tanti giorni liberi da esserti giocato anche le ferie dell’anno prossimo, e tre: non mi va che tu sia coinvolto in questa storia».
    Il mio amico non replicò tempestivamente come mi ero immaginata, anzi, con mia grande sorpresa rimase zitto a cogitare.
    Gli lanciai un’occhiata incuriosita e vidi la sua mano sotto la bocca, che si era arricciata per formare un piccolo broncio. Gli portai un ciuffo color biondo cenere dietro l’orecchio e per un momento temetti di aver esagerato e di averlo ferito.
    «Almeno due su tre dei tuoi motivi non sono validi», disse poi, guardandomi con la solita espressione serena e benevola, e mi sentii subito più tranquilla.
    Parcheggiai al solito posto e spensi l’auto. «Ah, sì?».
    «Sì, quindi prendi una bella crusca per digerirla, questa benedetta idea, e andiamo».
    Sospirai e scesi dopo di lui, chiudendo subito dopo la macchina con il telecomando.
    Cercai di contenere tutta la mia preoccupazione, ripetendomi come un disco rotto che Didi era grande e non aveva bisogno della tata. Ma, dentro di me, sapevo che, oltre la superficie degli adorabili sorrisi e degli sguardi turchini e scanzonati, era una persona molto fragile e condizionabile. Il mondo dello spettacolo costituiva un pericolo per lui, anche se in versione contenuta perché i ragazzi erano temporaneamente obbligati a restare ad Amburgo.
    Egoisticamente, inoltre, desideravo che i Tokio Hotel restassero confinati al mondo onirico e dorato di cui facevano parte. Non li percepivo reali, capaci di affrontare la realtà quotidiana e le comuni difficoltà della vita. Una persona come Didi e, più precisamente, come me, lì dentro, stonava quanto una nota sbagliata in una sinfonia perfetta.
    Come sempre, dopotutto. Vero, Elsa? Sempre così inadeguata, così fuori luogo. Ma come mai sei venuta fuori così? Tua madre non era così.
    Quella voce, che per me aveva la familiarità di un cuore spezzato e lacrime trattenute, mi riempì la testa e di colpo mi sentii triste e vulnerabile.
    «Elsa? Devi aprire».
    Senza accorgermene, eravamo arrivati vicino alla porta bianca dell’ingresso, ed era stato come se i miei piedi si fossero mossi da soli, accanto a quelli di Didi. Non dissi una parola, ancora prigioniera del senso di inadeguatezza e insicurezza che mi attanagliava, e aprii la serratura con la copia della chiave che mi ero fatta dare da David. Didi intuì il mio brusco cambiamento d’umore, ma non disse nulla.
    Appena entrata udii il brusio tipico di ogni mattina, che ormai era entrato a far parte della mia routine e solitamente riusciva a rassicurarmi; quella mattina, invece, contribuì a rendermi ulteriormente malinconica. Giunsi nel salone dove di solito i ragazzi mi aspettavano per fare colazione, e mi impegnai per sembrare la stessa di tutti gli altri giorni.
    «Buongiorno!». Feci di tutto per modulare la mia voce in modo che, nonostante il raffreddore, suonasse squillante e allegra come al solito. Invece si incrinò a metà della parola e suonò liquida e umida di pianto.
    Bill, che mi dava le spalle dal divano, si voltò verso di me e assottigliò gli occhi, guardandomi preoccupato. «Stai bene?», mi chiese.
    La panoramica dei visi mi suggeriva che anche Gustav e Georg si aspettavano una risposta. Tom, ovviamente, non mi degnò di uno sguardo: non c’era bisogno di controllare per saperlo.
    Feci del mio meglio per sorridere e sembrare convincente. «Sto benissimo, ho solo un po’ di raffreddore».
    «Tu non me la conti giusta, virago dei miei stivali», mi ammonì Gustav con un sopracciglio alzato.
    Ma che era successo? Ero diventata di colpo trasparente?!
    Didi mi tolse i riflettori di dosso dando due studiati colpi di tosse e nella mia mente mi appuntai di ringraziarlo appena fossimo stati da soli.
    «Ragazzi, questo è Didi, un mio carissimo amico». Gli presentai uno ad uno i membri della band. Poi andai ad appendere il suo soprabito e il mio cappotto, la mia sciarpa, i miei guanti e il mio cappello all’appendiabiti accanto alla porta. Lui si ambientò subito in quell’atmosfera, riuscendo a coinvolgere tutti nella conversazione, perfino quel musone di Tom.
    Ma perché, Elsa? Perché tu invece sei sempre così ignorata? Cos’hai che non va?
    Tirai fuori dalla mia borsa il mio portatile e la mia roba, eseguendo tutto con una lentezza spossata che non mi apparteneva. Ma di colpo mi sentivo come se mi stessero prendendo a legnate e non riuscivo a far nulla per combattere quello stato d’animo.
    Supplicai solo quella voce di smettere di torturarmi, e dopo mi infuriai con me stessa, perché non riuscivo a capire quale muro avessi fatto crollare per permetterle di attaccarmi.
    «Tu hai qualcosa che non va».
    Sobbalzai, e quando alzai gli occhi per vedere chi dovesse morire per avermi fatto spaventare, mi trovai davanti due occhi verdi e una breve cascata di capelli castani. Georg mi guardava, piegato con i gomiti tavolo, la testa poggiata alle mani giunte.
    «Cosa ti fa supporre che ho qualcosa che non va?», domandai e mi imposi, con tutte le mie forze, di tornare ad essere quella di sempre. Tentai un sorriso che mascherasse tutto ciò che provavo e seppellii ogni sentimento negativo sotto i numerosi strati protettivi di cui mi schermavo.
    «Sembri appena uscita da un campo di concentramento, e non è solo colpa del raffreddore. Non ci hai messi in riga come al solito, continui a fissare quel monitor con gli occhi vuoti, mentre pensi a chissà che e, cosa più importante, non hai ancora guardato nella direzione di Tom».
    Mi sentii punta nel vivo e il mio viso si raffreddò di un centinaio di gradi. Tornai a fissare lo screensaver del mio computer. «Dici un sacco di sciocchezze».
    Georg ghignò soddisfatto. «Visto? Sei subito passata sulla difensiva. Ho ragione».
    Non avevo intenzione di lasciarmi scrutare dentro con tanta attenzione un minuto di più. «Georg, ricordati della mia posizione. Io sono il tecnico del suono, tu il musicista. E basta».
    Non controllai dal viso la sua reazione, ma dopo qualche secondo non percepii più la sua presenza accanto a me. Mi sentii profondamente in colpa per averlo trattato in quel modo: in quelle due settimane ero riuscita a creare una parvenza di rapporto tra me e i membri della band – Tom escluso, ovvio –, specialmente con Georg, e in quel modo mi sembrò di aver mandato tutto all’aria. Didi aveva terribilmente ragione: non mi smentivo proprio mai.
    Sospirai e spinsi indietro la sedia per alzarmi, facendola grattare sul pavimento per richiamare l’attenzione di tutti. Mi schiarii la voce un paio di volte per assicurarmi che non mi tradisse di nuovo. «Possiamo cominciare?».
    Era una domanda retorica la mia, ovviamente, ma Tom decise di rendermi la vita difficile: «ma non ti eri mummificata su quella sedia lì?», mi domandò con aria distratta e annoiata.
    «Ovviamente no, altrimenti come potrei irritare il principino?», ribattei con acrimonia.
    «Basta la tua presenza ad irritarmi».
    «Sono una perfezionista, lo sai. Muoviamoci». Mi avviai verso il corridoio e mi voltai prima di imbucarlo, non sentendo nessun passo dietro di me: erano ancora tutti lì e mi guardavano come se fossi un’aliena appena uscita in compagnia dei sette nani di Biancaneve da una navicella spaziale. «Beh?».
    La mia espressione doveva essere molto eloquente, perché si mossero istantaneamente.
    «Io vado a prendere dei testi, vi raggiungo», precisò Bill sparendo un momento in una stanza che non avevo mai visto. Per quanto mi riguardava, in quella casa poteva esistere anche solo la sala registrazione e lo studio.
    «E io che faccio?», domandò Didi eccitato.
    Soffocai una rispostaccia che premeva da dietro le mie labbra. «Tu fai il bravo bambino, ti siedi e non ti muovi».
    Quando ci fummo spostati tutti nella sala registrazione, mi sedetti vicino alla scrivania, portatile di fronte e basi musicali alla mano. Rividi velocemente tutto il materiale che avevamo accumulato, e non era affatto male. In due settimane eravamo riusciti a produrre molto più di due mesi.
    «Perché questa chitarra è accordata?», domandò Tom, scandalizzato.
    Appuntai un LA da cambiare in LA minore nello spartito e risposi senza alzare lo sguardo: «non saprei davvero, Tom, di solito tu come le suoni, le chitarre?».
    «Mi sembra strano che sia accordata dopo più di tre mesi che non la uso».
    Riflettei che forse il LA minore non era così adatto all’armonia della melodia, mangiucchiando il tappo della mia Bic. «Infatti, l’ho accordata e usata io due giorni fa».
    Seguii una piccola pausa, in cui, immagino, Tom mi incenerì con la sola forza dello sguardo. «Ma sai che chitarra è questa?».
    Alzai la testa, irritata. «E’ una Breedlove Bossa Nova, modello elettrificato. E allora?».
    «E allora un gioiellino del genere non deve passare in mani che non siano le mie, chiaro?».
    Lo guardai e immaginai di strangolarlo con una delle corde della sua preziosissima chitarra. «Per tua informazione, maneggio oggetti del genere da quando tu avevi ancora il latte alla bocca, inoltre, se tu sapessi minimamente come usarla, quella chitarra, non la lasceresti marcire tra i tarli in un angolo dello studio».
    «Parli come avessi vent’anni più di noi», grugnì, sedendosi rudemente su una sedia di fronte a me e notai le sue labbra contratte in una smorfia di rabbia. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo, ma il mio cuore batteva già ad un’anormale velocità. Strinsi la penna più forte.
    «Parlo come qualcuno che ne sa molto più di voi».
    «Quanto a spocchia, di sicuro».
    «Ma fanno sempre così?», sentii domandare da Didi, appollaiato su un amplificatore all’angolo della stanza.
    «Oh, sì. Noi ci abbiamo fatto l’abitudine», rispose Georg, continuando a strimpellare note sul suo basso mentre fissava gli spartiti sullo schermo del mio computer.
    Proprio in quel momento Bill fece il suo ingresso con una decina di foglietti volanti in mano. «Che mi sono perso?». Si sedette a gambe incrociate sulla sedia accanto alla mia e mi consegnò i suoi testi. La grafia di Bill era grande e pomposa, appena un po’ disordinata.
    «Niente di nuovo», ghignò in risposta Gustav.
    Lessi le bozze dei suoi testi e dovetti riconoscere che non erano male. Uno scarabocchio all’angolo di un foglio, nello specifico, mi impressionò: erano solo pochissime parole, al massimo sette, ma mi colpirono impietosamente. Particolarmente vulnerabile e triste com’ero, mi fecero salire le lacrime agli occhi.
    «This pain of love will last forever», mormorai tra me, leggendo quelle poche parole. Quanto era vero.
    «Elsa?», mi richiamò qualcuno.
    Mascherai il gesto di asciugarmi gli occhi come meglio potei e mi sistemai meglio sulla mia sedia. «Cominciamo da qui», annunciai, indicando un altro testo a caso, sperando vivamente che non mi pungesse nel vivo quanto le parole che avevo letto prima.

    Non so come riuscii ad arrivare indenne alla fine di quella giornata lavorativa senza scoppiare sotto le frecciatine di Tom, sopportare la diarrea verbale di Bill che mi parlava sopra appena poteva e lo sguardo di Didi, che – ne ero certa – era preoccupato per me. Fatto sta che quando mi resi conto che avevamo superato le cinque e mezza, raccattai le mie cose e salutai, sperando di andarmene da lì il più in fretta possibile.
    Mentre prendevo il cappotto dall’appendiabiti, sentivo i miagolii di Bill che affermava di essere stanco morto, i grugniti di Tom e l’unica frase sensata di Gustav che diceva di avere fame.
    «Perché non mangiate qualcosa con noi?», propose Georg con entusiasmo.
    «Che splendida idea!», cinguettò Bill.
    «Certo!», si animò Tom con una voce malefica e astiosa, «al tuo pasto posso pensare io, Elsa, che dici?».
    Mi sentii crollare dentro e di riflesso serrai le dita sulla stoffa del cappotto. «Dico che piuttosto che morire con qualcosa che hai toccato tu, mi butto spontaneamente sotto un camion», gli risposi, voltandomi verso di lui.
    Bill mi si avvicinò con poche falcate e mise un braccio sotto il mio, sorridendomi dall’alto del suo metro e ottanta. «Ma pensi che lo permetterei mai?», mi sfarfallò le lunghe ciglia quasi in faccia, «per favore, rimanete!».
    Lanciai a Didi un’occhiata interrogativa, sceverandola da ogni eventuale e implicita supplica che vi si potesse intrecciare.
    Lui mi guardò un momento assottigliando i suoi occhi turchini e sollevando le sopracciglia; mezzo secondo dopo, sorrise di nuovo. «Non oggi, ho il turno anticipato. Ma possiamo rimanere un’altra mezz’oretta, vero?».
    Almeno questo, glielo dovevo.
    «Certo». Mi districai dalla presa di Bill per prendere dal mio soprabito il cellulare e le sigarette. «Vado un momento fuori, vi raggiungo subito».
    Uscii nel giardino senza cappotto e le tasche piene. Mi sedetti compostamente su una panchina di plastica piazzata in mezzo a del pietrisco bianco, distante circa cinque metri dalla casa.
    Finalmente sola, pensai sollevata, strofinandomi le braccia fredde con le mani. Appoggiai la testa sui palmi e feci un rapido resoconto di quella giornata.
    Male. Era proprio andata male. Non perché i ragazzi non avessero lavorato – perché c’era da riconoscere che mettevano anima e corpo in ciò che facevano –, non perché Tom si fosse comportato da buzzurro insensibile come al solito e nemmeno per la presenza di Didi, che aveva scombinato in qualche modo i miei ritmi. In quelle due settimane c’erano state intromissioni di altri produttori che avevano lavorato in precedenza con i Tokio Hotel, e non ero stata minimamente toccata da loro.
    No, io sapevo perfettamente dove fosse il problema. Mi accesi una sigaretta e feci un tiro.
    «Ehi!».
    Sobbalzai e per poco non mi scappò un urlo. «Bill!», esclamai non appena mi fui voltata. «Se volevi farmi venire un infarto, ci sei quasi riuscito», dissi mentre lui si rannicchiava sulla panchina accanto a me, nonostante non glielo avessi chiesto.
    «Nah, quello lo farebbe Tom. Io agirei in modo più sottile», mi rispose con un sorriso strano.
    Ridacchiai, aspirando di nuovo. «E’ così bello vedere che tanta gente tiene alla tua vita. Volevi dirmi qualcosa?».
    «Oggi sei stata strana», notò Bill, guardandomi preoccupato, le sopracciglia aggrottate che formavano un piccolo solco sulla fronte. «E’ per Tom?».
    Sempre diretto e laconico. Tatto: zero.
    Aspirai di nuovo, più nervosa. «Se mi facessi condizionare da lui e da ogni stupidata che dice non starei ancora qui, ti pare?».
    «Sì, però io mi sentirei ferito se qualcuno mi attaccasse in continuazione come fa lui…».
    Fui così intenerita dal suo sguardo da cucciolo di cocker che per poco non allungai una mano per accarezzarlo sulla testa. «Perché il tuo tenero cuoricino non riesce a sopportare due critiche consecutive nell’arco di tre giorni, è normale».
    «Non è vero!», strepitò, circondandosi un ginocchio con le braccia. «Io ricevo critiche in continuazione, anche molto cattive».
    E’ anche vero che te le vai a cercare, pensai d’impulso, ma non fu in quel modo che risposi: «Allora saprai benissimo cosa vuol dire non darci peso».
    Non sembrò contento della mia risposta distaccata e distolse lo sguardo dal mio. Fissò i palazzi davanti a noi, che si stagliavano su un manto di rosa e pervinca.
    «Io non riesco a non dare peso alle cattiverie di qualcuno che mi piace».
    Sorprendentemente, non saltai su come se mi avessero punta con uno spillo, non strillai, non mi scandalizzai, non gli lanciai qualcosa addosso, né feci niente del genere. Mi limitai a fare un altro tiro e a dire, con la mia migliore faccia tosta: «francamente, troverei più attraenti i tombini».
    Lo vidi scuotere la testa con la coda dell’occhio, come se si arrendesse a qualcosa.
    «E Didi?», cambiò argomento.
    «Didi cosa?».
    «Chi è? Perché è qui?».
    «E’ il mio migliore amico, ed è qui perché è un rompiscatole pazzesco», risposi asciutta. Gettai il mozzicone nel pietrisco bianco e polveroso.
    «Solo migliore amico?».
    M’irritai e gli lanciai uno sguardo che mandava il chiaro messaggio di farsi i preziosissimi affari suoi. Ma Bill Kaulitz, a quanto pareva, era insensibile a certe intimidazioni non verbali, perché continuò a guardarmi in attesa di una risposta.
    «Solo migliore amico», capitolai. «Anche perchè non si potrebbe mai andare oltre». Il solo pensiero era ridicolo e mi fece ridere.
    «Perché?».
    Certo che era strano: riusciva a captare cose che non potevano esistere nemmeno nei film di fantascienza, come una mia improbabile cotta per un pallone gonfiato di boria e non vedeva le cose più lampanti.
    «E’ gay», risposi semplicemente, «e voleva vedere il posto dove lavoravo». Anche a costo di perdere il suo, di lavoro, ma questo non lo dissi.
    «E’ simpatico», commentò Bill.
    Non risposi e da quel silenzio capii che non avevamo più nulla da dirci. E, cosa più importante, che dovevo tornare dentro prima che la situazione si facesse troppo intima.
    «Io torno in casa, fa freddo». Mi alzai e percorsi il breve tratto di strada sterrata, fino ad approdare all’isoletta di mattoni intorno alla casa. Bill mi seguiva, sentivo il rumore dei suoi passi. Aprii la porta e la luce mi ferì gli occhi, costringendomi a strizzarli un paio di volte prima di abituarmici.
    «Ecco tornati i piccioncini», disse Tom con un sorriso da stregatto che mi allarmò non poco.
    «Attento che uno di loro non ti voli in testa», replicai velenosa.
    «Lascialo perdere, deve fare così, altrimenti la mamma si arrabbia», mi sussurrò Bill al mio fianco.
    «Comunque, noi», ci interruppe Georg e indicò noi tutti con un gesto vorticante del suo dito indice, «ci vediamo sabato sera».
    Sgranai gli occhi e avvertii la mia mascella cadere in basso come una tapparella rotta. «C-cosa?».
    Didi si alzò dal divano e mi saltellò incontro battendo le mani. «Li ho invitati nella discoteca dove lavoro. Si camufferanno e non lo saprà nessuno», esclamò pimpante, anticipando già una mia possibile protesta.
    «E Bea?», protestai comunque incredula, «Didi, è il suo compleanno!».
    «Festeggerà anche con loro, no? E’ la serata ideale anche per i ragazzi per svagarsi un po’, stanno lavorando parecchio in queste settimane».
    Avrei avuto mille altre cose da dirgli, anche da urlargli contro, ma non mi è mai piaciuto avere pubblico e preferii tacere.

