Love for music;

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  1. Monique;
     
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    *_*
    Grazie gioie, grazie molte.
     
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    uuuuuuuuuuuuuup ù.ù
     
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  14. Monique;
     
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    Eccomi di nuovo con un chilometrico capitolo! Che dire, buona lettura, e se arrivate fino alla fine, di nuovo, complimenti.

    Capitolo 8

    Stronzo. Per prima cosa. Villano per seconda. Subdolo, prepotente, manesco ed irruento per tutto il resto.
    Avrei benissimo continuato, perché ero così furiosa da riuscire a stendere quel moccioso autocompiaciuto altresì conosciuto come Tom Kaulitz a suon di insulti ed imprecazioni.
    Trovavo che approfittare in quel modo meschino di un mio momento di vulnerabilità fosse stato oltre ogni umanità, perché, io lo sapevo, lui aveva capito che non ero in forma. Purtroppo, chiunque potrebbe capirlo vedendo una persona che piange.
    Scalciai via le coperte del mio letto e mi diressi in cucina. Arraffai dal frigo il cartone del latte, presi una tazza dalla credenza e la riempii. Mentre la mettevo nel microonde, pensai che quel moccioso aveva perso tantissimi punti con quel comportamento. Non che prima ne avesse molti, comunque.
    Sospirai, poggiandomi al banco della cucina.
    La casa a quell’ora del mattino era silenziosa, pacifica, come ogni volta in cui mancava uno dei miei due compagni di vita. Didi, comunque, era ancora a letto in letargo, dopo essere rientrato alla solita ora indecente, come ogni sabato.
    Preparai il caffè e pensai di svegliarlo con quello, altrimenti nemmeno per mezzogiorno sarei riuscita a buttarlo giù dal letto.
    Stai tergiversando, mi disse la solita, stronza vocina nella mia testa. Per quanto possa insultarlo, tu hai baciato Tom, e di certo non perché si dà così tante arie che potrebbe volare.
    Tirai fuori la tazza, scocciata, e la poggiai sul tavolo. D’un tratto mi era passata la fame.
    Sì, l’avevo baciato, e allora? Ero un po’ brilla anche io.
    E il fatto che baci da dio non significa niente, giusto?, continuò a sghignazzare quella.
    Mi cadde il cartone dei cereali dalle mani e mi affrettai ad afferrarlo prima che potesse rovesciarsi. Stavo per rispondere a quella voce fastidiosa quanto un ronzio nelle orecchie, poi mi resi conto che conversare con se stessi non portava a niente e preferii evitare.
    Decisi cosa fare per poter concludere qualcosa nel momento in cui portai a Didi il caffè. Entrai nella sua stanza, scansai gli indumenti disseminati sul pavimento e posai la tazzina sul comodino, stando attenta a non fare rumore.
    Dormiva beato, sdraiato sulla pancia e con una mano chiusa a pugno accanto al viso sereno, i capelli arruffati. Dalle spalle nude capii che era tornato talmente stanco da non essere riuscito a infilarsi il pigiama.
    Mi fece sorridere: era un amore quando dormiva.
    Nonostante tutto, con un ghigno diabolico, premetti tutti gli interruttori che accendevano le luci e aprii la tapparella avendo cura di fare quanto più rumore possibile. Fuori il cielo era nuvoloso e grigio, e pioveva.
    «Sveglia, Bell’addormentato!», urlai nella sua direzione, anche se di mattina la mia voglia di parlare spesso era pari a zero.
    Lo vidi premersi con forza il cuscino sugli occhi e seppellirsi sotto il piumone, mugolando imprecazioni non definite. Non contenta, salii sul suo letto e cominciai a saltare leggermente, facendo ondeggiare il materasso.
    «Non la smetterò finché non sarai sveglio», lo avvertii.
    «Sono già fin troppo sveglio, strega», mi rispose con voce d’oltretomba, dandomi le spalle.
    «Oh, adulatore!». Mi sedetti sulle ginocchia accanto a lui e lo dondolai per una spalla. «Didi, ho bisogno di te».
    «Su questo non c’erano dubbi», bofonchiò. Poi si voltò verso di me, gli occhi ancora socchiusi dal sonno e un sorriso paziente, e alzò lo strato di coperte per far segno di raggiungerlo. Non appena fui sotto la calda flanella, mi rilassai di nuovo, poggiando la testa sul mio braccio piegato.
    «Diamo inizio alla prima puntata de “I problemi di cuore di Elsa Gabriella Fränze”», disse con finta aria solenne.
    «Come sai che sono problemi di cuore?», chiesi scettica.
    «Elsa, andiamo, non essere ridicola. Da quando è comparsa una certa persona, la tua vita sentimentale è come un vulcano attivo».
    Sbuffai, ma non provai più a contraddirlo, sarebbe stato inutile.
    «Vedo che abbiamo superato la fase della negazione. Ti ci è voluto un bel po’, devo dire», sghignazzò.
    Sorvolai sulla sua frase. «Il punto è che non c’è più in gioco solo una persona. Ora ce ne sono due», dissi.
    Il volto di Didi si illuminò per lo stupore, gli occhi cerulei spalancati. «Dai. Davvero?».
    «Sì».
    «E chi?».
    «Il fratello», ammisi poco entusiasta.
    Didi rimase un attimo basito, giusto il tempo di assimilare la notizia. Poi si distese sulla schiena e rise sonoramente, nascondendosi il volto con le mani.
    Ma cosa…?
    Mi puntellai su un gomito e lo guardai spaesata. «Beh?».
    «Oddio, Elsa», continuò a ridere, «Chitarrista e cantante in un colpo solo… adesso sì che ti stimo!».
    Non arrossire. Non arrossire. Non arrossire. Limitati ad arrabbiarti, almeno provaci.