    «Non li conosci da neanche un giorno e già ti sei elevato a loro balia?», domandai in macchina, mentre guidavo inviperita verso casa. «Che bravo».
    «Non capisco perché la cosa ti infastidisca tanto, sinceramente», disse il mio amico mettendo su uno dei suoi irritantissimi bronci. «Sono dei ragazzi così carini!».
    «Sono dei ragazzi carini che fanno parte di un mondo che non ci appartiene. Era esattamente questo che intendevo quando ho detto che non mi andava di coinvolgerti in questo manicomio! Per non parlare di Bea, poi! Doveva essere un bel compleanno per lei!».
    «Lo sarà! Quale miglior regalo di un incontro ravvicinato con un gruppo…».
    «…che neanche conosce? Io ne conosco almeno un milione o due», lo interruppi, accelerando in piena curva. Infuriata e delusa, avevo voglia di chiudermi in camera e non uscirne più fino alla prossima era glaciale.
    «Il tuo problema è un altro, non mascherarlo con la voglia di proteggermi».
    «Davvero? Illuminami».
    «Hai paura di fidarti di loro. Per la verità, hai paura di fidarti di chiunque», mi rispose.
    Quelle parole mi ferirono e la vista mi si appannò di nuovo. «E meno male, altrimenti starei alle pezze», dissi con voce debole. Perché il mio tono era molto meno combattivo di prima?
    «Non puoi chiuderti nel tuo mondo e aspettarti che il resto delle persone faccia lo stesso».
    Inchiodai mentre stavo parcheggiando sotto casa. Guardai il mio amico, tentando di non cedere sotto il peso del dolore di ricordi vicini e contemporaneamente lontani.
    «Le persone non sono tutte uguali, Elsa».
    Spensi il motore. «Forse, ma sono tutte egoiste».
    «Anche tu?», mi chiese guardandomi preoccupato.
    Fissai i miei occhi sul volante per pochi secondi. «Anche io. Altrimenti non sarei qui».
     
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  12. Monique;
     
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    Capitolo 4

    «Svegliati, dormigliona!».
    Improvvisamente il confortante e morbido tepore delle mie lenzuola e della trapunta mi venne strappato, e rimasi in preda al freddo. Mi raggomitolai su me stessa, aggrappandomi con tutte le mie forze al mio cuscino e agli ultimi brandelli di incoscienza.
    «Ti butto giù dal letto, sai?».
    Riconobbi la voce di Bea nello stesso momento in cui desiderai stritolarla. Rimasi immobile e con gli occhi chiusi, stringendo il mio cuscino come se potesse farmi scampare alla sua furia.
    «D’accordo, l’hai voluto tu».
    Le sue dita cominciarono a solleticarmi i fianchi e io presi a contorcermi e a ridere, così forte da lacrimare, supplicandola di smettere. A quel punto fu chiaro a Bea che ero completamente sveglia, anche perché per sfuggire al suo dannatissimo solletico mi ero fiondata fuori dal letto.
    «Tu!», le puntai contro un dito e la incenerii con lo sguardo. «Dimmi cosa ci fai a casa mia di domenica mattina, e a quest’orario indecente, per giunta!».
    «Mancano sei giorni al mio compleanno, sono le nove e dobbiamo andare al centro commerciale per prendermi il vestito adatto», mi spiegò, per niente intimorita.
    «E ovviamente venire un paio d’ore dopo per consentirmi di dormire le mie sante otto ore era proprio impossibile», borbottai, uscendo dalla mia stanza e andando in bagno, e Bea mi seguì come un cagnolino fino alla porta.
    «Devo fare pipì, almeno in bagno ce l’ho un po’ di privacy?» berciai burbera e assonnata e sbattei la porta senza nemmeno aspettare una risposta.
    «Sai che di prima mattina sei perfino più simpatica del solito?», domandò Bea da dietro la porta
    «Ma davvero? Tu resti la rompipalle di sempre, invece».
    «Tanto lo so che mi ami anche per questo», replicò leziosa, prima di cambiare improvvisamente tono: «sbrigati, non ho tutta la mattinata libera e devo ancora decidere cosa metterai».
    Ringhiai contrariata e mi infilai nel box della doccia. Dopo essermi lavata, mi pulii i denti e uscii dal bagno, diretta in camera mia.
    La mia deliziosa amica, che quel giorno aveva scelto un paio di jeans a righe bianche, un accollato vestito blu che le arrivava fin sopra alle ginocchia e stivali texani maschili, stava trafficando nel mio armadio, alla ricerca di qualcosa da farmi mettere.
    Io mi buttai sul letto disfatto e seppellii la mia testa sotto il cuscino. «Ma esci con Didi, no? Io non ne ho voglia».
    «Didi sarà tornato alle quattro di stamattina, come minimo. Ha più bisogno di dormire di te».
    Ecco cosa succedeva a vivere a stretto contatto con gli amici: niente privacy e programmi puntualmente cambiati.
    Squillò il telefono fisso della cucina.
    «Vado io», si offrii Bea, «tu intanto vestiti. E mettiti qualcosa di guardabile, per carità».
    Mi trascinai vicino all’armadio mentre lei spariva nel corridoio e ovviamente scelsi ciò che Bea avrebbe evitato come la peste, perché troppo poco appariscente: un paio di calze pesanti, comuni jeans chiari e un maglione a collo alto. Li indossai prima che la mia amica avesse il tempo di vederli a portata di mano e cedere all’impulso di gettarli in una tritatutto. Tornò mentre tentavo di infilarmi i grossi calzini di pelo dal verso giusto. Mi ero preparata alla sua possibile sfuriata, invece lei restò a guardarmi, seria in modo preoccupante, con il cordless premuto contro il petto da una mano e le labbra contratte.
    «È tuo padre, vuole parlarti», sussurrò.
    Dentro di me desiderai fuggire via come un coniglio. «Digli che sto dormendo», sibilai.
    «Non posso dirgli che stai dormendo, gli ho già detto che sei sveglia!».
    Mi alzai dalla sedia girevole e presi il cordless, portandomelo subito all’orecchio. «Buongiorno, papà», salutai educata e con il cuore già in subbuglio.
    «Buongiorno, Elsa. Hai passato una buona notte?». La sua voce autorevole mi riempì la testa, asettica e distante come se fosse registrata.
    «Perfetta, grazie», risposi nello stesso tono. «A cosa devo questa telefonata?».
    «Io, tuo fratello e Annika pranziamo fuori, oggi, insieme ad alcune persone molto importanti», m’informò.
    «Mi fa piacere. E io cosa c’entro?». Non potei far a meno di piazzare in quella domanda un po’ d’astio, solo un vago riflesso di tutto il rancore che nutrivo verso la mia famiglia.
    «Fosse per me, non c’entreresti nulla, ma devi esserci anche tu, purtroppo. Hanno espressamente chiesto la famiglia al completo».
    Crollai sul letto, il telefono ancora accostato all’orecchio e mi sentii il cuore strizzato in un pugno. Che accidenti se ne fregavano gli “illustri ospiti” se mancava qualcuno all’appello?
    «D’accordo», capitolai, tanto discutere con lui era inutile. «Per che ora devo venire?».
    «Per un’ora accettabile, suppongo. Non conosco i tuoi standard».
    Alzai gli occhi al cielo e soppressi l’istinto di rispondere a quella frecciatina implicita. «Okay».
    «E, Elsa?», mi richiamò.
    «Sì?».
    «Non abbigliarti da comune contadina come fai di solito, per favore. Cerca almeno di assomigliare ad una persona del nostro circolo».
    Strizzai forte gli occhi, sopprimendo un’altra rispostaccia. «D’accordo, ciao», e chiusi la comunicazione.
    Bea mi guardava preoccupata, appoggiata allo stipite della porta, in attesa che dicessi o facessi qualcosa.
    Rimasi immobile per qualche secondo, poi mi alzai e sbattei il cordless sul letto con tutta la forza che avevo. «Stronzo», sussurrai, immaginando che il telefono fosse proprio lui.
    «Che ha detto?», mi chiese Bea.
    «Ha detto che devo pranzare con loro e altri stupidi figli di papà che passano da quelle parti», ringhiai con i denti scoperti. «Capisci? Non si sono fatti vivi per tre mesi, nemmeno una telefonata per sapere se sono viva, adesso mi chiama e mi dice che devo stare con loro, e non solo! Mi chiede pure di “cercare di assomigliare” ad uno di loro. Preferirei prostituirmi, piuttosto che essere come lui e tutto il suo stupido mondo del cazzo!». Ero talmente furiosa che sferrai un calcio al letto.
    «Calmati», mi ammonì Bea, tranquilla. Mi venne incontro e mi circondò con le sue braccia. Probabilmente voleva abbracciarmi, invece io mi sentivo ingabbiata e repressa dalle sue mani che mi stringevano. Non volevo calmarmi. Volevo prendere a pugni tutto, me stessa per prima, perché la voce di mio padre, che mi aveva parlato come si parla alla più abietta delle persone, era la stessa che sentivo nella mia testa come un continuo ronzio, la stessa che mi ricordava quanto non fossi quello che lui voleva, quanto fossi inadeguata e insignificante.
    «Ascoltami», cominciò Bea dopo che ebbe appurato che mi ero acquietata. In realtà non mi ero calmata affatto, stavo solo crollando sotto tutto il dolore che quei pensieri mi provocavano. «Adesso usciamo, così ti distrai, e prendiamo anche un bel vestito per te. Quando tuo padre ti vedrà sarai così splendida che si rimangerà tutto ciò che ti ha detto».
    «Ho detto che non voglio fargli pensare di essere come lui. Preferisco rimanere come sono».
    «Certo, ma almeno terrà la bocca chiusa. No?». Mi fece l’occhiolino e mi sorrise per darmi coraggio.
    Le sorrisi di rimando, anche se farlo mi costava moltissimo. «Dai, andiamo».
    «E ringraziami perché ti do il consenso di uscire vestita così».
    Non replicai alla sua battuta, non ne avevo proprio la forza. Lasciai un biglietto per Didi, che abbandonai sul suo comodino e uscii da casa mia con Bea.
    Al centro commerciale, dopo aver girato due ore per negozi di abbigliamento, cosmetici e scarpe, Bea diede veramente il meglio di sé: scelse un estroso corpetto viola, rigido, decorato da una fantasia floreale di pizzo nero, che si chiudeva sulla schiena tramite dei laccetti argentati così sottili da sembrare piccoli fili di luce; una gonna di velluto color pece con delle sfumature prugna, terminante appena sotto le ginocchia, sobria abbastanza da mitigare l’effetto provocatore del corpetto, e stivali con tacchi alti e spessi.
    Il risultato finale era un frullato di vari stili, ma c’era da ammettere che faceva il suo effetto, specie grazie al contrasto cromatico con i capelli biondi e gli occhi chiari di Bea.
    Per quanto mi riguardava, non scelsi nulla di troppo appariscente: un semplice vestito ocra a maniche lunghe, poco scollato, sui cui contorni erano disegnati fiori blu di corallini e perline.
    Non si avvicinava nemmeno lontanamente al mio stile, ma per l’occasione era “adeguato”, come avrebbe detto la voce austera del mio adorabile paparino. La parte più difficile, comunque, erano le scarpe: decolleté beige, con un tacco di tredici centimetri, paurosamente sottile.
    Verso mezzogiorno passato tornai a casa e cominciai a fissare il mio vestito, adagiato sul mio letto, e quegli strumenti di tortura cinese che facevano passare per scarpe.
    «Beh?», mi disse Bea, entrando in camera con due bicchieri di acqua e menta in sciroppo. Me ne diede uno e bevvi un sorso, continuando a guardare perplessa i vestiti.
    «Io non metterò mai questa roba», decisi pacata.