    «Io non ci trovo niente di divertente!», inveii, fedele agli ordini di una delle tante vocine che blateravano indisturbate nella mia mente. «Nel caso non ti fosse chiaro, sono nei casini fino al collo».
    «Ah, questo è poco ma sicuro», concordò una volta acquietato lo scroscio di risa. «Solo che è un bel traguardo, per una che non voleva instaurare nemmeno un legame d’amicizia».
    «Già, anche se non vedo il lato comico di tutto questo», mormorai affranta. «E ora, non uno, ma entrambi i Kaulitz sono incazzati con me e io non so proprio che pesci prendere. E quel cazzo di bacio!», m’infervorai, «mi ha confusa più di prima e mi maledico ogni giorno per aver…».
    «Aspetta, aspetta, frena», m’interruppe, tappandomi la bocca con una mano. «Perché dovrebbero essere arrabbiati con te? E di quale bacio parli?».
    Sbuffai pesantemente e nella mia mente feci un’istantanea sintesi di tutte le sventure che mi erano capitate che riguardavano anche quel buzzurro.
    «Tom è uno stronzo», affermai decisa, quando l’ebbi conclusa.
    «D’accordo, questo è assodato da un pezzo. Non puoi… ampliare il concetto?».
    «Va bene», ci pensai su. «Tom è un megastronzo».
    Didi alzò pazientemente gli occhi al cielo. «Elsa, mi devi raccontare tutto».
    Ovviamente ogni volta che Didi sentiva odore di pettegolezzi si comportava peggio di una comare, ma questa volta anche lui capiva che le cose andavano prese sul serio. Lo vedevo nella sua espressione accorata, seria. E ricordai di non averlo reso partecipe degli ultimi avvenimenti con i Kaulitz – nemmeno dei primi, in realtà – così presi il coraggio a quattro mani e gli spiegai a grandi linee la situazione, compreso il rovente – ma quest’aggettivo non l’avrei mai pronunciato – bacio con Tom nel corridoio del Mabou. Alla fine della (in)felice favoletta, Didi si stava sforzando per non scoppiare di nuovo a ridere.
    Gli lanciai occhiate di fuoco, ma poi modificai la mia espressione e assunsi un cipiglio professionale e studiatamente calmo. «Caro il mio Diedrich, posso informarti dell’identità della vittima della mia prossima violenza?», domandai candidamente.
    Mi lanciò un’occhiata obliqua. «Oddio, spero che non sia Bill, lo traumatizzeresti. A Tom invece potrebbe anche piacere… Non è che mi fai assistere?». Mi guardò con un’espressione così sfacciatamente maliziosa che gli premetti il cuscino sulla faccia, segretamente divertita, mentre lui continuava a ridere.
    «Okay, okay, la smetto!», disse alla fine, cercando di togliersi il guanciale che gli opprimeva il viso.
    Lo liberai, di nuovo seduta sulle ginocchia e gli scoccai un’ altra occhiataccia. «Non mi stai aiutando», borbottai offesa.
    E Didi divenne stranamente serio.
    Sospirò sonoramente, solito segno dell’arrivo dei discorsi importanti. Quel genere di discorsi che io evitavo come la peste, perché mi mettevano di fronte ai problemi, anzi, mi ci facevano sbattere contro e io non ero più in grado di ignorarli. Nonostante questo, non potevo impedirgli di parlare. Ero andata da lui per farmi aiutare, e probabilmente lo avrebbe fatto, anche se non con i metodi più delicati.
    «Sai una cosa, Elsa? Io penso che tutto questo casino ti stia facendo bene, più di quanto tu non creda», affermò convinto.
    «Cosa?!», esclamai allibita, «io non vedo l’ora che finisca, tutto questo casino!».
    «E perché? Per ritornare a chiuderti nel tuo bozzolo di certezze incrollabili, per ingessarti di nuovo nei tuoi modi di fare scocciati e scorbutici come se vivendo facessi un favore al mondo?».
    Più andava avanti, più tutto il mio coraggio e la mia rabbia scolorivano. Lo ascoltavo, lo ascoltavo davvero, e mi rendevo conto di quale terribile verità permeasse le sue parole di secondo in secondo.
    «La felicità non è una cosa che ci è dovuta, Sissi. Sta a noi crearcela, e se non ci riusciamo, quando viene dobbiamo afferrarla», concluse, guardandomi estremamente serio.
    Mi morsi un labbro, incerta. «Io… non mi sento affatto felice, però», annaspai.
    «Perché guardi dal punto di vista sbagliato. Forse non sprizzi gioia da tutti i pori, ma non ti ho mai vista così viva come da un paio di mesi a questa parte. Ed è merito di quei quattro, non puoi negarlo».
    Ero rimasta senza scuse. Spesso era inquietante sapere che c’erano due persone che mi conoscevano così a fondo, ma era altrettanto spaventosa la prospettiva di non avere nessuno con cui condividere i pensieri più intimi e chiedere aiuto in situazioni disperate.
    Annuii e restituii un sorriso remissivo, debole, ma sincero. Era il mio modo per dire che, d’accordo, accettavo ciò che diceva e gli davo ragione.
    Lo abbracciai stretto. «Ti voglio bene», sussurrai.
    Da quanto non glielo dicevo? Uno, due anni? Mi sembrò un tempo infinitamente lungo.
    «Anche io te ne voglio».

    Dopo aver parlato con Didi, mi sentii subito meglio. Più leggera. Era come se il peso che mi opprimeva proprio al centro del petto fosse sparito.
    Riuscii a fare colazione – alle undici e mezza del mattino – sentendomi quasi serena. Poi, riposi tutte le stoviglie sporche nel lavello e andai in camera, pensando a come occupare quella giornata. Avevo voglia di uscire, nonostante piovesse a dirotto. Avevo voglia di una di quelle lunghe passeggiate in solitudine che non mi concedevo da tempo, in cui pensavo fino ad annodarmi le cervella. Dopotutto, era ovvio che dopo il momento di apertura con Didi avessi voglia di stare da sola per raccogliere le idee.
    Aprii la finestra per far entrare un po’ dell’aria di febbraio. Il freddo pungente m’investì, ma con esso arrivò anche l’odore della pioggia: pulito, fresco, denso. Amavo quell’odore, sapeva d’inverno. Sapeva di casa.
    Decisi che mi sarei concessa un momento di pigrizia: mi gettai sul letto, presi il mio libro preferito, Jane Eyre, e mi immersi nel suo mondo. L’avevo letto decine di volte, ma non potevo far a meno di leggerlo di nuovo. Il personaggio di Jane era assolutamente affascinante: così determinato, a tratti impulsivo, diffidente, riflessivo, razionale…
    La storia di una ragazza che, rigettata dalla sua stessa famiglia, trova la forza di farsi una vita lontana da casa sua, e trova l’amore in un uomo scorbutico e dal carattere rude, che si rivela poi essere la metà perfetta per lei.
    Non ero così cieca da non ritrovarmi, se pur in piccola parte, in lei.
    Certe volte mi chiedevo chi sarebbe stato il mio Signor Rochester. La mia vita non era così vuota da farmi sentire il bisogno pressante di qualcuno a cui legarmi in modo profondo, ma a volte guardavo al futuro, cercando di immaginare come sarebbe potuto essere. Non mi vedevo nei panni della casalinga perfetta che accoglie il marito con un bacio e una fetta di torta al cioccolato.
    In quel momento mi tornarono in mente le esatte parole di Tom.
    Dimmi di che accidenti si può parlare con una persona asettica e incolore come te!
    In effetti, non ero proprio il simbolo del calore umano e della spontaneità. E mio padre mi aveva sempre ribadito che sarei rimasta sola, a causa del mio carattere spinoso.
    Ma perché investire il proprio tempo e la propria fiducia in un’altra persona?
    Me lo chiedevo spesso.
    Ero fermamente convinta che le persone fossero tutte egoiste e che la trasparenza portasse solo guai. Il mio rapporto con Bea e Didi non costituiva un’eccezione. Entrambi condividevamo molte cose, ma in fin dei conti ognuno aveva la sua vita, coltivava parti di sé che erano personali e basta.
    Quindi perché mettersi a nudo, se poi il risultato era solo altro dolore?
    Una fitta di disperazione mi strizzò il cuore, come se una tenaglia dentata lo stesse mordendo e stritolando.
    Mi dedicai alla lettura, cercando di scacciare la tristezza che era scesa ad opprimermi e riuscii ad accantonare pensieri che facevano troppo male per essere ricordati.
    La pace non durò a lungo, perché sentii lo stridio fastidioso del citofono. Dovevamo cambiarlo, ma sia io che Didi dimenticavamo sempre di andarne a comprare un altro.
    «Didi, vai tu!», urlai.
    Sicuramente era Bea che aveva dimenticato le chiavi. Era anche ora che si facesse vedere, dato che c’era stato un silenzio stampa per tutto il giorno prima.
    Ma la persona che comparve alla mia porta dopo sì e no un minuto non aveva affatto le caratteristiche di Bea. Bea non era così alta. Non aveva capelli neri e rasta bianchi, nemmeno indossava striminzite magliette con stampe gotiche che sbucavano da una felpa nera, e non portava cappellini da baseball.
    «Bill!», esclamai, sorpresa. Di tutte le persone che sarebbero potute venire, lui era proprio l’ultima che mi aspettavo di vedere. E come accidenti aveva saputo dove abitavo?!
    «Ciao…», pigolò lui. Si mordeva le labbra e si torceva le mani, seppur cercando di non darlo troppo a vedere. Non c’erano tracce di trucco sul suo viso.
    Mi squadrò da capo a piedi al di sotto della visiera del cappellino nero.
    «Ciao», riposi il libro sullo scaffale e lo guardai, stupita. Mi sembrava insensato alzarmi, o imbarazzarmi del fatto che fossi in un banalissimo pigiama blu, quindi non mi scomposi. «Che ci fai qui?».
    «Ehm… volevo solo parlare. Posso?».
    Tentennai meno di un secondo. «Certo… siediti». Indicai la sedia della scrivania di fronte al letto, miracolosamente libera dalle pile di vestiti abbandonati – ma solo perché avevo riordinato tutto il giorno prima.
    Bill ubbidì, sfregandosi le braccia con le mani. «Fa freddo qui… come fai a resistere?».
    Gli evitai tutta la spiegazione su quanto mi piacesse l’odore della pioggia e mi alzai per chiudere la finestra. Mi sedetti sul letto, sul bordo, in modo da essergli più vicina, ed incrociai le gambe. Il mio sguardo gli pesava addosso ed io ero curiosa di sapere cosa avesse da dirmi.
    Prese un profondo respiro. «Tom mi ha… raccontato».
    Alzai un sopracciglio.
    «Riguardo a ieri sera», chiarì.
    Oh. Allora aveva fatto una cosa giusta: aveva messo anche il fratello al corrente della loro illimitata stupidità gemellare.
    Bill sospirò di nuovo. E la scarica a mitraglia di parole cominciò. «Io mi sento terribilmente in colpa. Mi sento anche uno stupido in realtà. Ti ho trattata male senza che te lo meritassi, ma mi succede spesso, quando sono arrabbiato vedo solo ciò che voglio vedere e sparo a raffica sulle persone, ma sono pentito, davvero! E ora mi sento un perfetto idiota, perché non solo ti ho trattata male senza un motivo ma ho anche pensato che tu fossi così meschina da prenderci in giro tutti e due, per cosa, poi? Me lo chiedo anche adesso, e davvero non vedo un motivo plausibile, però mentre…».
    «Bill», lo interruppi per pietà verso il suo colorito che tendeva preoccupantemente verso il cianotico, «respira».