    «Ahia!».
    «Smettila e allacciati quel cinturino».
    «Ma se mi fanno male solo stando seduta, non oso immaginare…».
    «Elsa, allacciati quel cinturino».
    Smisi di protestare con un sonoro sbuffo, giusto per far sentire in colpa Bea – che comunque non si sarebbe mai sentita in colpa –, e mi chinai sul cinturino anteriore delle mie scarpe. Lo allacciai e mi sollevai appena a guardare i mostri che avevano fagocitato i miei piedi: li avrei odiati, lo sapevo.
    «Brava. Adesso alzati, lentamente».
    Le lanciai un’occhiata che avrebbe potuto incenerirla. «Potresti anche evitare quel tono, sai? Non mi aiuta».
    «Quale tono?».
    «Quello che si usa con i bambini dell’asilo».
    Bea si morse le labbra alzando gli occhi al cielo, probabilmente per evitare di ribattere. Io, a malincuore, seguii il suo consiglio e mi alzai, cercando un equilibrio su quei bastoncini per spiedini. Appena mossi un passo, un allucinante dolore s’irradiò con la velocità di un fulmine nella caviglia su cui stavo poggiando il peso.
    Ma perché, perché dovevo per forza mettere quei trampoli e rinunciare alle mie amatissime ballerine? Stavo per scoppiare in lacrime da un momento all’altro, ne ero sicura.
    «Voglio morire», decretai.
    «Per quello c’è tempo. Cammina un po’ per la stanza».
    Sbuffai pesantemente, offesa. «Ma come fai a parlarmi così? Non hai un briciolo di cuore», piagnucolai in direzione di Bea.
    «Perché sono sadica, cinica e refrattaria ai tuoi lamenti, ovvio».
    La ignorai e cominciai a passeggiare lentamente per la mia stanza, approfittandone per rimettere un po’ d’ordine sulla scrivania di fronte al letto e sul letto stesso, dove gli strati di indumenti erano una sorta di decorazione permanente del mio piumino.
    «Non te la cavi poi così male».
    Certo, volendo, non me la cavavo affatto male. Dopotutto, dai quattordici ai diciassette anni la mia scarpiera era stata piena di quei sandali e scarpine con tacchi vertiginosi. Poi i miei gusti erano drasticamente cambiati e avevo regalato tutto alla mia vicina quattordicenne, amante e spasimante di quel genere di scarpe. Com’è vero che in fondo noi esseri umani siamo tutti banalmente uguali.
    «Che succede qui?». La voce assonnata di Didi mi arrivò come un’ancora di salvezza e mi voltai istantaneamente verso di lui, che era in boxer – arancioni con motivi floreali verdi e rosa confetto, precisiamo – sulla soglia della mia stanza, intento a stropicciarsi un occhio.
    «Didi! Oh, sei la mia salvezza!». Schizzai verso di lui, correndo il rischio di rompermi una caviglia, e gli presi entrambe le mani, guardandolo implorante. «Ti prego, ti scongiuro, guardami, dimmi che sono ridicola e costringimi a cambiarmi!».
    Mi restituì uno sguardo assonnato e vagamente perplesso. «Perché?».
    «Pranzo in famiglia», spiegò brevemente Bea, e Didi comprese tutto al volo: lo capii dalla sua espressione.
    «Già, papà ha deciso di farmi un’improvvisata, con tanto di improvvisate, simpaticissime battutine».
    Si sforzò di essere serio nonostante il trauma del brusco risveglio. «Ah». Mi guardò per circa cinque secondi, squadrandomi da capo a piedi e poi curvò le labbra in una mezza piega soddisfatta: «stai benissimo così».
    «Non ci posso credere!», esclamai oltraggiata. In qualche vago modo speravo che Didi mi facesse guadagnare un po’ di tempo, o che me lo facesse perdere, a seconda dei punti di vista. L’ultima cosa che volevo era passare tre spaventosissime ore in compagnia del mio adorato paparino, il mio ingessatissimo fratellone, la mia simpatica matrigna e qualche tronfio, pelato, meschino, conservatore riccone.
    Mi esaminai allo specchio a muro collocato dietro la porta, spostando Didi con una manata poco gentile. Mi costrinsi ad ammettere che non stavo poi così male e scoprii che era il motivo per cui stavo facendo tutto questo ad irritarmi a morte.
    Non andare, mi suggerì la vocina della parte più volubile di me. Sapevo che quella giornata mi sarebbe costata dieci anni di vita, almeno. Sommati a tutti quelli che perdevo ogni giorno, a fare da tata a quei quattro scapestrati, mi rimanevano ad occhio e croce altri tre anni da vivere. Perfetto.
    «Non per turbare il tuo karma interiore, zucchero, ma se resti lì a guardarti arriverai in ritardo».
    Tipico di Bea essere dura e diretta nei momenti in cui il primo istinto è quello di volere coccole e comprensione. Forse era strano, ma quella sua risolutezza nei momenti difficili mi aiutava molto più delle effusioni e delle carezze, e lei lo sapeva. Quindi, feci un respiro profondo, afferrai la borsetta – io con la borsetta, cose dell’altro mondo – e uscii dalla mia stanza.
    Nel momento esatto in cui afferrai il pomello della porta d’ingresso, avvertii il bisogno impellente di un abbraccio. Un abbraccio, come quelli che le mamme danno ai loro figli. E mi sentii spezzata in due, perché io non avrei mai avuto l’abbraccio di una madre che non avevo nemmeno mai conosciuto.
    Mi voltai appena verso Didi per chiederlo a lui, ma ovviamente non avrei mai pugnalato così alle spalle il mio orgoglio. Sorrisi ai miei due amici e uscii di casa.
    «Ce la posso fare», mi dissi, mentre guidavo verso villa Fränze. Avvistai il piano più alto della villa di mio padre, poi vidi il cancello aprirsi quasi magicamente quando la mia auto vi si fermò davanti, e fui certa che quella non sarebbe stata affatto una giornata facile.
    Percorsi con l’auto il viale cementato che conduceva direttamente al garage per le altre auto. Mio padre, come qualsiasi avvocato di fama nazionale che si rispettasse, aveva la passione esagerata per le cose costose. Non gli andava mai bene niente di qualsiasi cosa, era austero e gli si scuciva un complimento solo se veniva pagato. Letteralmente, perché, come qualsiasi avvocato, era un mercenario. Un mercenario costoso ma particolarmente capace, che sapeva tenersi buoni i suoi clienti.
    Arrivata al garage sotterraneo, parcheggiai la mia modesta C3 accanto alla sua Mercedes classe M, che copriva con la sua mole massiccia un’altra grossa auto, che associai istintivamente all’”ospite illustre”, come l’aveva soprannominato la mia mente. Presi la mia borsetta, lanciai un’altra rapida occhiata alla mia immagine riflessa nello specchietto e scesi dalla mia macchina.
    Non sarà mica la fine del mondo, mi dicevo, mentre prendevo l’ascensore che portava al piano terra della villa. Ogni secondo del tempo che passavo da quando avevo messo piede fuori di casa era scandito da diverse ondate di diversi ricordi, che mi ricordavano con brutale crudeltà tutti i miei vuoti. Il primo, il più doloroso, quello che non mi aveva mai lasciato e che non mi avrebbe lasciata mai, era la mia famiglia – se famiglia si poteva chiamare.
    L’ascensore si fermò e si aprì sul grande ingresso della villa, mostrandomi un mobile in legno massello cesellato con su un telefono e un angolo del prezioso tappeto persiano che si poggiava sul pavimento di granito lucidissimo. Ma fu ciò che stava sopra al mobile di fronte a me che mi distrasse e mi attrasse come se mi tirasse con una corda. Una cornice appesa al muro, che conteneva la foto di mia madre e mio padre, giovani, appena sposati. Uscii dall’ascensore e mi avvicinai per esaminarlo meglio, come facevo ogni volta. Lo sfondo era uno dei più classici: prato inglese sotto i loro piedi, cielo azzurro, un albero rigoglioso e fronzuto dietro, sulla sinistra, e lo scorcio verde di un lago. E c’era mia madre, sorridente e bellissima, che stringeva la mano di quell’uomo che faticavo tanto a riconoscere come padre. Non troppo alta, bionda, con la coppia di occhi grandi e scuri che aveva regalato anche a me. E un sorriso talmente sincero che spinse a sorridere anche me, che mi fece provare l’istinto di allungare la mano e toccare la sua faccia con le dita.
    Percepii sensibilmente una fitta nel torace, in alto, appena a sinistra.
    Mia madre si chiamava Gabriella, come il mio secondo nome. Diede alla luce mio fratello e, passati tre anni, scoprì di avere un cancro al midollo appena pochi giorni dopo che seppe di essere incinta di me. Scelse di non curarsi, di non operarsi, di morire per darmi alla luce. Non avevo idea di che persona fosse – mio padre non conversava mai con me volentieri, figurarsi se si metteva a conversare con me a proposito di lei – ma immaginavo che una persona che rinuncia alla propria vita per quella di qualcun altro fosse così straordinaria, così altruista, così buona da essere quasi irreale.
    «Stare lì a fissarla non la farà tornare in vita».
    Sobbalzai chiudendo gli occhi, una mano scattata sul cuore per contenere lo spavento. Mio padre mi affiancò e iniziò anche lui a contemplare la cornice nello stesso religioso silenzio in cui la guardavo io. Lo fissai con la coda dell’occhio, attenta a memorizzarne ogni particolare, perché lo vedevo così raramente che ogni volta in cui capitava i cambiamenti erano quasi sensibili: era alto – almeno quindici centimetri più di me – con i capelli biondi cosparsi di qualche filo grigiastro appena sopra le orecchie e sulla nuca. Il naso dritto e fiero, le spalle larghe, l’atteggiamento austero e distaccato di chi ha sempre una visione chiara e razionale su tutto.
    «Se solo non avesse deciso di buttare alle ortiche la sua vita…».
    Mi correggo: quasi su tutto. Mia madre era l’unica persona che lui aveva amato completamente, sinceramente più di se stesso, e vedeva in me, la figlia che non doveva nascere, una sorta di assassina che gliel’aveva strappata via. Per questo motivo e per altri, per lui ero solo un incidente di percorso, che sarebbe stato meglio non far esistere.
    «Già, che spreco…», ironizzai amaramente, abbassando la testa. La mia faccia tosta, la mia cocciutaggine, la mia lingua al vetriolo, tutto di me crollava miseramente di fronte a lui, che era l’unica persona che non ero in grado di fronteggiare. Forse perché una parte di me sperava ancora che mi riconoscesse come figlia.
    «Infatti». Cinico, duro e doloroso come pugno in pieno stomaco. Dedicò la sua preziosa attenzione a me, guardandomi dalla testa ai piedi, scandagliando attentamente il mio aspetto e la mia coda laterale adagiata su una spalla.
    «Potevi adattare anche i tuoi capelli all’ambiente. Così sembri una campagnola camuffata da signora».
    Non risposi e sospirai.
    «Ma ora andiamo. Gli ospiti attendono».
    Mi voltai indietro e percorsi il corridoio che portava alla sala da pranzo senza dire una parola. Sentii del chiacchiericcio confuso quando giunsi sulla soglia della grande porta di legno e vetrate. La feci scivolare di lato, silenziosamente.
    Ciò che vidi mi sconvolse come un tornado.
    Due persone mi davano le spalle, sedute al grande tavolo circolare. Dei capelli neri, striati da cordoni bianchi che scendevano morbidamente su una schiena lunga e sottile, fasciata di nero. E dei vestiti oversize, una maglia gialla e nera dal cui foro sbucavano un collo sottile coperto da treccine nere e un capo perfettamente regolare.
    No.
    Non era possibile. Quei due tizi lì non potevano essere chi pensavo che fossero. Mi voltai verso mio padre che mi stava raggiungendo, guardandolo probabilmente con un’espressione spiritata.
    «Sì?».
    «Chi sono quelli?», sibilai, sforzandomi di contenere il tono di voce che rasentava gli ultrasuoni.
    «I miei migliori clienti, Bill e Tom Kaulitz», mi rispose automaticamente, confuso da tutto quell’interesse. La sua risposta mi dimostrò che effettivamente quei due erano proprio chi non volevo che fossero.
    «E perché sono qui?».
    «Da quando ti interessa quello che faccio?».
    «È importante».
    Sospirò, annoiato. Lui non sbuffava, no. Lui sospirava. Un sospiro era molto più aristocratico di un volgare sbuffo. «Mi hanno contattato per informarmi di un loro problema con delle ragazzine che li pedinano, così li ho invitati qui per un pranzo informale».
    Cosa?! I gemelli Kaulitz erano vittime di stalking e io non ne sapevo niente? Perché?
    «Capisco che tu sia sorpresa, fanno parte di un gruppo musicale molto famoso. Probabilmente uno di quei gruppetti che piacciono a te».
    Figurarsi se mio padre non fraintendeva le mie parole; e figurarsi non approfittava della situazione per denigrare la mia passione per la musica. Lui aveva sempre odiato la musica, all’infuori di quella classica, e anche questo argomento era stato motivo di scontro in passato. Avrebbe voluto che scegliessi la via del diritto, come Joseph, mio fratello, invece avevo seguito le mie inclinazioni e fatto di testa mia, come al solito.
    Mi superò e varcò la soglia del salotto, io che lo seguivo docilmente, come se dovessi andare al patibolo.
    «Finalmente!», sentii dire da una voce femminile adulta, ma acuta quando bastava ad irritarmi. Apparteneva ad Annika, la mia matrigna, che aveva conosciuto mio padre due anni prima ad un congresso di avvocati e aveva pensato bene di inserirsi nel nostro quadretto familiare, che comprendeva una situazione economica piuttosto florida.
    Non guardai il favoloso duo, anzi, mi sforzai di non farlo, e salutai la mia bionda matrigna dal volto più spigoloso di una figura geometrica con garbo. «Buongiorno a tutti, scusate il ritardo».
    «Joseph non ci raggiungerà, è stato trattenuto a lavoro da un imprevisto», annunciò Annika.
    Meno male. Un imbecille in meno a cui pensare. Non che volessi male a mio fratello, ma, parlando sinceramente, era fatto con lo stampino dei Fränze, e a me lo stampino dei Fränze non piaceva.
    Mi sedetti al tavolo, avendo cura di guardare solo in basso e non incrociare gli sguardi dei gemellini, fortunatamente rimasti in silenzio.
    «Bill, Tom, vi presento Elsa».
    Non mi presentò come sua figlia, e questo mi fece male più di uno schiaffo in pieno viso.
    «Sì, Aaron, abbiamo già avuto modo di conoscerla». Fu la voce strafottente di Tom a parlare, e io alzai di scatto due occhi sorpresi su di lui.
    «Davvero?», chiese mio padre sorpreso.
    «Ci aiuta nella composizione del nostro nuovo album», disse Bill sorridendomi apertamente.
    Io risposi al sorriso con un’occhiataccia: non volevo che mio padre sapesse qualcosa della mia vita. Anche involontariamente.
    «Ma che sorpresa!», cinguettò Annika mentre la governante ci serviva gli antipasti. «Elsa, perché non ci hai detto niente?».
    «Infatti», Tom incrociò le mani sul tavolo, sporgendosi appena verso di me, il suo solito sorrisetto bastardo dipinto in viso, «è stata una vera sorpresa scoprire le tue origini».
    Mio padre tossicchiò, e sicuramente in quel momento si stava vergognando di me e quello che ero come un ladro. Io, dal canto mio, realizzai solo in quel momento che i Kaulitz non erano stati affatto sorpresi di vedermi e ciò oscurò perfino il dolore per il gesto di papà. Bill non aveva fatto considerazioni imbarazzanti, Tom non mi aveva pungolata con le sue dolci frasi affettuose. Subito ricollegai la volontà degli “illustri ospiti” di volere a tutti i costi la famiglia riunita e capii tutto.
    Luridi bastardi!, pensai inviperita, lanciando saette a Tom, che mi sorrideva serafico dalla sedia di fronte. Gliel’avrei fatta pagare, lo promisi a me stessa.
    «Non dovevate parlare ad Aaron di una questione importante?», berciai, afferrando con le mani una bruschetta dal mio piatto. Annika e mio padre probabilmente mi guardavano scandalizzati, o si impegnavano per non guardarmi, comunque non me ne curai affatto. Le bruschette, le avevo sempre mangiate con le mani e non avrei smesso di certo quel giorno.
    «Sì», Bill si pulì le labbra con il tovagliolo. «Stiamo avendo problemi con delle fan eccessivamente… volenterose», spiegò con diplomazia.
    «In che senso “eccessivamente volenterose”?», domandò mio padre.
    «Nel senso che se potessero conterebbero anche le volte in cui andiamo in bagno e perché», s’intromise Tom.
    «Ma non è questo il problema», riprese Bill, «siamo abituati a cose del genere. Ma hanno coinvolto la nostra famiglia e ci minacciano per un album che comunque non uscirà tanto presto».
    «Sono fanatiche, e sono pericolose».
    Non avevo mai visto i ragazzi così seri e preoccupati. Sembrava che per la prima volta qualcosa di reale e palpabile avesse davvero intaccato la patina di irrealtà che li aveva sempre avvolti. Restai in silenzio, ad assimilare le informazioni che si stavano scambiando.
    «Spiegate in cosa consistono queste minacce e in che modo hanno toccato i vostri parenti», disse mio padre pratico.
    Bill appoggiò la parte concava della forchetta sul bordo del piatto vuoto, senza far rumore. «Biglietti. Auto rigate. Anche incontri ravvicinati che per poco non sono sfociati nella violenza. Inizialmente pensavamo fossero ragazzine che si divertivano, ma adesso la situazione sta sfuggendo di mano».
    «Vi seguono anche allo studio di registrazione?», azzardai a domandare e la voce mi uscì più stridula di quanto volessi.
    «Sì», rispose Bill, «soprattutto lì. Si sono anche introdotte abusivamente».
    Mi lasciai scappare un’espressione spaventata. Perché non mi avevano detto niente? Non seppi spiegarmi perché, ma quel loro silenzio mi fece sentire molto ferita.
    «Stalking, minacce e danni ai beni privati sono reati, ovviamente», asserì mio padre con calma. «Ma preferirei parlare di questo con il vostro manager, prima di alzare inutili polveroni. Se non sbaglio avete detto di voler restare fuori dai riflettori, per ora».
    «Sì, ma ci siamo un po’ scocciati di questa situazione. Vogliamo vivere la nostra vita e la produzione di questo album più serenamente possibile e quelle fanatiche non ce lo permettono. Non riesco a restarmene calmo nel mio angolino a guardare», sbottò Tom.
    «Non ho detto questo», si difese mio padre.
    «Ma ha espresso questo concetto. Cosa vuole che c’entri Jost in tutto questo? Non è lui il nostro avvocato, mi pare».
    «Si calmi, signor Kaulitz», intervenne Annika, ovviamente a sproposito. La governante intanto portava via i piatti da sotto il nostro naso e io mi pulii le mani al tovagliolo che avevo sulle gambe. Per quanto mi riguardava, per la prima volta potevo dirmi d’accordo con mio padre. Che senso aveva sollecitare la stampa e provocare impatti mediatici inutili?
    «Non sono uno sprovveduto, so quello che faccio. Per ora giudico opportuno non solleticare l’attenzione dei media su questa storia e cercare di risolverla nel modo più silenzioso possibile. Per questo ho bisogno di parlare con il vostro manager e i curatori della vostra immagine».
    Tom non demorse. «Per quanto mi riguarda, non me ne frega niente di quello che penseranno i giornali. Non tollero che le persone a noi care paghino per le nostre scelte».
    «Esatto», si trovò d’accordo Bill, che annuiva ad ogni parola del fratello e per la prima volta non criticava il suo livore.
    Mi estraniai dalla realtà e cominciai a mangiucchiare il primo che mi era stato appena servito, senza curarmi di cosa fosse. Non avevo mai sentito i Kaulitz parlare così. Tom, in particolare: non voleva che la sua fama si ripercuotesse sulla sua famiglia, questa era l’idea che traspariva dalle sue parole. Pensavo che una persona egoista, opportunista e immatura come lui non potesse pensare a nessun altro se non se stesso. Forse li avevo sottovalutati.
    Scossi la testa impercettibilmente, scacciando prontamente quei pensieri. Non erano affari miei, comunque, no? Io ero la loro sound editor e basta, finiva lì la questione. Non esistevano solidi rapporti di amicizia, tra noi, di certo non ero una persona ideale con cui sentire un feeling immediato. L’avevo voluto io, era una delle regole che avevo imposto dall’inizio. E allora perché mi sentivo così… sola? Tutte le mie difese mi si stavano ritorcendo contro?
    Non so quanto tempo passai lontana dal pianeta Terra, rimuginando su quei pensieri, ma ad un certo punto avvertii un tocco gentile sul braccio, che mi fece alzare gli occhi dal mio piatto – dove vidi che c’era della frutta e capii che avevo passato tutto il pranzo in silenzio –, e ricollegare alla realtà. Bill si era sporto verso di me e mi stava guardando con un sorriso gentile.
    «Tutto bene?».
    «Certo», risposi prontamente, ritraendo il braccio. Avvertii disperatamente il bisogno di darmela a gambe e scappare fino a casa.
    «La signorina Annika ti ha fatto una domanda», mi disse Tom, il solito tono sgarbato, ma quel “signorina Annika” per poco non mi fece rotolare a terra dalle risate, considerando che la signorina aveva cinquantadue anni suonati.
    «Annika, lasciala in pace», suggerì mio padre, ansioso di tenermi fuori da ogni conversazione per scongiurare brutte figure.
    L’istinto adolescenziale di vendicarmi della sua indifferenza ebbe la meglio e mi esibii nel mio miglior sorriso di plastica. «Ma no, dimmi pure, Annika».
    «Ti trovi bene a lavorare con i Tokio Hotel?».
    Stavo per rispondere, ma Tom mi precedette: «certo, si è instaurata una bellissima amicizia tra noi. Vero, Elsa? Riusciamo a collaborare in modo idilliaco».
    Mio padre mi guardò contrariato e deluso. «Un atteggiamento scorretto e poco professionale. Devi guadagnare i soldi che percepisci, non estorcerli grazie all’amicizia».
    Bene! Mi stava accusando di non saper fare il mio lavoro e soprattutto di non fare il mio lavoro! Lanciai a Tom un’occhiata senza sapere esattamente cosa esprimere, se rabbia o delusione, e lui evase dal mio sguardo, concentrandosi sulla sua fetta di anguria argentina sbocconcellata. Volevo rovesciare tutto il tavolo e urlare a squarciagola.
    «In verità», s’intromise Bill, «Elsa è bravissima nel suo lavoro. Riesce a spronarci come pochi hanno saputo fare e tira fuori il meglio di noi».
    Fui profondamente grata a Bill, ma mio padre non sembrava contento, anzi.
    «Sicuramente siete stati la sua occasione d’oro. Molti sound editor dovrebbero avere un loro ufficio, un loro studio e dei dipendenti, invece, da quello che vedo, lei è ancora in mezzo alla strada. Non che la cosa mi interessi, sia chiaro».
    Poggiai il mio bicchiere sul tavolo con più forza del necessario, irritata. Lui non sapeva nulla dell’organizzazione di un sound editor e aveva commesso un errore madornale: quelli come me non avevano bisogno dipendenti e nemmeno di uffici grandi come case, per lavorare. «Almeno io non mi faccio pagare per difendere le frottole che mi racconta il miglior offerente», sbottai, guardando furente nella direzione di mio padre.
    Lui non si scompose affatto. Fece una risata contenuta, mettendosi elegantemente una mano davanti alla bocca. «Bisogna saper fare anche quello. Tu non ne saresti nemmeno capace, per questo ho lasciato che imparassi a strimpellare qualche corda».
    Non seppi come replicare. Tutte le parole mi morirono in bocca e mi sentii le mani tremare di rabbia repressa.
    L’atmosfera tesa venne spezzata da una risata di Bill, che si intromise educatamente tra noi. «Aaron, così ci offende! In realtà fare musica è molto appagante e riempie la vita».
    Non vidi cosa fece mio padre perché avevo abbassato lo sguardo sul mio piatto mezzo pieno, ma lo sentii rispondere: «credo di dover dire che dipende dalle persone. C’è chi la prende come un’arte e fa fruttare il proprio talento, come voi e il vostro gruppo. C’è chi lo prende come un ripiego e rimane al punto di partenza».
    Stronzo leccaculo. Falso, meschino e disumano. Più che mai desiderai non essere sua figlia, più che mai ricordai chiaramente tutti i motivi che mi spingevano a tenermi lontana da lui mille chilometri.
    «Elsa ha un grande talento, che sta mettendo a frutto», continuò a difendermi Bill, mentre io mi sentivo stupida e impotente come una mocciosa. «E noi non la stiamo aiutando, anzi, è lei che sta aiutando noi a…».
    «Adesso basta». Mi spinsi all’indietro, facendo grattare la sedia sul pavimento. Mi alzai, le punte delle dita premute sul tavolo e la testa bassa. Il tovagliolo che avevo dimenticato sulle ginocchia cadde a terra. «Grazie, Bill, è carino da parte tua, ma non ho bisogno di un avvocato difensore», lanciai un’occhiata a mio padre, sorridendo nel modo più educato possibile. «Come vedi, è una categoria che non mi va particolarmente a genio. Ora, se volete scusarmi…». Recuperai la borsetta e uscii dal salone, sotto gli sguardi di tutti, sentendo il ticchettare dei miei tacchi nelle orecchie.
    Riuscii ad arrivare alla macchina senza scoppiare in lacrime come una bambina. Appena la vidi, rassicurante e desiderata come un’oasi di pace e tranquillità, mi ci appoggiai sopra con tutta la parte anteriore di me e nascosi il viso tra le braccia. Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi senza il bisogno che singhiozzassi, anzi, più mi trattenevo, più sentivo le maniche del mio vestito nuovo inumidirsi.
    Quello era mio padre. Quella era la mia famiglia.
    Avevo passato da un pezzo la fase infantile in cui mi sentivo uno scherzo della natura, un errore del destino, o comunque si voglia chiamare una persona che c’è però non ci dovrebbe essere, ma in quel garage, in quel momento, mi sentii sbagliata e sola come da mesi non mi sentivo. Chiusi gli occhi e altre lacrime si persero tra le fibre della manica.
    «Allora non sei indistruttibile come sembri».
    Trasalii e mi voltai di scatto. Tom era appoggiato indolentemente al muro, una gamba piegata, le mani infilate nelle profonde tasche dei jeans. Mi asciugai le guance e passai prontamente sulla difensiva, guardandolo truce.
    «Ehi, calma», cercò di ammansirmi con un mezzo sorriso, «vengo in pace».
    «Avresti semplicemente potuto risparmiarti l’azione di venire», ringhiai. «Non te l’ha chiesto nessuno».
    Lui alzò le spalle, come se la cosa non contasse. Era calmo e rilassato come se fosse appena uscito da una lezione di yoga invece che da un battibecco impregnato di odio tra padre e figlia. E a quel punto mi soggiunse una domanda più che logica: che era venuto a fare?
    «Che ci fai qui?», gli chiesi.
    «Volevo controllare che fossi ancora tutta intera», mi rispose con calma.
    Per poco non mi prese un colpo. Tom Kaulitz, elemento centrale della stessa teoria Tom-centrica, che si preoccupava per me? Era proprio una giornata fuori dagli schemi.
    «Lo sapevo che la fine del mondo era vicina», dissi senza ironia. «Ma, come vedi, non mi sono trasformata in una pappetta a base di materia umana e lacrime. Puoi tornartene di sopra».
    «Di sopra stanno parlando di te, non è un argomento interessante da ascoltare. Preferisco la diretta».
    Non potevo crederci. Si stava offrendo di ascoltarmi?
    «Che ti prende, Kaulitz? Ti senti in colpa per aver scatenato la serie di complimenti di mio padre? Se è così non disturbarti, mi avrebbe lodata nello stesso modo anche senza di te».
    S’irrigidì tutto contro il muro e quasi potevo vederlo lampeggiare, il vaffanculo sentito che gli si stava agitando nella testa. Ero prontissima a mandare alle ortiche il proposito di mantenere il distacco professionale e difendermi da qualsiasi suo insulto facendo altrettanto, ma mi stupì quando si limitò a sospirare pesantemente, chiudendo gli occhi.
    «Mi sento in colpa, infatti, ma non per il motivo che pensi tu», disse con calma.
    Non gli chiesi niente, non mi interessava. Non volevo dargli la soddisfazione di sentirsi porre la domanda che voleva. Rimasi in silenzio, chiusa nel mio guscio di rabbia repressa e odio viscerale.
    Tom si staccò dal muro con un’incurante spinta della gamba piegata e venne a posizionarsi proprio accanto a me, appoggiato con la schiena alla mia macchina.
    Mi allontanai di due passi e lui finse di non accorgersene, o almeno credo.
    «Mi dispiace anche perché… ecco… non sei esattamente come credevo», mi spiegò con difficoltà.
    Non c’era niente di meglio di un Tom Kaulitz impacciato e deliziosamente a disagio: la mia vena sadica mi spinse ad approfittarne. «Ma dai? Tu sei esattamente come credevo, invece».
    «Cioè bellissimo, affascinante e irresistibile?», si riprese subito, con la solita scintilla di malizia negli occhi.
    «Stronzo fino al midollo».
    Ridacchiò e sfilò una sigaretta dal pacchetto che aveva recuperato dalla tasca. Se la incastrò tra le labbra e la accese. Aspirò un paio di volte, prima di parlare: «sarà, ma io non lo sono per un motivo meno valido del tuo».
    Prima si offriva in qualche modo criptico di ascoltarmi e poi mi dava implicitamente della stronza? Interessante, avrebbe dovuto farsi studiare.
    «Non venirmi a dire che sei il classico spaccone dal cuore tenero, perché non ci crederò né ora né mai».
    Rise della mia considerazione e scosse la testa. «No, infatti. Ma volevo dirti che mi dispiace davvero per quello che è successo prima».
    Lo scrutai a lungo, mentre fumava, cercando di indagare sulla sincerità delle sue parole. Non sembrava molto pentito a giudicare dell’espressione neutra e rilassata; ma Tom era un tipo che non mostrava i suoi sentimenti, almeno questo l’avevo capito, quindi non mi restava che arrendermi e credergli sulla parola. Stranamente, il mio istinto mi assecondava, ma forse era solo il bisogno impellente di non essere sola in un momento come quello.
    Ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno, mi venne in mente il pensiero che avevo formulato poco prima.
    «Senti un po’», cominciai, «è stata vostra l’idea di volere la mia presenza qui, una volta scoperto che il mio cognome combaciava con quello del vostro legale?».
    Picchiettò sulla sigaretta con il dito, facendo cadere la cenere a terra. «Di Bill, a dirla tutta. Di certo io non avevo voglia di montarmi la testa con i tuoi graziosi complimenti», rispose. «A sua discolpa, posso dire che Aaron si è sempre limitato a leccarci il culo e Bill non aveva la minima idea di che razza di bastardo potesse diventare. E nemmeno io».
    Incollai il mio sguardo al pavimento e sentii anche io il bisogno non trascurabile di nicotina. Sfilai impudentemente la sigaretta di mano a Tom e feci un paio di tiri, restituendogliela subito dopo.
    «Scroccona», mi disse, ma non percepivo la solita cattiveria imprimere le sue parole.
    Ci fu una lunga pausa durante cui nessuno dei due parlò. Io non sapevo cosa pensare di quel nostro improvviso avvicinamento, lui probabilmente nemmeno. In ogni caso, sospesi tutti i giudizi e le considerazioni.
    «Adesso è meglio che vada», annunciai dopo ancora qualche minuto.
    Tom annuì vistosamente. «Anche io. Ufficialmente, sono andato al cesso». Si allontanò dalla carrozzeria.
    Aprii la macchina con il telecomando e mi ci infilai dentro, lasciando lo sportello aperto. «Allora ritorna, o cominceranno a pensare che ci sei affogato dentro. Sai che modo poetico di morire».
    «O che mi ci hanno affogato».
    Gli lanciai un’occhiata in tralice. «C’è qualche riferimento a me?».
    Alzo le sopracciglia accompagnando il gesto ad una scrollata di spalle, in un modo che mi ricordò molto l’atteggiamento incurante di Bea. «Se mai, è un riferimento poetico».
    Ridacchiai ed avviai il motore. «Ciao, Kaulitz».
    Mi fece ciao con la mano e poi sparì dietro le porte dell’ascensore.
    Mentre guidavo verso casa, cercai di metabolizzare tutti gli avvenimenti della giornata, e per quanto mi costava ammetterlo, fu molto più facile grazie alla chiacchierata con Tom. Non volli pensare che, a suo modo, mi aveva aiutata a superare un momento in cui sicuramente avrei finito con il fare del male a me stessa, se fossi stata sola. Non volli pensare nemmeno che aveva messo da parte la sua insopportabile spocchia e fatto ricorso a tutta la sua pazienza per sopportarmi, e che tutto questo mi aveva fatto piacere più di quanto volessi ammettere.
    Impiegai un quarto d’ora a raggiungere casa mia. Constatai con soddisfazione che era vuota: non avevo nessun bisogno di terzi gradi. Corsi verso la mia stanza come un assetato nel deserto corre verso un’oasi e mi liberai di tutto ciò che avevo addosso, a partire dalle scarpe, risparmiando solo l’intimo. Abbassai le tapparelle elettriche dall’interruttore, mandai un paio di messaggi a Didi e a Bea per far sapere loro che ero sopravvissuta e mi buttai a peso morto sul letto.
    Forse la giornata non era stata un fiasco totale come avevo previsto.
     