    Annuì e fece come gli avevo detto. Soffiò fuori aria gonfiando le guance.
    Ora ogni parola di Tom aveva un senso. Il malumore di Bill e le sue parole al vetriolo si spiegavano perfettamente. Senza che lo volessi si era andata a creare un’ingarbugliata matassa di equivoci e fraintendimenti, e un po’ era anche colpa mia. Avevo dato loro l’impressione sbagliata.
    «Dì qualcosa», mi pregò Bill, incassando la testa nelle spalle.
    Non mi risparmiai. «Beh, se sono chiamata a dire qualcosa, ti pregherei solo di pensare con la tua testa e di farti influenzare meno da tuo fratello».
    «Hai ragione», concesse Bill, «ma io e lui abbiamo un rapporto speciale. Mi fido di lui… non guardarmi così, fammi spiegare». La mia espressione doveva avergli dimostrato tutto il mio scetticismo riguardo alla fiducia da riporre in Tom. «Lui non è come si vende, in realtà è molto diverso. Quella che propone agli altri è solo una maschera».
    Stavolta non risposi. Capivo perfettamente cosa voleva dire Bill. Avevo visto degli squarci della personalità nascosta di Tom a casa di mio padre, quando era diventato insopportabile continuare a stare lì e lui mi aveva seguita, ma ugualmente non riuscivo a giustificarlo.
    Che razza di scusa era?
    «Io so che sono la persona meno adatta a fare questo tipo di discorsi, perché ufficialmente sono un egocentrico superficiale e viziato, ma… Elsa, conosco mio fratello. Si sente minacciato da te perché è raro che incontriamo una ragazza con del cervello, e per lui è una situazione nuova».
    «Basta». Ero stanca di tutto quel parlare, di tutto quel difendere Tom ad oltranza. Per natura, le persone che parlano molto mi hanno sempre irritata. E poi, che razza di spiegazione era? Tom si sentiva minacciato da me e quindi aveva il permesso di rovesciarmi addosso tutta la sua rabbia solo perché gli tenevo testa?
    Bill titubava. «E credo che tu gli piaccia». Da come lo diceva, sembrava una sconfitta personale.
    Io risi di gusto. «Bill, sei passato dal difenderlo al dire baggianate assurde. Risparmiatele».
    Rispose sbuffando. «Se solo gli prestassi un po’ più di attenzione, te ne accorgeresti anche tu».
    Non risposi.
    «Comunque… è tutto a posto?», cambiò argomento.
    «È tutto a posto», concessi. Mi chiedevo solo perché Tom non si fosse degnato di farsi vedere, ma almeno con Bill potevo assodare di aver risolto.
    «Ah, Tom non sa che sono qui, comunque».
    Pure.
    «Ehi, Bill!». Didi che comparve in camera stroncò ogni possibilità di risposta.
    Entrambi ci voltammo verso di lui, che si stava avvicinando per sedersi accanto a me.
    «Ciao, Didi», lo salutò Bill cortesemente, sorridendo. Ancora una volta, il suo sorriso sembrava tristemente plastico.
    «Scusami per le condizioni in cui ti ho accolto prima, ma ero appena uscito dalla doccia».
    Bill rise. «Non l’avevo capito!».
    Io già temetti il peggio. «Sei andato ad aprire nudo?!».
    «No, avevo l’asciugamano… quello azzurro puffo».
    «Quello straccetto striminzito!?», protestai allibita, conscia dello shock che Bill avrebbe potuto subirne. Per carità, Didi era un ragazzo fin troppo bello – come la maggior parte degli omosessuali, che tristezza –, ma se Bill si fosse lamentato, la casa discografica avrebbe potuto farci causa per “traumi psicologici alla gallina dalle uova d’oro”.
    «Non è successo niente, ho visto di peggio», ci interruppe ridendo.
    Bill aveva visto di peggio?
    Didi diede voce al mio pensiero: «in che senso?».
    «Fans che si denudano ai concerti e comunicano tramite ultrasuoni isterici, o le sconcezze scritte a caratteri cubitali sui cartelloni… dopo un po’ diventi indifferente a tutto».
    Ridemmo tutti.
    «Oh, che maleducato!», esclamò Didi ad un certo punto. «Bill, non te l’ho chiesto, ma vuoi qualcosa da mangiare? Da bere?».
    «La casalinga disperata assopita che è in lui ora riemerge», dissi, dando una spallata a Didi, a cui lui rispose ridendo.
    Quando tornai a guardare Bill, lo sorpresi a fissarmi, stranamente serio.
    «Sì, magari… non ho fatto colazione stamattina», rispose.
    «Allora potremmo…», cominciò Didi.
    «Elsa, Elsa, Elsa!».
    Tutti e tre ci voltammo verso l’uscio di camera mia – era l’ultima stanza del corridoio, ma era da sempre un porto di mare – e vedemmo un razzo biondo comparire nell’arco di cinque secondi. Bea aveva le guance e il naso arrossati come al solito, i capelli scompigliati, un po’ umidi a causa della pioggia, e un gran bel sorriso.
    Era forse una mia impressione, ma in quel periodo mi sembrava più serena e luminosa.
    Posò la borsa sulla scrivania con l’intenzione di rovistare all’interno, ma quando vide Bill, che la fissava con la stessa espressione scettica che probabilmente avevamo anche io e Didi, si arrestò, come se qualcuno l’avesse spenta.
    Voltò la testa verso di me, rimanendo con gli occhi fissi su Bill. «Elsa, ho le traveggole o c’è un Kaulitz seduto sulla tua sedia?».
    Didi si schiacciò le labbra per non ridere.
    «Sì, Bea, hai proprio le traveggole», dissi.
    Bill si morse le labbra, divertito anche lui. «Ciao, Bea».
    «Che ci fai qui?», gli chiese, ripetendo la domanda che gli avevo fatto io.
    «Bea!», la riprese Didi.