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  13. » Enigmatic __™
     
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    Oddio, ho letto tutto d'un fiato.
    Sono senza parole, questa storia è stupenda, scritta divinamente, bravissima. Impeccabile.
    Mi piace tantissimo questo modo di essere di Tom, tanto tanto burbero ma tenero nel profondo. E il carattere di Elsa è molto simile al mio... e purtroppo anche il suo rapporto con il padre e non nego che ho pianto tanto in questo ultimo capitolo, capendola nel profondo.
    Io spero che posterai presto perchè non riuscirei ad attendere a lungo.
    Non vedo l'ora di sapere cosa succederà tra Elsa e Tom perchè sono sicura (o quasi xD) che succederà qualcosa.
    Per lo meno ci spero. Ancora complimenti =)
    Un bacione.
     
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  14. kleine_engel
     
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    CITAZIONE (» Enigmatic __™ @ 7/4/2010, 22:38)
    Oddio, ho letto tutto d'un fiato.
    Sono senza parole, questa storia è stupenda, scritta divinamente, bravissima. Impeccabile.
    Mi piace tantissimo questo modo di essere di Tom, tanto tanto burbero ma tenero nel profondo. E il carattere di Elsa è molto simile al mio... e purtroppo anche il suo rapporto con il padre e non nego che ho pianto tanto in questo ultimo capitolo, capendola nel profondo.
    Io spero che posterai presto perchè non riuscirei ad attendere a lungo.
    Non vedo l'ora di sapere cosa succederà tra Elsa e Tom perchè sono sicura (o quasi xD) che succederà qualcosa.
    Per lo meno ci spero. Ancora complimenti =)
    Un bacione.

    noo penso ci sia niente da aggiungere quindi mi limito a quotare la shu shù
    posta prestooooo
     
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  15. Monique;
     
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    *__________*
    E' bello vedere che c'è qualcuno che segue ancora! Posto, anche se con ritardo abnorme. Il capitolo è lunghissimo, vi avviso, anche abbastanza importante.

    Capitolo 5

    Interrogatori di terzo grado, telefonate ad ore improbabili del giorno – e della notte –, inseguimenti e pedinamenti anche fino al bagno e sguardi coordinati da sorrisetti furbi da parte di un Didi e una Bea saccenti e machiavellici. Ecco tutto ciò che mi piombò sulle spalle quando raccontai a grandi linee cosa era successo durante il pranzo di mio padre e dopo.
    I miei amici avevano preteso che raccontassi tutto nei dettagli quella stessa sera e li accontentai per evitare alla mia testa di assumere la stessa conformazione di un’anguria matura. Ciò che non avevo previsto, però, era la loro reazione al mio riassunto del dialogo con Tom. Non comprendevo l’interesse esagerato che entrambi dimostravano. Era normale che dopo tre settimane e mezza di convivenza forzata fossimo riusciti a non sbranarci a vicenda, almeno per una volta, no?
    Loro invece continuavano allegramente a ricamarci sopra, anche a distanza di cinque giorni.
    Ogni volta che Didi tornava a casa, la sera, occupava il tempo necessario a cambiarsi per andare a lavorare al Mabou facendomi domande su domande riguardo alla mia giornata lavorativa e i miei rapporti con i ragazzi.
    «Didi, basta, santo cielo!», sbottai la sera del venerdì. Ero sdraiata sul nostro divano blu, intenta a vedere la puntata di una fiction appena cominciata e sgranocchiare patatine da una maxibusta, ed avevo voglia di smaltire il nervosismo accumulato in quella giornata delirante. Tom mi aveva fatta impazzire sugli accordi di un pezzo di canzone ancora senza titolo e Gustav aveva fatto la sua discreta parte, sostenendo di non trovare il ritmo giusto con la batteria. Georg non aveva accordato bene il suo basso, come al solito, e Bill parlava ininterrottamente dispensando consigli su argomenti che non conosceva.
    Quei ragazzi erano un biglietto di sola andata per un centro d’igiene mentale, e io ci sarei finita molto presto, ne ero sicura.
    «Ma io voglio sapere!», sbucò fuori dalla porta del corridoio, vestito di tutto punto.
    «Vuoi sapere cose che ti ho già detto», misi in bocca una patatina e cominciai a masticarla senza staccare gli occhi dalla televisione, «io e quel rifiuto umano abbiamo ripreso a ringhiarci a vicenda come sempre, quindi non ci sono possibilità di futuri sviluppi romantici in vista». Il solo pensiero mi faceva venire voglia di rotolare a terra dalle risate.
    Il mio amico sbuffò, insoddisfatto. Lo vidi andare in cucina – che era un ambiente unico con il piccolo salotto – e aprire il frigorifero per estrarne un cartone di latte aperto e berne fino a svuotarlo.
    «Sei noiosa e monotematica», disse quando ebbe finito.
    «Tu e Bea non fate altro che parlare dello stesso argomento da giorni e poi sarei io quella monotematica, che coraggio!», replicai velenosa, mentre il mio umore continuava a rannuvolarsi.
    Didi sospirò, appoggiandosi al ripiano della cucina.
    Oh, no. Non di nuovo. Non avevo voglia di affrontare discorsi seri!
    «Siamo preoccupati per te, per la verità».
    Tanto per cambiare.
    «Pensavo di essere io quella iperprotettiva», replicai con leggerezza alzando il volume dal telecomando.
    Didi me lo prese dalle mani e spense, piazzandosi davanti alla televisione.
    «Ehi, no!», strepitai, «hai bloccato proprio nel punto in cui lui stava per dirle che in realtà Adele è figlia sua!».
    «Non so chi sia questa Adele, né il lui di cui parli», disse, per niente turbato dalle mie proteste. «Tu non puoi andare avanti così».
    Qualcosa di sottile e molto affilato mi punse proprio sullo stomaco. «Non so di cosa tu stia parlando».
    «Sto parlando della tua intolleranza nei confronti del genere umano e della tua psicosi quando si tratta di fidarsi di qualcuno».
    «Di te mi fido», precisai guardandolo dall’basso in alto, «e tollero Bea. Non basta?».
    «Non raccontare stronzate anche a te stessa».
    Quello fu un colpo veramente basso.
    «Tu ti fidi di me e Bea quanto basta per tenerci buoni. Adesso sono comparse queste nuove presenze nella tua vita e ti stanno sconvolgendo tutti gli equilibri. Perché invece di chiuderti a riccio non dai loro una possibilità?».
    La violenza della risposta cercava di sfondare la barriera delle mie labbra come un ariete. Le chiusi ermeticamente ed evasi dal suo sguardo. «Farai tardi al locale», dissi seria.
    Mi ignorò. «Te lo dico io perché: hai una paura fottuta di essere delusa e abbandonata da chiunque, quindi sei indisponente verso tutti».
    Lo detestavo quando mi metteva di fronte alla verità in modo così brutale.
    «Non sono indisponente, sono solo… preventiva».
    «Preventiva verso la vita?».
    «Non verso la vita, Didi! Che c’è di così anormale nel mantenere distanze professionali da gente con cui lavoro? Non mi sembra tanto strano!».
    «Non mi sembrerebbe strano, se i Tokio Hotel fossero quattro vecchi noiosi e barbuti, invece degli appetitosi e simpatici bocconcini che sono», disse, e io alzai gli occhi al cielo.
    «Parli della luna storta permanente di Tom o della pignoleria isterica di Bill?», domandai, nel tentativo di distrarlo.
    «Soprattutto della pignoleria di Bill», rispose, un sorrisetto furbo a modellare le sue labbra piene e colorite, «Ma, a parte il letargo dei tuoi ormoni, questo tuo metodo non funziona». Stavo per replicare, ma alzò una mano e non mi lasciò il tempo di parlare. «Queste “distanze”, come le chiami tu, ti fanno tornare a casa più tesa di una corda di violino e non ti fanno dormire la notte, se non quella del sabato sera. Dimmi tu se è normale».
    Non seppi come rispondere, pur essendo consapevole che aveva ragione, maledettamente ragione. Nonostante le apparenze, trovavo la calma riflessività di Georg e i modi moderati di Gustav estremamente piacevoli. E Bill, nonostante gli irritanti atteggiamenti da primadonna e le pretese assurde da star viziata ed egocentrica, non riusciva a farsi odiare da nessuno con quel sorriso al miele. Tom, invece, riusciva a farsi odiare benissimo, ma lui era una storia a parte.
    «Hai perso le parole, vero?».
    «D’accordo», capitolai, «hai vinto tu. Hai ragione. Ma non è una cosa che posso controllare, okay? E poi a me sembra che non siano poi così ansiosi di conoscermi».
    «Se fossi meno concentrata su te stessa e sui muri che ti costruisci intorno, capiresti un paio di cose interessanti che ora ti sfuggono», mi disse sibillino. «Ciò che non afferri è che più ti affanni per togliere l’attenzione da te, più ti metti nelle condizioni di stare sotto i riflettori».
    Mi decisi ad infuriarmi. «Didi, mi hai stancata. Piantala di psicanalizzarmi, non ti porta da nessuna parte, e adesso dovresti già essere al Mabou».
    «Come vuoi. Ma poi non lamentarti nemmeno con te stessa se ti senti sola». Prese le chiavi da sopra al mobiletto vicino alla porta e uscì di casa senza salutare.
    «Io non mi sento sola!», urlai da dietro la porta. Spinsi con forza la busta di patatine a terra e ne feci rovesciare sul pavimento il contenuto. «Non mi sento sola», ripetei flebilmente. «Fanculo».