    «No, beh, è una domanda legittima», disse Bill. «Sono venuto a parlare con Elsa».
    Ma perché, perché l’aveva detto? Non poteva inventare una scusa?
    Non aveva idea di ciò che quelle poche parole avevano scatenato.
    Non feci in tempo a contrarre il mio viso in un’espressione sofferente, che vidi il viso di Bea comunicarmi la frase “dopo mi racconterai tutto, vuoi o non vuoi”, anche senza l’uso del linguaggio verbale.
    «Sono felice di vederti. Comunque», Bea riprese a cercare nella borsa e ne tirò fuori un foglio ripiegato, «ho una notizia sensazionale da darvi».
    Mi alzai per prendere il foglio che mi porgeva. Lo aprii con Didi che sporgeva il viso oltre la mia spalla per vedere anche lui, e cominciai a leggere.
    «Gentile Bea Bergmann, siamo lieti di informarla della vittoria del primo premio del corso di fotografia…», stavo cominciando a saltellare e l’entusiasmo si accendeva pian piano in me, «Die Aufregung der Reise…».
    Didi mi strappò di mano il foglio: «da’ qua, fai leggere me. La mostra dei lavori avverrà il primo marzo duemilanove a Berlino!».
    Saltai urlando insieme a Didi e corsi ad abbracciare Bea, che intanto stava spiegando a Bill di aver partecipato ad un concorso fotografico di paesaggistica. Bea non amava dirlo molto in giro, ma la fotografia era la sua passione.
    Restituì il mio abbraccio saltellando insieme a me.
    «Qual è il premio?», chiese Bill.
    Didi rispose prima di noi, leggendo ancora: «tremila euro e un soggiorno di una settimana per due persone a Nizza, a metà marzo. Cazzo, non ci avevi detto che era così importante!».
    Bea fece finta che la cosa non la toccasse. «Beh, sì, non è il primo concorso fotografico che passa», disse, controllandosi le unghie.
    Mi sentivo così felice per lei, e sapevo che anche lei lo era, a dispetto delle apparenze. Ed ero curiosa di sapere con chi sarebbe andata a Nizza.
    «Con chi ci andrai?», chiese Didi, che intanto era salito sul letto e ci guardava dall’alto.
    Presi appunto mentale di controllare le doghe.
    Bea guardò me e poi lui, finché Bill non intervenne. «Potresti andarci con Georg.», buttò lì con casualità. «A proposito, come è andata con lui ieri?».
    Una decina di sirene d’allarme prese a suonare nella mia testa. Il mio sguardo congelato scattava da Didi a Bea.
    «Ah, bene, a parte l’imbracatura antifan che portava, che complicava un po’ le cose, ma doveva, perché il posto era affollato… Comunque non lo so… è così impegnato con l’album, magari non vuole nemmeno venire», rispose lei.
    «Non ti preoccupare, tanto la sua preoccupazione più grande è quella di suonare le note che Elsa gli dice».
    Ecco spiegato il perché del silenzio di Bea per tutto il giorno prima.
    Che razza di storia era quella?!
    «Cosa c’entra Georg?», chiesi, chiamando in causa tutta la dignità e l’autocontrollo di cui disponevo.
    Bea si mostrò indecisa e vacillante davanti a quella domanda. «Stiamo uscendo insieme, da qualche tempo…».
    Stavano uscendo insieme?!
    «Ah», esalai, spaesata.
    Improvvisamente, mi sembrava che il mondo si fosse fermato. Mi sentivo congelata in quel frammento di tempo, sola con i miei pensieri che invece scorrevano veloci nella mia mente, come i fotogrammi di un film.
    L’aria mi sembrava più pesante.
    «Elsa, non farne una tragedia greca». Didi scese dal letto. «Bea, stavo per proporre di andare a mangiare fuori. Ti va di unirti, così festeggiamo?».
    «Volentieri, ho proprio fame», rispose lei.
    «Bene, allora lasciate che Elsa e io ci prepariamo, poi vi raggiungiamo», concluse lui.
    Io ero paralizzata al mio posto.
    Osservai Bea e Bill uscire dalla mia stanza chiacchierando, ed io ero soverchiata da tutte le paura che mi stavano sopraffacendo, secondo per secondo.
    Bea e Georg. Georg e Bea. Insieme.
    Questo significava che Bea sarebbe stata molto più tempo con lui, che con noi. Che con me.
    E si stava già verificando: Bea che sorrideva più spesso, che usciva con Georg e non mi metteva al corrente di niente, che passava un’intera giornata senza farsi sentire.
    «Finita la tragedia greca? Vedo i sottotitoli strappalacrime da qui», disse Didi, che aveva chiuso la porta e mi stava guardando, le braccia conserte.
    Lo guardai e realizzai. «Tu lo sapevi».
    «Sì, lo sapevo. Ed è proprio per questa tua reazione che sia io che lei non abbiamo voluto dirti niente».
    «Quale reazione?», domandai offesa. Avevo alzato la voce un po’ troppo.
    «Questa reazione da regina del dramma. E poi guardati, sembri un sarago lesso».
    Didi poteva dire quello che voleva, ma io mi sentivo mancare la terra sotto i piedi. Mi ricomposi subito e presi a rovistare nell’armadio, alla ricerca di un paio di stracci da mettere addosso. Ma mi rendevo conto che guardavo, guardavo, e in realtà non vedevo.
    Sentii Didi che sospirava. Mi si avvicinò e mi scansò, poi scorse i vari vestiti al posto mio. «Bea non è tua. Ha anche una vita al di fuori di noi, non possiamo impedirle di viverla».
    Mi mise in mano un paio di jeans scuri, che io afferrai senza esserne cosciente. «Non voglio impedirle di vivere», sussurrai con un filo di voce. Ma mi sentivo ferita e messa da parte. Come se mi avessero strappato a forza qualcosa di prezioso dalle mani. Subito dopo aver formulato quei pensieri, mi resi conto dell’immane stupidità del mio comportamento. Mi stavo comportando come una bambina, ma non potevo farne a meno: la prospettiva di perdere Bea mi terrorizzava.