    «Aspetta, Georg, così non va bene. Prova farla con un semitono più in alto, poi vediamo come va».
    «Fa diesis, dici?».
    «Esatto. Tom, attacca, Bill, questa volta la facciamo con la voce. Gustav, per ora la batteria non serve; dai solo il tempo con le bacchette».
    Tom mi scoccò un’occhiata annoiata, che ignorai, e cominciò a suonare con gli altri compagni, dopo che Gustav ebbe battuto quattro volte le bacchette tra loro. Odiava che gli dessi degli ordini, soprattutto odiava che dovesse eseguirli e star zitto. Si era lamentato perfino con David dei miei metodi “dispotici”, ma gli era stato risposto che gli ci voleva proprio qualcuno che riuscisse a tenere a bada il suo ego spropositato.
    Chiusi gli occhi e la stanza venne riempita da una melodia sferzante e dura, molto ritmica, anche senza l’ausilio della batteria, grazie alla chitarra elettrica. Non l’avrei mai, mai ammesso ad alta voce, ma Tom non era malaccio, come chitarrista. Certo, era presuntuoso e irascibile come un toro, guardava tutti dall’alto in basso e non mostrava mai il lato più umano di sé, preferendo la facciata da duro insensibile, però possedeva quel misto vincente di tecnica e fascino che riusciva ad attrarre, se non lo si conosceva. Aprii gli occhi e lo studiai, approfittando della sua concentrazione sulla musica. Aveva gli occhi chiusi, le ciglia scure abbassate su due guance lisce e colorite. Le labbra piene, traforate ad un lato da quel luccichio metallico, si schiudevano sporadicamente per essere mordicchiate dai denti.
    Sospirai. In quel momento, non portava nessuna maschera addosso. C’era solo lui, insieme alla sua simbiosi con la sua chitarra ed era chiaro che sentiva ciò che suonava. Io lo sapevo, perchè avvertivo un lieve turbamento, il classico turbamento che prendeva posto dentro di me quando a colpirmi dritta al cuore era l’intreccio della musica e della passione. Se solo fosse apparso sempre così, ammaliante e vero più che mai, invece di comportarsi da menefreghista come al solito, sarebbe andato a genio a molte più persone.
    Spostai lo sguardo su suo fratello, che cantava leggendo da un foglio di carta scritto e pasticciato. Bill era molto diverso da Tom, riflettei imbronciando le labbra. Nonostante l’età, riusciva ancora a guardare il mondo con la curiosità e la vivacità di un bambino, mostrava espressamente cosa provava, quando si trovava nel suo ambiente privato; era un’abitudine che in un’altra persona avrei trovato insopportabile. Eppure, Bill non mi risultava mai odioso o antipatico, anche se mi ci mettevo d’impegno. Potevo trovarlo irritante e insopportabile, ma alla fin fine mi faceva sempre sorridere.
    La canzone finì dopo due minuti e Bill sollevò le palpebre, che scoprirono due iridi già fisse su di me. Mi sorprese a fissarlo e le sue labbra si stesero in un sorriso sereno.
    Sorrideva sempre, Bill, anche quando non era necessario. Doveva essere uno strazio tirar fuori un sorriso convincente anche quando non voleva.
    «Va bene, capo?», mi chiese Georg.
    «Va benissimo!», s’intromise una voce allegra e baritonale dietro di me. Mi voltai, girando sullo sgabello, e vidi Jost appoggiato allo stipite della porta aperta, la maniglia ancora stretta in mano. «Si sentiva tutto dal corridoio. Davvero, complimenti, ragazzi».
    Sorrisi soddisfatta e sperimentai per la prima volta cosa significasse sentirsi realizzati sul lavoro. Almeno sei canzoni erano approntate ed avevamo parecchie idee per comporne altre.
    «David, dopo devi aiutarmi a controllare qualche testo», affermò Bill in tono pratico e ricevette in risposta un assenso da parte del manager. «Ora, però, ho fame. Pausa?», fece un ampio sorriso, guardando verso di me.
    Guardai l’orologio: era mezzogiorno passato. «Si può fare». Ero affamata anche io, ma la prospettiva della mela conservata in un involto nella mia borsa non era affatto invitante. Mi arresi all’idea di mangiare qualcosa di gustoso solo quando fossi tornata a casa. «Andate pure a mangiare, io resto qui… a rivedere qualcosa».
    «No, cara Elsa, tu vieni con noi», mi disse Georg in tono perentorio.
    Gli lanciai uno sguardo divertito. «Cosa?».
    «Che razza di persone saremmo se ti lasciassimo qua da sola a sbocconcellare una di quelle cose che ti porti tu?».
    «Ti informo che sono frutti e che fanno bene alla salute».
    «Ma fanno schifo! Adesso vieni con noi e mangi qualcosa di decente», s’impuntò Bill. Mi afferrò per un polso e mi attirò verso di sé, issandomi in piedi con la sua poca forza.
    Mangiare con i miei colleghi? La sola idea mi terrorizzava.
    Ad un tratto vidi Gustav materializzarsi al mio fianco e avvicinarsi un po’ troppo per i miei gusti.
    «Non provare nemmeno a pensarci», mi disse, «adesso vieni e ti rifocilli per bene con noi, sound editor o meno, chiaro? È questione di umanità».
    Esitai ancora qualche secondo, interrogandomi su come avesse fatto a capire, il polso ancora stretto nella presa calda di Bill. «Ma…».
    «Ehi, Elsa!».
    Voltai il capo verso la direzione da cui proveniva la voce di Tom, che mi chiamava già dal corridoio, voltato appena verso di me con il busto.
    «Che vuoi?», berciai.
    «Vieni a mangiare», mi ordinò con un cenno del capo e riprese a camminare verso la cucina.
    Mi liberai dalla presa di Bill con uno strattone irritato. «Certo, adesso magari mi metto anche ad abbaiare e ti seguo scodinzolando, vero?!», strepitai, dirigendomi a passo di carica verso la cucina. «E poi mangio anche dalla ciotola!».
    David alzò gli occhi al cielo, lo vidi con la coda dell’occhio, e potevo giurare che Gustav e Georg, dietro di me, se la stessero ridendo sotto i baffi.
    Ci spostammo tutti nella cucina, un ambiente che non avevo mai visto, comunicante con il salotto tramite un piccola apertura nel muro. Era piccolo e ben organizzato, ma c’era un disordine che nemmeno io e Didi messi insieme avremmo potuto creare: cartoni di pizze vuoti e abbandonati sul tavolo, bottiglie di birra sui mobili, bevande lasciate aperte sui ripiani in acciaio, briciole a terra e sulle sedie.
    «Che sfacelo», commentai a bassa voce.
    «Già, si chiama uragano Tokio Hotel», mi appoggiò David, girando intorno al tavolo. Con mia enorme sorpresa, vidi che cominciava a ripiegare i cartoni vuoti delle pizze, in silenzio, mentre Georg si sistemava sul divano del salotto nel solito modo scomposto, seguito da Tom che accendeva la televisione appesa al muro.
    Non seppi dove andò Bill, che si era dileguato, né Gustav, che vidi scomparire in un’altra stanza. Tutto ciò che feci fu apprestarmi ad aiutare David, che tentava in qualche modo di riordinare la cucina disastrata. Afferrai la scopa che avevo intravisto nel piccolo spazio tra ripiano e muro e cominciai a spostare le sedie per spazzare il pavimento.
    «Non c’è bisogno, Elsa, stia comoda», disse David a voce bassa.
    Lo ignorai e continuai imperterrita a pulire. «Facciamo che ci diamo del tu e si risolve la faccenda. E poi, non potrei starmene a guardarti sfacchinare mentre quei quattro se ne stanno in panciolle».
    «A proposito di quei quattro», gettò qualche bottiglia di vetro nella spazzatura, «vedo che riesci a gestirli bene».
    Scrollai le spalle. «È il mio lavoro».
    «Il tuo lavoro è aiutarli nella creazione dell’album, non fare da tata», ridacchiò passando uno straccio bagnato sul tavolo. «Quei quattro sanno essere travolgenti, ma tu riesci in qualche modo a tenerli a bada».
    Una sensazione diffusa di fastidio si irradiò dal centro del mio petto fino alle mani, manifestandosi sottoforma di formicolio. Odiavo sentirmi ricordare i miei meriti, mi metteva in imbarazzo. «Ci ho fatto il callo».
    David stava per replicare, ma venne troncato sul nascere da Georg, che entrò in cucina e si sedette al tavolo appena pulito. «Allora, si mangia qui?».
    In pochi secondi tutto l’ambiente della cucina venne riempito dai fantastici quattro. Tom si piazzò accanto a Georg e cominciò subito a stuzzicarlo infilandogli un tappo di bottiglia raccattato da qualche parte nella maglietta. Gustav si sedette a capotavola tamburellando le dita sul tavolo. Per quanto mi riguardava, non sapevo che fare, se non rimanere in disparte appoggiata al muro.
    «Oggi cucino io!», annunciò Bill – materializzatosi all’improvviso – battendo le mani. «È il mio turno!».
    «Il tuo turno?», domandai confusa.
    «Sì, ogni sabato fanno a turno per chi deve cucinare, mentre nei giorni settimanali si abbuffano di varie schifezze poco salutari», m’informò David.
    Avevo intuito qualcosa del genere nel tempo passato con loro, ma non mi ero mai soffermata a chiedermi quali fossero le regole vigenti in quella pseudo casa. Nei giorni settimanali io e i ragazzi ci fermavamo dal quarto d’ora alla mezzora per spiluccare qualcosa nella sala registrazioni e staccare un po’ dal lavoro, e il sabato non avevo idea di come facessero, poiché me ne andavo prima. Invece quella volta avevo deciso di trattenermi un po’ di più per non lasciare incompleto il lavoro.
    «Bene, allora oggi panini per tutti!», cinguettò ancora.
    Santo cielo, trovavo snervante quel suo buonumore costante, quella dannata iperattività. Lo invidiavo a morte.
    «Che fantasia hai, Bill», commentò Tom.
    «Dobbiamo rassegnarci a mangiare panini traboccanti d’olio e delle salse più strane». Georg.
    «Ho, capito, devo fare il buon samaritano e andare in rosticceria», si offrì Gustav, facendo finta di alzarsi.
    Non potei fare a meno di ridere con gli altri, gustandomi la deliziosa espressione oltraggiata di Bill.
    «Siete degli ingrati!».
    Il tono lievemente stridulo e il suo faccino corrucciato sciolsero come raggi di sole sulla neve i miei propositi di non farmi intenerire. Mi trovai a tendere il viso in un’espressione indulgente senza nemmeno rendermene conto. «Lasciali stare, Biancaneve, ti aiuto io».
    «Okay, allora mi dichiaro a dieta», affermò Tom.
    Bill lo ignorò, puntando all’insù il suo nasino e mi prese sottobraccio, guidandomi nell’angolo cottura, ordinato e moderno.
    «Sanno essere davvero fastidiosi, qualche volta», affermò con decisione, prendendo dalla dispensa una confezione di pane a fette.
    Mi diressi al frigorifero e lo aprii, cercando qualcosa da poter mettere nei panini. Afferrai degli affettati sottovuoto e degli hamburger precotti e li posai accanto al pane.
    «Ah, devo chiederti una cosa», disse poi Bill con tranquillità.
    «Dimmi».
    «Riguarda domenica scorsa».
    Sospirai il più discretamente possibile e cominciai ad aprire le confezioni con un coltello. «Brutto spettacolo, vero?», buttai lì con casualità.
    «È davvero tuo padre, quello?».
    Mi pose quella domanda come l’avrebbe fatto un bambino incredulo. Inutile dire che mi prese totalmente in contropiede che lasciai cadere il coltello a terra. «Certo che è mio padre», risposi, chinandomi per raccoglierlo. «È solo che non abbiamo mai avuto un bel rapporto, tutto qui».
    «Posso essere indiscreto e chiederti perché?».
    Gli lanciai un’occhiata per capire se fosse serio o meno. Quando mi accertai che il suo interessamento era sincero, formulai nella mente una risposta diplomatica e corretta, abbastanza soddisfacente da non stuzzicare più la sua curiosità. «Avrebbe voluto che scegliessi la strada dell’avvocato, invece di quella della musicista».
    I suoi occhi si assottigliarono. «Anche mia madre avrebbe voluto che io e Tom diventassimo architetti, ma non per questo ci tratta come immondizia».
    «C’est la vie», scrollai le spalle.
    «E tua madre? Non è Annika, vero?».
    Che ragazzo impossibile! Sembrava unicamente concentrato sui capelli e sullo smalto delle sue unghie, ma sapeva osservare perfettamente e trarre le sue dannate conclusioni.
    Lasciai perdere il terzo panino che stavo preparando e mi appoggiai al mobile, apprestandomi a confessare con durezza una verità che lo avrebbe lasciato senza parole. Funzionavo così, io: se non potevo nascondere ciò che mi procurava dolore, lo usavo come un’arma.
    Incrociai le braccia e cominciai senza esitazione: «la mia madre biologica era malata di cancro ed ha dovuto scegliere tra la mia vita e la sua. Morì quando avevo pochi mesi».
    Come mi aspettavo, Bill ammutolì.
    «Mio padre non gliel’ha mai perdonato e scarica su di me la sua rabbia. Questo è tutto».
    Spostai lo sguardo dalla sua faccia attonita e terminai di preparare le fette di pane.
    «È terribile», soffiò dopo un po’. «E tu come fai a sopportarlo?».
    «Me ne sono andata da quella casa quando avevo diciannove anni», risposi semplicemente, «da allora ci saremo visti sì e no una decina di volte, e mai per scambiarci baci e abbracci. Occhio non vede, cuore non duole».
    Ormai i panini per tutti erano pronti, poggiati in sei diversi piattini. Ma sia io che Bill ci stavamo attardando, appoggiati al ripiano in acciaio, raccolti in un’intimità insolita e tutta nostra. E la cosa più strana era che non mi dispiaceva per niente, perché la presenza di Bill mi rasserenava e, cosa più preoccupante, mi spingeva a continuare a parlare. Era come se i miei argini si stessero crepando.
    «Sarò sempre e solo l’intralcio che non doveva esserci», sussurrai, sorridendo amaramente.
    Bill si mosse per fare qualcosa, ma sentimmo entrambi un rumore di passi e scattammo sull’attenti. La testa di Georg si affacciò sul profilo della porta.
    «Li state partorendo, questi panini?», chiese con un sorriso enigmatico.
    «No, sono pronti».
    Riuscii a portare quattro piatti in una volta, posandone due sugli avambracci e altri due nelle mani. Bill mi ringraziò e prese i due piatti restanti, seguendomi nella cucina luminosa.
    «Ecco le prelibatezze!», annunciò allegro, servendo prima se stesso e poi suo fratello. «Rifatevi la bocca e il palato».
    Alzai gli occhi al cielo e servii gli altri quattro, cominciando da David e finendo al principino Tom.
    «Da sound editor a cameriera? Hai fatto il salto della quaglia?».
    «Bisogna saper fare di tutto nella vita», gli risposi candidamente, appoggiandomi al muro per consumare la mia razione di cibo in tutta tranquillità.
    Le sue labbra piene si arricciarono ai lati. «Potrei anche interpretarla male, questa, lo sai?».
    Testa di cazzo.
    «Testa di cazzo», lo apostrofò Bill. «Allora, Elsa, oggi è il compleanno della tua amica».
    «Già», non mi ero dimenticata affatto la simpatica serata che ci aspettava in compagnia dei Tokio Hotel al Mabou. Già tremavo al pensiero di Bea e Didi insieme a gente del tutto diversa da loro.
    «Chissà com’è la nostra responsabilissima collega sotto gli effetti dell’alcol…», indagò Georg scoccandomi una delle sue verdissime occhiate, che ricambiai con un sorriso ammiccante.
    Guardai Tom – casualmente, ovvio – e vidi che era già a metà con il suo panino.
    «Sicuramente non è la santarellina che pensiamo noi», grugnì, ma c’era qualcosa nelle sue parole che mi irritò profondamente.
    «Riuscirei a farti il culo anche da ubriaca», lo aggredii incattivita.
    «Certo, tanto sai fare solo quello», mugugnò masticando.
    «Che vuoi dire?».
    «Che sai solo far scappare le persone da te».
    La mia mente fu piena di anatemi poco carini da dedicargli, ma mi trattenni. Soprattutto, non mi feci toccare dalla sua cattiveria. «Se le persone sono come te, meglio così».
    «Ci risiamo», s’intromise Gustav. «Un cane e un gatto andrebbero più d’accordo».
    «Già, immagino che bell’esistenza piena di amici devi condurre con il tuo caratteraccio».
    «Non sono affari tuoi».
    «Coda di paglia?».
    C’era una volta un Kaulitz che spinse la sua sound editor a strozzarlo con le sue stesse mani…
    «Come si spengono?», supplicò Georg, tenendosi la testa tra le mani.
    Il caro, buon Gustav intervenne per gettare acqua sul fuoco del nostro battibecco. «Comunque», ci distrasse, «Didi non ci ha detto dove lavora».
    Ingoiai l’ultimo morso del mio panino. «In un locale fuori Amburgo, si chiama Mabou. Non so se -».
    «Il Mabou?», mi interruppe Bill, «certo che lo conosciamo! Ci siamo stati qualche tempo fa ed è stato molto bello».
    Come suonava falsa e costruita, quella risposta. Non seppi spiegarmi perché, ma c’era qualcosa nel modo in cui Bill me l’aveva porta di profondamente stonato. Sarebbe stato il responso perfetto se si fosse trovato di fronte ad una telecamera o ad un pubblico, e non davanti ad una persona fatta di carne e sangue come lui. Era comprensibile, dopotutto: di sicuro, Bill aveva imparato ad essere sempre diplomatico, a controllare se stesso e le sue reazioni, ma evidentemente non si era reso conto che negli anni quel modo di fare l’aveva completamente assorbito. Prenderne atto mi fece sentire triste ed impotente.
    «Sei sicuro?», gli domandai di proposito, guardandolo accigliata.
    Reagì proprio come i bambini: mi guardò perplesso, probabilmente chiedendosi se ciò che mi aveva detto non corrispondesse a ciò che volevo sentirmi dire.
    «Sì, credo di sì». Tentennò vistosamente, ma mascherò la sua reazione insicura dietro un sorriso ben congegnato.
    Che tristezza.
    «E come ci organizziamo?», chiese Gustav in tono pratico, dopo avermi lanciato un’occhiata strana.
    «Possiamo andarci con la tua macchina, Tom», propose Georg.
    «Ve lo potete scordare! Io non lascio la mia macchina in mezzo alla strada!».
    «Perché?», domandai.
    Georg diede una leggerissima gomitata al suo amico. «Perché è talmente vistosa, che una Ferrari a confronto passerebbe inosservata».
    «Disse l’uomo con tre Audi nel garage».
    Continuarono a battibeccare tra loro e lasciai completamente perdere l’idea di seguire i loro discorsi. Pensai a dove trovare la forza di affrontare quella serata e a come scacciare la preoccupazione.
    Non sapevo perché mi sentivo così ansiosa. Forse – forse – era la paura che qualcuno sconvolgesse i pochi, ma essenziali equilibri che tenevano in piedi la mia vita. E questi equilibri si basavano sulla musica, Didi e Bea. Non avevo nessun altro, se si escludevano le conoscenze superficiali che chiunque ha. Nutrivo la terribile paura di perderli e l’irrazionale istinto di proteggerli da qualsiasi delusione. E i Tokio Hotel rappresentavano una potenziale delusione. Sapevano essere travolgenti, deliziosamente adorabili, divertenti, e una sola settimana a contatto con loro bastava per farsi conquistare, ma dietro l’immagine di star, erano comuni, banali ragazzini. E se c’era una cosa che avevo imparato subito nella mia vita, era che i ragazzini erano quanto di più inaffidabile e pericoloso ci potesse essere, per le persone con il cuore già solcato da cicatrici. Non riuscivano a capire dove finisse la propria libertà e quando questa calpestasse quella altrui, ragionavano in relazione ai propri sentimenti senza curarsi delle conseguenze su quelli degli altri.
    «Pensierosa?».
    Sussultai appena.
    «Georg, la prossima volta, per favore, cerca di essere rumoroso come al solito».
    Mi regalò un sorriso furbo. «Lo sono stato, ma tu eri su un altro pianeta».
    «Come non detto». Mi resi conto di avere in mano solo il piatto pieno di briciole. Mi allontanai dal muro, lo poggiai sul tavolo, badando a non fare rumore, e ritornai dov’ero.
    «Ti fa male essere sempre un fascio di nervi», m’informò con calma.
    «Non riesco a farne a meno», confessai. «Però è stancante, è vero».
    Georg incrociò le braccia e i bicipiti e tutti i muscoli delle spalle si tesero. Non ero il tipo di ragazza che solitamente sbavava dietro ad ogni esemplare maschile ben piazzato, ma qualsiasi donna eterosessuale non sarebbe riuscita a restare indifferente ad un uomo come quello.
    «Non è necessario», stava dicendo intanto. «Non è nei nostri piani ridurti di nuovo il cuore in poltiglia».
    La mia mente rimase incastrata a quel “di nuovo”.
    Fissai Georg e lui capì al volo il mio smarrimento, perché scrollò le spalle con nonchalance.
    «Una persona che consuma la maggior parte delle sue energie a difendersi, anche da pericoli che non ci sono, non può non aver avuto il cuore spezzato».
    Cuore spezzato. Un modo banalmente romantico per dire che avevo sofferto fino a desiderare di voler morire.
    «Siete impossibili», sussurrai, «non dovevate essere spocchiosi, egocentrici e superficiali?».
    Mi fece l’occhiolino. «Di Tom, ce n’è uno solo».
    Riuscii a sorridere, per la prima volta da quando ero con loro, in modo completamente sincero e rilassato.
    «Eppure anche lui ha i suoi lati positivi», si affrettò ad aggiungere.
    Già, l’avevo notato. Ma non era necessario che Georg lo sapesse.
    «Davvero?», la mia voce traboccava un po’ troppo scetticismo.
    «Davvero. La sua è tutta apparenza».
    M’imbronciai. «È ovvio che la sua sia tutta una parte, del resto la recita pure male. Ma non deve aspettarsi un trattamento migliore da me solo perché non ha il coraggio di mostrarsi per come è. Non funziona così».
    Senza accorgermene, avevo alzato abbastanza la voce da richiamare l’attenzione degli altri. Avevo cinque paia d’occhi puntati su di me e mi sentii profondamente a disagio per l’ondata di attenzione che mi aveva investito all’improvviso.
    «Sento puzza di discorsi seri», disse David, sdrammatizzando la situazione con un sorriso. Bill lo imitò, accondiscendente e Tom mi guardava in un modo che non volli decifrare.

    Tornata a casa dopo esserci organizzati per la serata, non guardai nemmeno in faccia Didi per la troppa stanchezza: mi buttai a peso morto sul letto e mi concessi una bella dormita, seguita da una lunga doccia rilassante. Dopo essermi avvolta in un asciugamano, cominciai ad asciugare i capelli davanti allo specchio.
    Didi spuntò sulla soglia del nostro bagno e si appoggiò allo stipite, prendendo a fissarmi con un’insistenza snervante.
    «Beh?», feci, dopo tre minuti buoni.
    «Hai intenzione di tenermi il broncio ancora per molto?».
    «Non ti sto tenendo il broncio», lo contraddissi, continuando imperterrita ad asciugarmi i capelli.
    «Sì, lo stai facendo».
    «Invece no».
    «Ti rendi conto della tua regressione allo stato mentale di una dodicenne?».
    Spensi il phon, esausta, e lo poggiai nel lavandino. «Non ti sto tenendo il broncio, davvero. Solo che quello che mi hai detto ieri mi ha…», mi bloccai, non trovando la parola giusta.
    «Ferita», completò Didi per me. «Lo so».
    «Già», convenni, con un sospiro. «Ultimamente le cose vanno male».
    Non ero in vena di sfoghi, e Didi sicuramente lo capì dal mio modo di parlare asettico e distaccato, ma entrò ugualmente nel nostro bagno per sedersi sul bordo della vasca alle mie spalle.
    «Perché?», chiese, accavallando le gambe fasciate da pantaloni di pelle marrone, aderentissimi.
    Fissai l’immagine di me che mi restituiva lo specchio: non ne avevo idea. O meglio, ce l’avevo, ma non mi sentivo pronta per dirla ad alta voce. Quindi tentennai davanti allo specchio masticandomi le guance.
    «È un periodo», mi decisi a dire e scrollai le spalle. «Devo ritrovare i miei equilibri, quei quattro li hanno sconvolti tutti».
    «Quei quattro, o un certo individuo con la passione per le taglie forti?».
    Mi cadde il barattolino di crema nel lavandino. «Che c’entra Tom?».
    Ghignò e si coprì le labbra con una mano. «E chi parlava di Tom?».
    L’insulto rivolto a lui mi morì sulle labbra e boccheggiai come un’idiota. Mi aveva beccata in pieno, mai come allora sentii di odiarlo.
    «In ogni caso», riprese il discorso lui, più per compassione che per altro, «non posso darti torto, se ti senti attratta da lui. Cazzo, anche un bradipo eunuco si sentirebbe attratto da lui!».
    Ringraziai il cielo che il discorso avesse preso una piega meno pesante e risi. «Adesso è l’ormone a parlare».
    «Diavolo, sì!».
    Mi ritrovai a ridere con lui, ringraziando che funzionasse così, tra di noi: le litigate e i piccoli bisticci non duravano più di un giorno, perché bastava un niente per farci tornare a scherzare e ridere serenamente.
    Poi Didi si elevò in tutta la sua considerevole altezza e mi mise una mano sui capelli, arruffandomeli con le dita. «A che ora dobbiamo andare a prendere Bea?», chiese.
    Tasto dolente. «Dopo che i fantastici quattro ci hanno raggiunti, verso le dieci», risposi dura, subito pronta a cambiare argomento. «Mi presti il tuo bracciale con la nota e la chiave?».
    Mi guardò come se avessi un grosso brufolo purulento sulla fronte.
    «Quello nero», spiegai, paziente, «con la nota e la chiave di violino. Te lo regalai io».
    Gli angoli della sua bocca si modellarono in due riccioli. «Solo se mi presti il perizoma con il pompon applicato dietro che ho visto nel cassetto della tua biancheria», disse, sorridendo furbamente.
    «Non ho un perizoma con il pompon applicato dietro, nel cassetto della mia biancheria», dissi, confusa, il mascara che avevo preso dal beauty stretto tra le dita.
    «Oh, certo che ce l’hai. Quello rosa, di pizzo, con la coniglietta disegnata davanti…».
    Per poco non mi accecai. «Tu non dovresti sapere della sua esistenza!», esclamai arrabbiata. Anche io mi sarei dimenticata volentieri di quell’oggetto di dubbio gusto. Era il frutto di una delirante giornata con Bea a base di shopping e schifezze da mangiare, terminata con una ramanzina rivolta a me a causa del mio vizio inestinguibile, cioè quello di comprare sempre e non indossare mai.
    «Viviamo nella stessa casa, cara Sissi», disse Didi con la sua stupenda faccia da schiaffi.
    «E questo ti autorizza a mettere le mani nella mia biancheria?».
    Il suo sorrisetto si accentuò. «Cercavo le coulotte con la torre di Pisa». Rise, e scappò nel corridoio per scansare il beauty che avevo lanciato verso di lui.