    Svegliati, cocca. Non hai più bisogno della mammina che ti rimbocca le coperte.
    Ignorai quella voce.
    «No, ma ti comporti come se avessi l’esclusiva su di lei».
    «Io non ho l’esclusiva su nessuno», berciai incattivita, cominciando a spogliarmi. «E non mi sto comportando in nessun modo, è libera di fare ciò che vuole».
    Mentre mi spogliavo, sentivo lo sguardo di Didi pesarmi addosso, come se mi stesse respirando sul collo.
    «Sarà…», concesse lui. «Vado a cambiarmi».
    Non lo salutai nemmeno mentre usciva dalla porta e io mi vestivo. Lo feci con meccanicità, perché la mia mente era del tutto assente. Ma quando mi vidi allo specchio, quasi sussultai. Ero intrappolata in un paio di leggins marroni e una gonna di jeans lunga fino alle ginocchia che mi fasciava la vita e si allargava in morbide balze. E indossavo un maglioncino che riprendeva il beige delle rifiniture della gonna, dal cui scollo spuntava una camicia dello stesso punto di marrone dei leggins.
    Oddio, vestita così sembri appena uscita da un film della Disney, strillò allarmata una voce nella mia testa.
    Mi chiesi se fosse il caso di dare un nome a tutte le voci che popolavano il mio cervello, e contemporaneamente mi domandavo se fossi la principessa o la strega cattiva del film in questione.
    La mia mente non aveva dubbi: non potevo affatto essere una principessa. Io le avevo sempre detestate, poi, le principesse Disney. Degli aborti di ragazze, tutte sorrisini, mani delicate e abitini cuciti da topi, persone che non sapevano far altro che credere nei sogni e aspettare il principe azzurro.
    Biancaneve, al limite, puliva case immaginarie di nani sfigati e cantava specchiandosi nelle acque dei pozzi. Cenerentola, poi, aveva perso il padre buono ed affettuoso, era stata maltrattata in tutti i modi possibili dalle due sorelle racchie, dalla matrigna e perfino dal gatto, ed era rimasta uno zuccherino.
    Perfino da bambina io avevo odiato le favole. Erano pure bugie, somministrazioni di una realtà inesistente in pillole dorate, ed ero riuscita a capirlo nonostante avessi una mente illusa come quella di ogni bambina.
    Forse io non ero un esempio perfettamente calzante, dato che non ero mai stata obbligata ad inginocchiarmi per terra per pulire pavimenti, ma di soprusi ne avevo ricevuti a sufficienza, e non mi potevo definire esattamente l’incarnazione della dolcezza e della gentilezza. E poi non credevo nei sogni, tanto meno nel principe azzurro, e non avevo nemmeno l’aspetto impeccabile ed immacolato di una principessa.
    Semmai potevo sembrare una sorta di virago schizzata sull’orlo di un esaurimento nervoso.
    Ma guardandomi meglio mi resi conto che quasi non sembravo io. I capelli biondi ricadevano in lunghe e morbide ciocche sul petto, e senza i soliti ricci arrivavano fin sotto il seno. Gli occhi grandi e scuri erano risaltati dall’abbinamento con i colori dei vestiti, e conferivano dolcezza ai lineamenti del viso.
    Forse potevo essere una principessa un po’ anomala…
    Scossi la testa e impedii a quei pensieri stupidi di invadermi la mente un secondo di più. Infilai un paio di stivali beige – i colori neutri erano quelli che mi piacevano di più – e andai in bagno, non curandomi di chiudere la porta.
    Mi lavai i denti e il viso, mi spazzolai i capelli e decisi di essere pronta.
    «Elsa!», esclamò Bea quando feci il mio ingresso in cucina, gli occhi bassi per mascherare l’imbarazzo che provavo. «Ecco perché piove, hai deciso di vestirti come Dio comanda!».
    Sbuffai senza risponderle e presi dell’acqua dal frigo e un bicchiere dalla credenza.
    «Oh, Elsa!», proruppe Bill, all’improvviso.
    Mi voltai dopo aver versato l’acqua e lo vidi seduto al tavolo, le braccia conserte. «Sì?».
    «Ecco cos’hai di diverso, hai stirato i capelli! Non riuscivo a capire cosa avessi di strano, è tutta la mattina che cerco di arrivarci…».
    Feci un sorriso stentato e bevvi, voltando loro di nuovo le spalle.
    «Glieli ho stirati io venerdì, ci ho messo quasi tre quarti d’ora», disse Bea. «Però sono soddisfatta del risultato».
    «Sì, infatti sta benissimo. Quando viene da noi allo studio li lega sempre, non mi ero nemmeno accorto che fossero così lunghi».
    «Nemmeno io, prima. Da quanto tempo non li tagli, Elsa?».
    Feci rapidamente il conto a mente e riposi il bicchiere nel lavandino, sempre dando loro le spalle. «L’ultima volta è stata a luglio», risposi asciutta. Odiavo che si parlasse di me, specie in terza persona.
    «Non lo fare, sarebbe uno spreco», mi disse Bill.
    Mi voltai, poggiandomi con i palmi delle mani al bancone dietro di me. «Didi non è ancora pronto?», glissai.
    «Eccomi, eccomi, che impazienza», annunciò, comparendo sulla soglia. Era vestito sui toni del nero – si vestiva sempre di nero quando faceva particolarmente freddo – e si fermò a studiarmi con occhio critico.
    «Però…», commentò, guardandomi dalla testa ai piedi.
    Incrociai le braccia. «Quando hai finito la radiografia avvisami, passo a ritirarla», borbottai.
    «Non pensavo avresti acconsentito a vestirti così», disse, ignorandomi del tutto. «Sei molto bella».
    Strinsi i pugni. Io odiavo i complimenti, gentilezze e carinerie varie, perché non lo capiva?
    Calmati, Elsa. E conta fino a dieci.
    Feci un bel respiro profondo. «Dove andiamo?».
    «Oh, io ho in mente un bel posticino. Offro io», rispose Bea.
    Tutti acconsentimmo e decidemmo di andare con la sua macchina, per risparmiare carburante. Bea, tra le altre cose, era anche un’ambientalista.
    C’infilammo i giubbotti.
    «Faremo una bella corsetta sotto l’acqua», disse Bea, sorridendo.
    «Non ci sono ombrelli?», chiese Didi, guardando me.
    «Uno solo, quello nero e grande», risposi.
    «Basterà».
    Lo vidi prenderlo dal portaombrelli e seguire Bea al di fuori della porta. Stavo per fare la stessa cosa, quando sentii delle dita calde sfiorarmi il collo. M’immobilizzai, come se mi avessero tolto le batterie mentre ero in funzione. Percepii chiaramente le mani di Bill raccogliermi i capelli, sollevare il collo del mio cappotto e accomodarvi la coda all’interno con gesti lenti, come se un’operazione così semplice richiedesse un grande autocontrollo.
    «Così non perdono la piega con l’umidità di fuori», disse con voce tranquilla. Mi affiancò e mi sorrise, un po’ imbarazzato.
    «Grazie», dissi a denti stretti, poi seguii gli altri, che stavano aspettando l’ascensore.
    Mi aveva spiazzata. Nessuno di loro prima – Tom a parte – aveva infranto la barriera del contatto fisico. E di certo non mi sarei aspettata che lo facesse Bill, che era, a dispetto delle apparenze, il più reticente a muovere i primi passi verso una persona che non conosceva bene.
    Con il tempo avevo imparato a conoscere meglio ciascuno di loro, e Bill, oltre ad essere egocentrico, logorroico, perfezionista e assillante, aveva anche una gran paura di farsi conoscere.
    In ascensore con gli altri, mi chiusi in un silenzio riflessivo. Una parte del mio cervello registrava i loro chiacchiericci, ma un buon ottanta percento era impegnato a rielaborare i dati, che sembravano cresciuti a dismisura. Bill mi aveva turbata e innervosita, con quel gesto. Ma non ero sicura che fosse una sensazione negativa.
    «Okay, pronti per la corsa?».
    La voce di Bea, la più alta, mi riportò alla realtà: eravamo usciti dal portone ed indugiavamo sotto la tettoia che sporgeva dal muro. Il cielo era plumbeo e pioveva a dirotto, i bordi della strada erano sommersi di spessi rivoli d’acqua.
    Didi si aggrappò all’asta dell’ombrello che aveva aperto Bea. «Ci faremo la doccia».
    «Stai bene?», mi chiese Bill a voce bassa, per quanto poteva consentire la vicinanza estrema di tutti.
    Mi infilai il cappuccio e risposi automaticamente: «sì».
    «Via!», esclamò Bea e ci esponemmo in gruppo al diluvio di quel giorno. I nostri piedi facevano schizzare l’acqua: cercavamo di camminare sulle punte, ma il risultato era che le goccioline zampillavano maggiormente.
    Quando c’infilammo in macchina, avevamo tutti i piedi bagnati fino alle caviglie.
    «Come cazzo ti è venuto di parcheggiare così lontano?», berciò Didi.
    «Il tizio del carro attrezzi mi ha detto che non poteva spostare le macchine da sotto casa vostra, quindi Sua Maestà vorrà scusarmi!».
    Riuscii a sorridere e Bill a ridacchiare, mentre Bea avviava il motore e il riscaldamento.
    «Sei più schizzinoso del solito oggi», osservò lei.
    «Ma se non ho detto niente!».
    «Non è che sei andato in bianco ieri?», continuò Bea con un sorriso furbo.
    Mi sporsi tra i sedili e osservai Didi sbattendogli in faccia le ciglia. «Al contrario, stamattina l’ho trovato a dormire quasi nudo. Pensa a quanto dev’essersi stancato, ieri, e quanto tardi è tornato…».
    La sua espressione cambiò subito: sorriso scaltro, occhi turchini assottigliati, fissi su un punto impreciso nel vuoto, come se stessero contemplando altri panorami…
    Mi schiacciai le labbra, soddisfatta, e mi appoggiai alla spalliera dei sedili. «Come volevasi dimostrare».
    «Però contieniti, accidenti. Se devi immaginare film pornografici, fallo con discrezione», intervenne Bea, con la sua solita vena sarcastica.
    Non aggiunsi niente al commento di Bea come invece avrei fatto di solito. Voltai il capo verso Bill, vidi che stava appuntando qualcosa su un blocco di post-it gialli. Immaginai che avesse tirato fuori carta e penna dalla sua firmatissima borsa Gucci.
    «Cosa scrivi?», chiesi, avvicinandomi.
    «Una frase che mi è venuta in mente adesso».
    «Posso?». Sapevo che a Bill dava fastidio che qualcuno leggesse i suoi appunti senza il suo permesso.
    Indugiò un attimo, rileggendo le poche righe che aveva scritto. Poi annuì.
    Mi avvicinai con la testa, in modo da decifrare la sua scrittura spigolosa e lessi.
    Rain falls, don’t touch the ground. You say I’m fixed, but I still feel broken. I’m not lettin’ go…
    Non chiedevo mai a Bill il significato dei suoi testi, né perché a volte preferisse scriverli direttamente in inglese. Tuttavia mi chiesi come mai gli fosse venuta in mente una frase del genere proprio in quel contesto.
    «Ho solo appunti sparsi per questa canzone. Non riesco a ricomporli, ma so che fanno tutti parte di uno stesso testo», commentò, lo sguardo fisso sul foglietto.
    «Possiamo lavorarci», concessi.