    Erano le dieci e un quarto. Le dieci e un quarto e quelle quattro teste di cartone non erano ancora arrivate.
    Era improbabile che si fossero persi, dato che vivevano ad Amburgo da un po’, ma, conoscendoli, non si poteva mai sapere.
    Camminavo per la cucina e il salotto come una tigre in gabbia, irrequieta e nervosa.
    Didi, invece, comodamente stravaccato sul divano, si rimirava le unghie ostentando la calma di un istruttore di yoga. Lo invidiavo a morte.
    «Elsa, datti una calmata. Non arriveranno prima se tracci un solco nel pavimento».
    Non gli risposi per decenza.
    «E poi, sicuramente Bea non sarà pronta prima delle dieci e mezza», ridacchiò divertito.
    Proprio in quel momento, il cellulare abbandonato sul tavolo vibrò e io lanciai un’occhiata saccente al mio amico: «questa è Bea pronta a urlarmi contro qualche centinaio di parolacce perché siamo in ritardo», dissi, aprendolo e portandomelo all’orecchio, mentre Didi si dileguava nel corridoio blaterando un “non voglio esserci”.
    «Bea, scusa, scusa, scusa, noi siamo pronti, ma stiamo ancora aspettando che quei cervelli sotto sale ci onorino della loro presenza!».
    «Avevo paura che non fosse il tuo numero, ma ora non ho più dubbi», mi rispose una voce, conosciutissima, che di certo non era quella di Bea.
    «Tom», dissi, estremamente seria ma segretamente stupita, «come hai avuto il mio numero?».
    «Non prendertela con me», si difese, «per averlo, Bill ha chiamato Peter Hoffman, che ha chiamato David, che gliel’ha passato. Voleva a tutti i costi che ti avvisassimo».
    Mi animai istantaneamente. «Non venite più?», chiesi, raggiante.
    «No, facciamo solo un po’ tardi».
    Quanto lo odiavo! Aveva il potere di farmi cambiare umore nello spazio di un secondo.
    «Ma non mi dire, Kaulitz, non se n’è accorto nessuno», dissi, sarcastica. «Posso chiedere almeno il perché, di grazia?».
    «A tuo rischio e pericolo. Bill ha dovuto stirare i capelli a Georg e poi si è sporcato la maglia di cera, quindi ha dovuto cambiarsi integralmente e non trovava qualcosa che gli andasse bene».
    Mi misi una mano tra i capelli. «Oh, mio Dio…», pigolai esausta.
    «E ora siamo imbottigliati nel traffico».
    I miei poveri nervi…
    «Ce la fate ad andare direttamente al Mabou? Vi raggiungiamo lì», proposi, con tutta la calma di cui disponevo.
    Ci fu una piccola pausa ad effetto. «Voi, raggiungerci lì? Ma stiamo scherzando?».
    Quella reazione mi colse totalmente impreparata. «No, perché?».
    «Di solito siamo noi che facciamo aspettare la gente, non il contrario».
    Scattai come una molla alle sue parole, ma cercai di calibrare il tono di voce per non passare per un’isterica. «Scendi da quel dannato piedistallo, Tom, e fatti un giro nel mondo reale, ogni tanto. Ne hai bisogno».
    «Vaffanculo! Devi smetterla di trattarmi come un bambino, chi credi di essere!?», mi tuonò contro.
    Si sentii un lieve brusio di sottofondo e delle voci, ma non seppi decifrare le parole e i timbri.
    «Credo di essere una persona con le palle strarotte del tuo atteggiamento del cazzo e delle persone come te, e se vedo che ti comporti come un lattante, io ti tratto da lattante! Ci vediamo al Mabou, ciao». Chiusi il telefono e lo infilai nella borsa.
    «Suppongo che non fosse Bea». Didi tornò dalla porta del corridoio, sgranocchiando qualcosa di cui non volevo conoscere l’identità.
    «No, infatti», ringhiai, «andiamo a prenderla e raggiungiamo quegl’imbecilli al locale».
    Mi avviai verso la porta, ma Didi mi chiamò per nome. Quando lo guardai, aveva lo sguardo di un genitore che rimproverava il figlio per una monelleria.
    «Finiscila».
    Lo ignorai e uscii.
    Poiché non era pronta – esattamente secondo le previsioni di Didi –, quando arrivammo sotto casa di Bea, fummo costretti ad aspettare altri buoni dieci minuti. Il mio amico continuava a cambiare stazione radio, io guardavo assorta oltre il finestrino.
    «Davvero pensi che stia esagerando?», chiesi con voce assente dopo un po’.
    «A cosa ti riferisci?».
    «Ai fantastici quattro», chiarii. «Magari è vero che c’è qualcosa di buono, in fondo…».
    «Tutti abbiamo qualcosa di buono da dare, devi saperlo vedere».
    Lo avrei preso in giro per quell’inaspettata perla di saggezza, ma quella volta mi fermai a rifletterci su qualche secondo. Ripensai agli sguardi preoccupati e sempre premurosi di Bill, a Gustav che parlava poco, ma sempre per buone ragioni, a Georg che aveva saputo vedermi dentro in un modo tanto discreto quanto efficace da lasciarmi disarmata. E a Tom, che, tutto sommato, era un compagno di alterchi molto valido.
    «Forse hai ragione», dissi.
    Pochi secondi dopo, sentii di nuovo la mano di Didi poggiata sulla mia testa. «Quanta confusione c’è nel tuo cervellino».
    Stavo per rispondere che odiavo quando dava sfogo al suo istinto materno, ma lo sportello posteriore si aprì per lasciar entrare una Bea con l’argento vivo addosso. La sua vivacità latente, per una volta, aveva preso il posto dello strato di sarcasmo e cinismo che la caratterizzava e sembrava davvero più bella. I suoi tratti regolari e armonici, anche se forse un po’ accentuati, apparivano più dolci, e guardarla significava essere inevitabilmente contagiati dal suo buonumore.
    «Ecco l’anima della festa!», esclamò, baciando calorosamente sulla guancia prima me, poi Didi. Le facemmo gli auguri e partimmo.
    «Dov’è il piatto forte?», chiese poi con entusiasmo.
    «Sarà servito in quattro meravigliose porzioni contornate da panna montata e mousse al cioccolato fondente direttamente al Mabou», dissi, con evidente sarcasmo.
    Didi mi diede un debole schiaffetto ammonitore sulla coscia. «Non illuderla così, sai che ci crede davvero».
    Risi e scoccai un’occhiata a Bea. «Davvero segui la loro carriera?», chiesi scettica.
    «Non li seguo attentamente, ma la mia rivista praticamente si nutre di fenomeni come il loro ed è impossibile non conoscerli», spiego in tono pratico.
    Fenomeni. Quindi, i Tokio Hotel per i giornaletti di gossip non erano altro che una meteora da spremere come un limone per ricavarne il più possibile?
    «Quei ragazzi non sono un fenomeno», mi trovai a dire, ancor prima che la mia mente potesse realizzare il concetto.
    Bea non si soffermò sul mio tono serio e riflessivo. «Beh, ora come ora la loro popolarità sta calando; dovrebbero darsi una mossa, se non vogliono ritrovarsi nel dimenticatoio».
    Ecco perché provavo profonda repulsione per tutte le impalcature e sovrastrutture costruite intorno agli artisti e alla loro musica. Appena dimostravano di essere umani e di non poter sfornare continuamente canzoni e hit di successo, venivano accantonati e sostituiti.
    «Non devono affatto darsi una mossa, ma prendersi i loro tempi», continuai, «forse hanno le caratteristiche di una meteora, ma sono ragazzi originali, amano ciò che fanno e ce la mettono sempre tutta. Io lo so, lo vedo».
    Bea e Didi si scambiarono uno sguardo ispirato nello specchietto retrovisore e io mi trovai ad essere ancora più convinta di ciò che avevo detto. Si poteva mettere in discussione tutto, di loro, tranne la passione.
    «Tranquilla, nessuno ti tocca i tuoi cuccioli», mi disse Bea con tono evidentemente ironico.
    «A proposito di cuccioli, credo che siano quei quattro che aspettano nel macchinone».
    Non mi ero accorta che eravamo giunti a destinazione.
    Il Mabou era un locale abbastanza popolare, che si collocava nella parte più in vista di una grande zona pedonale. La strada che circondava l’area era gremita di auto e la piazza brulicava di gente, e non solo in corrispondenza dell’ingresso del locale, che sgomitava tra una gelateria e una saracinesca chiusa. Una macchina grigia, marca Audi, era parcheggiata circa un isolato più avanti, in una traversa successiva ad un palazzo a tre piani. Più ci avvicinavamo, meglio riuscivo a identificare la testa di Bill, seduto dietro, i suoi rasta bianchi legati sulla nuca e qualcosa del profilo di Gustav.
    Anche Bea guardava attentamente all’interno dell’auto, assottigliando gli occhi azzurri in due riflessive mezzelune. «Cos’è quella palla che si muove?», chiese.
    Sospirai. «Non è una palla, è la testa di Bill che si agita in continuazione quando è in preda ad uno dei suoi attacchi di logorrea».
    Entrambi i miei amici risero e anche io mi lasciai sfuggire un sorriso indulgente.
    «Elsa, raggiungili e dì loro di seguirmi nel parcheggio per i dipendenti, se non vogliono lasciare la macchina fuori», consigliò Didi, «poi li faremo entrare dal retro».
    «Perché devo andarci io?».
    Invece di rispondermi, si allungò per aprirmi lo sportello. «Dai, altrimenti blocchiamo il traffico».
    «Come se non fosse già bloccato…», borbottai, uscendo. Mi trovai immersa nella confusione del sabato sera, smog e clacson di auto. L’aria gelida m’investii e mi strinsi nel mio cappotto bianco. Attraversai quell’isolato a passo sostenuto e poi bussai con due nocche al finestrino del guidatore, che si abbassò rivelandomi poco a poco il viso di Georg e quello imbronciato – tanto per cambiare – di Tom.
    «Buonasera!», li salutai, sorridendo.
    Tom mi rispose con un grugnito, Gustav ricambiò il saluto educato, seguito da Bill che si sporse oltre i due sedili di avanti per sorridermi e ricambiare.
    «Ce l’avete fatta», disse Georg.
    Mi riavviai i capelli all’indietro. «Scusate, c’era traffico», risposi, evitando accuratamente la parte in cui Bea ci faceva aspettare quasi un quarto d’ora, per non scatenare le ire di Tom. «Vi faccio entrare dal retro». Mi spostai verso lo sportello posteriore e lo aprii, infilandomi all’interno.
    Tom si voltò verso di me, guardandomi con un sopracciglio inarcato. «Ma tranquilla, Elsa, fai come se fosse la tua macchina». La sua voce grondava sarcasmo.
    Stavo per replicare, quando vidi Bill dargli uno schiaffetto con il dorso della mano sul braccio. «Stai zitto», gli ordinò, poi si rivolse a me: «wow, stai benissimo», disse guardando i semplici jeans abbinati ad un’altrettanto semplice camicia nera, peraltro nascosta da un cappotto bianco, di lana, lungo fino a metà coscia.
    Mi trattenni dallo sbuffare. Non aveva ancora capito che odiavo i complimenti?
    «Anche tu», ricambiai, allora, giusto per spostare l’attenzione da me, ma dovetti ammettere con me stessa che era vero. Bill indossava dei semplici jeans scuri, abbinati ad un cappello nero e ad una felpa dello stesso colore decorata sul petto da motivi bianchi. Non era appariscente, ma ormai riuscivo ad immaginare che qualunque fan provvista di occhio clinico avrebbe saputo riconoscerlo.
    Ma il mio complimento, evidentemente, non aveva sortito l’effetto di lusingarlo, perché mi guardava come se gli avessi detto che aveva dei bellissimi occhi azzurri. «Non dire idiozie, non è vero!», stridette. «Sembro Bridget Jones alla festa del circolo degli avvocati, sono quasi impresentabile, giuro che in tutta la mia vita non mi sono mai presentato in pubblico in modo così pietoso…», Bill continuò a blaterare e, dopo essermi fugacemente domandata come facesse una star internazionale del rock a conoscere Bridget Jones, mi pentii con tutta me stessa di avergli fatto quel dannato complimento e di non saper dire “grazie”.
    Lanciai un’occhiata esasperata a Gustav, che ricambiò con un’alzata di spalle e un sorriso indulgente.
    «A Georg è andata peggio. Pensa che gli ha urlato dietro per quasi un quarto d’ora», m’informò, e Bill guardò incuriosito verso di lui.
    «Ho fatto un’opera di bene!», si difese Georg.
    «Sporcandomi una maglia di ottanta euro con della cera per capelli?!».
    «No, impedendoti di dare sfogo al tuo egocentrismo soffocante che avrebbe portato tutti noi ad essere riconosciuti».
    Quel battibeccare continuo mi strappò un sorriso. «State tranquilli, Didi ci ha riservato il posto speciale del locale», assicurai loro. «Vi faccio lasciare la macchina nel parcheggio riservato ai dipendenti».
    «Che bella idea!», cinguettò Bill, mentre Georg metteva in moto. Lo guidai fino ad un garage sotterraneo, a cui si accedeva tramite un cancello grigio, sorvegliato. Appena la macchina si fermò di fronte alle grate, il guardiano si avvicinò e io mi sporsi oltre il finestrino abbassato.
    Appena mi vide, l’uomo mi sorrise. «Guarda un po’ chi si rivede! Ti eri data latitante?».
    «Scusa, Klaus, ho avuto da fare», spiegai sbrigativa all’uomo sulla quarantina con due occhi piccoli e neri, vestito in modo molto semplice. «Sono amici speciali, mi trovi un posticino per loro?», chiesi, sbattendo le ciglia e sciorinando un sorriso angelico.
    «Elsa, Elsa, non ti approfittare».
    «Per favore», insistetti, pigolando «è il compleanno di Bea, non puoi dirmi di no!». Stavo già scendendo dalla macchina, certa del suo cedimento imminente.
    Klaus, infatti, alzò gli occhi al cielo. «Sono troppo buono, l’ho sempre detto».
    «Grande!», esclamai, poi mi rivolsi ai ragazzi che guardavano la scena confusi. «Andiamo; Georg, pensa lui alla macchina».
    I quattro scesero dalla vettura lentamente, piuttosto confusi. Era evidente che non conoscevano scene come quella, abituati com’erano ad essere sempre ricevuti in pompa magna.
    Li guidai fino ad una porta in ferro battuto, che aprii con una chiave che estrassi dalla borsa; ci trovammo in un grande locale, grigio, illuminato unicamente da luci neon penzolanti dal soffitto, pieno di imballaggi disposti sul perimetro e nella zona centrale.
    «Mi sento un mafioso», osservò Georg.
    «Io sono emozionato!», cinguettò Bill, trotterellandomi accanto.
    «Cos’è questo posto? Il set di un thriller?», mi sentii chiedere da Gustav.
    «No, è il magazzino del Mabou, di cui solo i dipendenti hanno le chiavi. Da qui si accede direttamente all’interno, proprio accanto al bancone bar».
    «Che razza di modi…», mugugnò Tom, rimasto in silenzio fino ad allora e io mi ricordai repentinamente della sua esistenza sul pianeta Terra.
    «Oh, Tom, ci sei anche tu!».
    Mi fece un gesto molto poco cortese con la mano che ignorai, perché eravamo giunti in prossimità della porta che affacciava all’interno del locale. Si poteva già udire la musica, ma quando abbassai il maniglione antipanico e spinsi, fummo investiti dal sottofondo house che riempiva tutto l’ambiente.
    Il Mabou non era un locale immenso, ma nemmeno tanto piccolo. Di fronte al lungo bancone bar, disposto poco più avanti ad una parete di specchi, c’era la pista da ballo, animata dalle luci psichedeliche dei riflettori, quasi sempre piena di gente. Sulla parete concava a destra, era disposta una fila di alti divani bianchi a forma di cubo, su cui erano poggiati vari cuscini dai colori alterati dalle luci proiettate attraverso delle gocce di cristallo che pendevano dal soffitto. Di fronte a noi, c’era la consolle del DJ.
    «Ora statemi vicino!», dissi ai quattro dietro di me.
    Salutai i baristi di turno, conoscenze molto superficiali, e guidai i ragazzi verso una scalinata che conduceva ad una sorta di soppalco, dove erano sistemati dei divani zebrati e dei tavolini. Quella era l’area solitamente riservata agli ospiti importanti, e che Didi aveva riservato unicamente per noi.
    Bea e Didi erano già accomodati sui divani, con due drink in mano e delle terrine piene di stuzzichini sul tavolo. Il look di Didi – pantaloni di pelle marrone da cui sporgevano boxer arancioni e camicia color fango con degli schizzi verde acido – appariva ancora più particolare con quelle luci.
    «Eccoci!», esclamai per attirare la loro attenzione.
    «Ehi!», esclamò Bea, guardando i quattro dietro di me con i suoi occhi cerulei ed indagatori. Mi voltai anche io per guardarli e non potei non notare la cappa di imbarazzo che aleggiava su di loro, su Bill in particolare. Immaginai che non dovesse far loro piacere essere presentati anche in privato come la notizia più succulenta, quindi cercai di metterli a mio agio il più possibile.
    «Bea, loro sono Gustav, Tom, Bill e Georg», li presentai, indicandoli uno ad uno. «Ragazzi, lei è Bea, l’hanno sguinzagliata da un manicomio qualche anno fa».
    La mia amica ridacchiò e si alzò stringendo la mano a tutti loro, che le fecero gli auguri, subito seguita da Didi che li baciò tutti su entrambe le guance; sprecò perfino un complimento sentito per i bicipiti di Georg – che non mancò di apprezzare esattamente come avevo fatto io la prima volta.
    Ci accomodammo tutti sui divanetti, io stretta tra Bill e Gustav. Non potei fare a meno di notare che l’atteggiamento della diva, da spigliato e spontaneo di poco prima, si era ridotto ad un imbarazzo muto che lo faceva assomigliare ad un cucciolo di uomo.
    «Ehi», lo richiamai, mentre tutti gli altri erano occupati nei loro chiacchiericci, «che è successo alla tua logorroica mania di protagonismo?».
    Forse aveva un gran bisogno di parlare, perché non si fece particolari problemi nel farlo. «Sono un po’ nervoso».
    «E come mai?», chiesi, con tutta la delicatezza possibile. Sapevo quanto potesse suonare fastidiosa una domanda già di per sé indiscreta, se posta nel modo sbagliato.
    «Di solito siamo sempre circondati da gente che conosciamo, abbiamo guardie del corpo e sappiamo cosa fare, invece ora mi sento così…».
    «Sperduto?», offrii, notando il suo tentennamento.
    I suoi occhi appena truccati si abbassarono. «Sì».
    Non riuscivo ad immaginare nemmeno lontanamente come si sentisse, non avendolo mai vissuto sulla mia pelle. Tuttavia, provai a calarmi nei suoi panni e cercai le parole più adatte per tirarlo su. «Rilassati, pensa che qui non siamo davanti alle telecamere e nessuno ti giudica. Puoi essere te stesso, con noi».
    Mi sorrise, e fu un sorriso particolare, a labbra chiuse. Non era uno dei più felici che gli avessi mai visto fare, ma almeno era sincero.
    «Bea mi ha guardato come un pezzo di torta alla crema», disse, come volendo cambiare argomento.
    «Partendo dal presupposto che la crema non le piace, ha guardato tutti voi così. Sembra una ragazza particolare, all’inizio, ma è davvero una bella persona».
    Si guardò le mani giunte, i gomiti poggiati sulle ginocchia. «Dev’esserlo per forza, per essere tua amica».
    E quella frase al miele? Da dove gli era uscita?
    Mi trovai spiazzata e senza parole, incapace, come al solito, di gestire un pensiero carino verso di me.
    «Ragazzi, scusate se interrompo l’idillio, però dovreste ordinare», ci interruppe Bea. Bill ridacchiò, io sentii quell’interruzione come un pizzicotto fastidioso che mi riportava alla realtà.
    «Amica mia, che delicatezza», la presi in giro. «Chi ha l’onere di andare a prendere da bere, stasera?».
    «Io», rispose Didi, alzando una mano. «Stasera mi tocca». E si alzò, aspettando che ognuno di noi lo informasse sulle ordinazioni. Io ordinai un Bloody Mary, Bea un Long Island e i ragazzi quattro diversi cocktail che non avevo mai sentito nominare. L’ordinazione di Tom sembrò per lo più un grugnito, così scontroso e burbero che non riuscii nemmeno a capire cosa avesse detto.
    «Cosa prende al capo indiano?», domandai sottovoce a Gustav, mentre Bea e Georg erano impegnati in una conversazione che non stavo ad ascoltare. Dallo sguardo ammiccante e soddisfatto di lei, però, intuii che i toni sconfinassero per lo più nel flirt.
    «Questa non l’avevo mai sentita», ridacchiò Gustav, appoggiandosi allo schienale. «Lui e Bill hanno avuto una piccola discussione e quando succede il loro malumore riesce ad ammorbare anche l’aria. Non far caso a loro, è il modo migliore di divertirsi».
    «Oh», mi sentii sinceramente dispiaciuta. «Qual è il motivo?».
    Sguardo furbo ed enigmatico sorriso storto da parte sua. «Tu».
    La mia mascella non cedette come una tapparella rotta per dispensa divina. «Io!?».
    Annuì saggiamente. «Proprio tu».
    Non ero sicura di voler sapere il perché. La curiosità mi spingeva a porre quella domanda, ma una morsa all’altezza dello stomaco mi suggeriva che probabilmente era meglio tenere la bocca chiusa.
    Fortunatamente, a distogliermi dal quesito esistenziale, fu Didi, che comparve sulle scale, investito dalle lame di luci colorate continuamente in movimento. «Ecco i drink, gente, sbizzarritevi».
    Appena il terzo drink fu poggiato sul tavolino basso, Tom si allungò prima degli altri e lo prese, urtando involontariamente la mano del fratello.
    «Stai attento!», lo rimproverò Bill.
    «Questo è per Bea», Didi lo passò direttamente a lei, essendo più vicina, «e questo è alla piccola Sissi», me lo cedette.
    Oh, no.
    «Piccola Sissi?», Georg mi guardava perplesso e divertito. «Che storia è questa?».
    «È il soprannome che mi ha dato mia madre», spiegai senza troppe cerimonie, bevendo di tanto in tanto. «Ogni tanto qualcuno mi chiama ancora così». E quel qualcuno poteva essere solo Didi, o, al massimo, Bea, quando era in vena di tenerezze – praticamente una volta ogni due anni. Quel nomignolo era una delle pochissime cose che Aaron mi aveva rivelato di mia madre: per gli ultimi mesi della sua vita, i primissimi della mia, io non ero Elsa, ma la piccola Sissi. Contro ogni previsione, quando mi sentivo chiamare in quel modo non mi si aprivano vecchie ferite, anzi, riuscivo a sopportare abbastanza volentieri.
    Bill sembrò approvare, perché applaudì velocemente, sorridendo. «È molto dolce».
    «È squallido», sentenziò invece una voce dura e baritonale. «E non ti si addice per niente».
    Cercai una taglientissima risposta da rifilare a quel buzzurro, ma Didi fu più veloce di me: «è vero che forse non è il più indicato a lei, ma per noi, Elsa rimane Sissi», intervenne con la sua solita diplomazia.
    «Tom è l’ultima persona in grado di dire cosa si addice ad Elsa, comunque», fu il commento al vetriolo di Bill, che mi stupì, perché indirizzato al suo stesso fratello.
    «Tu sei un giudice supremo ed imparziale, invece, vero?».
    «Sarei più imparziale di te, poco ma sicuro».
    «Dipende dagli argomenti».
    Non mi piaceva la piega che stava prendendo la loro conversazione. Inoltre, sapere che il motivo di tanto astio ero io mi preoccupava il doppio.
    Bea si alzò in piedi, ergendosi nel suo metro e settantadue e si puntellò i fianchi con le mani. «Non osate rovinarmi il compleanno, ragazzini!», li rimproverò, e a Didi scappò una risata nasale. «Giro di ballo?», propose poi con entusiasmo.
    Sia io che gli altri, a parte Bill, avevamo finito i nostri drink, ma solo io e Didi ci alzammo. Vidi che i quattro rimanevano seduti e statici come soprammobili e mi appuntai che la prossima volta avrei dovuto portare un defibrillatore tascabile.
    La prossima volta?, strillò la mia parte razionale, indignata, non ci sarà una prossima volta!
    «Gustav, vuoi farmi l’onore di questo ballo?», chiesi con un sorriso allegro, ben consapevole di star andando contro tutte le convenzioni.
    Fummo interrotti dalla scena di Bea che, molto meno educatamente di me, trascinava un Georg abbastanza reticente per scale, diretta nella pista affollata. Didi la seguì senza aspettare noi: lui cercava solo compagni del suo sesso, e, bello com’era, non faticava mai a trovarne.
    Riportai lo sguardo su Gustav, che alzò le mani a mo’ di scusa. «Mi dispiace, sono costretto a declinare. Un tronco sarebbe più aggraziato di me», ammise.
    Bill appoggiò il suo bicchiere ormai vuoto sul tavolino e si alzò. «Vengo io, è lo stesso?».
    «Bill, tu non sai ballare!», strepitò Tom. Nella sua voce colsi rabbia, indignazione e se non l’avessi conosciuto, avrei detto che era geloso di Bill.
    «E allora? Ci vuole la licenza per divertirsi?», replicò, il sopracciglio inarcato. Poi guardò me, e ahimè, si vedeva lontano un miglio che non sapeva come destreggiarsi con inviti, ragazze e balli a ritmo di musica. Specie se le tre cose erano correlate.
    Decisi di toglierlo dall’impaccio. «Andiamo», mi avviai verso la scalinata, accertandomi con la coda dell’occhio che mi seguisse.
    Proprio mentre scendevamo, il classico tormentone da discoteca, No stress di Laurent Wolf, andò lentamente scemando, lasciando il posto ad una canzone lenta ed accattivante, dal ritmo ipnotico e sensuale. Riconobbi Sly dei Massive Attack già dalle prime note.
    «Mi piace questa canzone», osservai, quando giungemmo al centro della pista. Gli misi le braccia intorno al collo con una certa difficoltà, dato che era alto almeno venti centimetri più di me.
    «Io non la conosco», replicò lui, fingendosi più disinvolto di ciò che in realtà era. Lo capii dal modo in cui le mani si poggiarono sui miei fianchi, esageratamente leggere ed incerte.
    Fu con un movimento naturale ma poco fluido insieme che i nostri bacini scivolarono l’uno contro l’altro: ci ritrovammo così ad abbattere tutte le barriere fisiche che ci avevano sempre separati.
    Stai esagerando, mi avvertì la solita vocina antipatica.
    È solo un ballo, mi giustificai, domani sarà già tornato tutto come prima.
    «Hai due piedi sinistri», osservai, giusto per rompere l’imbarazzo che galleggiava sulle note di Sly.
    Ricevetti un sorriso consapevole in risposta. «Lo fai per sport o semplicemente ti diverti?».
    «A fare cosa?».
    «A demolire le persone».
    Non risposi immediatamente. Riflettei per una manciata di secondi, poi chiesi: «la cosa ti disturba?».
    Si schiacciò le labbra. «È il tuo modo di dirci che ci vuoi bene, quindi… no».
    Davvero era il mio modo di dimostrare affetto?
    Dal mio punto di vista, era solo una tecnica di difesa, di separazione dal resto del mondo, nulla di più. D’altra parte, se non avessi provato affezione per quei ragazzi troppo perfetti per essere veri, di certo non avrei sprecato fiato per difenderli di fronte ai miei amici.
    Feci scivolare una mano dalla nuca di Bill al suo petto, come a voler mettere qualcosa tra di noi. «Tu sei troppo attento».
    Scrollò le spalle, continuando a guardarmi negli occhi. «Sei la prima persona che me lo dice».
    Annuii a me stessa. «Certo. Ufficialmente sei immaturo, egocentrico e narcisista».
    Capii di averlo ferito appena ebbi smesso di parlare, e ne fui certa quando esaminai la sua espressione. Nello stesso momento, sentii qualcosa cadere con un tonfo all’altezza dello sterno.
    La musica terminò in quell’istante, fondendosi con un ritmo più sostenuto e rumoroso, dissolvendo l’atmosfera di poco prima.
    «Già». Bill mi sorrise in modo stentato e si congedò, lasciandomi al centro della pista, sola.
    Lo richiamai, ma fece finta di non sentire.
    Maledetta me e la mia lingua lunga!
    Mi diressi subito verso il nostro tavolo continuando ad imprecare contro me stessa: sentivo l’impellente bisogno di fumare. Trovai solo Gustav e Didi nella nostra area, intenti a chiacchierare, ma non chiesi notizie degli altri. Mi feci dare una sigaretta e riattraversai il locale costeggiando la pista, per poi infilare la scalinata che portava ai bagni pubblici e all’unico balcone del locale, a cui si accedeva tramite un corridoio stretto e abbastanza buio. Una volta fuori, inspirai, e l’aria pungente mi riempì i polmoni. Ora che non ero più immersa nella confusione, della musica ad altissimo volume era rimasto solo un vago rimbombare nelle orecchie.
    Mi appoggiai al parapetto, accedendomi la sigaretta.
    «Finito di civettare con mio fratello?».
    Mi spaventai seriamente, più del solito, e mi cadde la sigaretta oltre la balaustra. Mi voltai con il cuore che batteva all’impazzata: vidi Tom che fumava, appoggiato al muro, e un bicchiere mezzo pieno di un liquido ambrato sull’unico tavolino impolverato di fronte a lui.
    La luce del lampione di fronte a noi si rifletteva sulla sua pelle evidenziandone la patina di sudore.
    «Che ci fai qui?», domandai. Non avevo idea del perché, ma mi tremavano le gambe e mi sentivo leggermente agitata. Qualcosa in Tom – nel suo atteggiamento – m’inquietava.
    «Forse mi sono rotto le palle di vederti fare la gatta morta con mio fratello, che dici?».
    «Io non stavo affatto facendo la gatta morta», ringhiai, allibita, «e anche se fosse, non dovrebbe interessarti».
    «Non mi frega niente di te, infatti», alzò gli occhi furiosi su di me, come a voler sottolineare quello che stava dicendo, «ma non voglio che mio fratello si prenda una sbandata per una come te».
    C’erano così tante offese in ciò che aveva appena detto, che mi sentii come se fossi appena stata investita da un camion.
    «Una come me? Che accidenti sai tu di me?», chiesi arrabbiata, ad un passo dall’urlare.
    «Sei falsa ed egoista, questo basta».
    Fu come essere schiaffeggiata da un pugile e mi sentii furiosa, in preda ad una rabbia cieca. Forse per ciò che mi aveva detto, o forse per l’affronto di essere stata insultata proprio da lui, che era l’ultima persona in diritto di farlo.
    «No, forse mi stai confondendo con te», mi difesi.
    Mi si avvicinò in un baleno, con passo appena instabile, e mi schiacciò tra lui e il parapetto. Sentii di nuovo il battito accelerato del mio cuore e deglutii.
    «Mi sono rotto di sentirti sputare sentenze su qualcosa che non puoi capire», ringhiò, a pochi centimetri dal mio viso. Il suo alito sapeva fortemente d’alcool.
    «Hai bevuto troppo», feci un piccolo passo verso destra, con l’intento di avvicinarmi al vecchio tavolino, continuando a sostenere il suo sguardo.
    «Ah, ora avrei bevuto troppo», sibilò, «adesso ti manca anche il coraggio di ammettere la verità».
    «Di cosa parli?!».
    «Non stavi sparlando di me con Georg, oggi, vero?», mi urlò in faccia, «non ti sei divertita ad umiliarmi davanti a tutti, il primo giorno, vero? Non t’interessa nemmeno che mio fratello mi abbia dato dell’insensibile e dell’egoista! Non ti è mai fregato un cazzo di nessuno, ti basta sputare i tuoi pareri velenosi come capita per sentirti realizzata e per fare la grande! E poi io sarei quello falso ed egoista!». Batté una mano sul ferro della ringhiera con violenza, facendola vibrare.
    A quel punto non sapevo se ero più dominata dalla rabbia o dalla paura. Probabilmente da entrambe in uguale misura. Istintivamente, allungai un braccio, afferrai il bicchiere abbandonato sul tavolo e ne lanciai con forza il contenuto sul viso di Tom.
    Gli scappò un urlo strozzato e si portò le mani agli occhi; io ne approfittai per divincolarmi e scappare via. Non avevo idea di ciò che stava succedendo, tremavo tutta e volevo andare via. Non feci neanche tre metri, perché sentii delle dita che mi afferravano violentemente un braccio, stringendo fino a farmi male.
    Tom mi voltò verso di lui, afferrandomi anche l’altro braccio e sentii di nuovo quella voglia di prenderlo a cazzotti che lottava con l’istinto di fuggire.
    «Lasciami!», abbaiai, e se avessi avuto le braccia libere lo avrei picchiato.
    I suoi occhi annebbiati mi fissarono con la forza di un trapano a percussione. Passò sì e no un secondo, poi, mi attirò a sé e mi baciò.
    Fu un bacio violento, duro, quasi doloroso. Insinuò la lingua nella mia bocca prepotentemente e io mi trovai senza la forza e la possibilità di spingerlo via, imprigionata nelle sue mani. Mi spinse contro il muro del piccolo corridoio, impedendomi di fare nulla se non di acconsentire alla sua prepotenza.
    Mi liberò le braccia dopo qualche secondo, approfittando della mia arrendevolezza, e intrecciò le dita nei capelli sulla mia nuca, attirandomi verso di lui. Mi baciò in modo ancora più feroce, ancora più affamato.
    Di nuovo, ero divisa in due. Stavo baciando Tom con lo stesso trasporto che aveva lui, stavo cedendo quasi del tutto, ma un’altra parte di me era disgustata da quel modo di fare. Non so con quale forza, ma feci scivolare i palmi delle mie mani sul suo petto e lo spinsi via con tutta la forza che avevo.
    Vidi fuggevolmente che finiva contro l’altra parete del corridoio stretto, poi corsi di nuovo verso le scale con il battito anormale del cuore che rimbombava nelle orecchie.
    «Elsa!». La sua voce proveniva da lontano, non mi stava seguendo. Ed era roca, bassa, come se fosse quella di un malato.
    Mi voltai di scatto verso di lui, solo una sagoma i cui colori e forme si intravedevano a malapena a causa del buio. Era piegato su se stesso e si teneva una mano sullo stomaco. Mi guardò in un modo che non so descrivere, prima di vomitare una fontana di bile.
     
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