    «Grazie per l’onore», ridacchiò, poi si fece subito di nuovo serio. «Sai, la casa discografica ci ha fatto sapere che vuole l’album per l’inizio della primavera. Non ce la faremo mai, abbiamo chiesto più tempo… e i fans sono già impazienti».
    Si stava innervosendo, lo vedevo. Cominciava ad agitare le mani e a guardare fuori sbuffando. Lo lasciai parlare.
    «Non lo so, certe volte penso che tutto questo sia più grande di noi, che finirà per inghiottirci. Da fuori è tutto bello e luccicante, ma quando ci sei dentro ti senti solo un viso pubblicato sui cartelloni, sulle cover dei CD, sui giornali… finisci per perdere il contatto con te stesso. Tom non ci pensa molto, lui si gode i momenti, e Gustav e Georg sono i meno sensibili a questo genere di cose… ma io ci penso spesso, e più ci penso, più sono spaventato. Certe volte arrivo anche a considerare che ciò che abbiamo non valga tutto quello che ci è stato tolto…».
    «Bill», interruppi bruscamente quella serie di riflessioni primordiali, «tu credi che la vita quotidiana delle persone ordinarie sia tanto diversa?».
    «Non lo so», sussurrò sinceramente, gli occhi fissi al di fuori del finestrino. «Non me lo ricordo».
    «Gli stronzi ci sono dappertutto, nel mondo dello spettacolo, come in quello dei comuni mortali. Bisogna guardarsi le spalle ovunque, perché le persone sono tutte uguali, dappertutto».
    Mi puntò gli occhi addosso, in un modo che raramente gli avevo visto usare. Quel modo di fissare la gente era più tipico di Gustav, che guardando riusciva a carpire gli stati d’animo e i pensieri dei suoi compagni. E miei.
    «Tu non sei come tutte le altre persone», disse a voce bassa, come se non volesse farsi sentire.
    Mi sentii di nuovo turbata, ma il mio istinto mi diceva di non indagare.
    Non ringraziai, perché per me quello non era un complimento.
    «A volte è meglio esserlo…», mi lasciai sfuggire, giocherellando con un anello della mia borsa.
    «Perché dici questo?», indagò incuriosito.
    «Perché quando tutte le brutture sfuggono si è più felici».
    «Ma è una felicità falsa. È come essere ciechi», controbatté. «Non vedi le ombre, ma nemmeno i colori».
    Sorrisi appena, pensando che certe volte le ombre erano più numerose dei colori.
    «Ehi, voi due là dietro!». La voce di Didi che si era voltato a guardarci ci fece sobbalzare entrambi. «Non vi state deprimendo con discorsi sulla vita e il suo senso, vero?».
    Bill simulò una risata breve.
    «Di qualsiasi cosa stiano parlando, devono smettere perché siamo arrivati», ci informò Bea.
    Sbirciai subito al di fuori del finestrino. Eravamo nella Börsenbrücke-Straße, una delle strade centrali di Amburgo. Bea stava parcheggiando proprio di fronte ad un rinomato pub irlandese, che nasceva accanto ad un supermercato aperto notte e giorno. Solo l’ingresso lo rendeva riconoscibile: in un palazzo quasi del tutto grigio e bianco, era l’unico con i battenti sporgenti e l’insegna in legno scuro, e dei vasi di piante curate stazionavano davanti alla vetrina.
    «Finnegan’s Wake», lesse Bill, sull’insegna. «Non ci sono mai stato».
    «È un pub molto carino», spiegò Bea. «La sera si ascolta musica dal vivo e si mangia anche bene».
    «L’unica pecca è il personale un po’ scontroso. Non ci veniamo da una vita», commentò Didi.
    «Pronti a ripetere la scena dell’entrata in macchina?», domandai.
    «No», risposero tutti in coro.
    «Bene, andiamo».
    Ci armammo di buona volontà e replicammo esattamente i movimenti dell’andata, fino a trovarci all’interno del pub. Era un locale notturno, per lo più, ma serviva anche del cibo di giorno. Chiamarlo ristorante era eccessivo.
    Bill si guardava intorno, e anche io. Erano cambiate un po’ di cose dall’ultima volta che c’ero stata. Ogni cosa era in legno. Dagli scaffali pieni di bottiglie colorate, al bancone dietro cui c’erano due ragazzi che pulivano bicchieri alti dalla forma allungata, al pavimento, perfino i tavoli e le sedie che occupavano la saletta alla nostra destra lo erano. Dal soffitto pendevano dei lampadari in ottone, che ricordavano vagamente le forme di una campana, e qua e là c’erano stemmi ed emblemi tipici dei locali d’oltremanica. Gli unici elementi che stonavano erano le televisioni al plasma che sovrastavano gli scaffali, fissate al muro, in modo che chi si appoggiasse al banco potesse vederle semplicemente alzando lo sguardo.
    «Dobbiamo sederci?», chiese Bill.
    «Vuoi mangiare in piedi?», chiese Bea, imbarazzandolo visibilmente.
    Didi volse lo sguardo al cielo e gli fece segno di lasciar perdere. Nella saletta, scegliemmo il tavolo più appartato, in modo da non attirare l’attenzione su Bill, che con i rasta bianchi e la corporatura snella e molto slanciata non passava inosservato.
    Sistemammo i cappotti e le borse sulle sedie e ritornammo al bancone per pagare. Io ordinai per prima, guidata dal menù che stava affisso dietro la cassa: optai per una porzione di Irish Stew, Didi preferii una porzione a base di pesce – ironia della sorte – con del pane alle noci, e Bea volle provare il Roastbeef. Ci sforzammo tutti e tre di non ridere quando Bill ebbe qualche problema su cosa prendere, a causa della sua dieta vegetariana, ma poi ripiegò su una zuppa di verdure fresche. Fu il turno delle bibite. Su quell’argomento ci trovavamo sempre tutti d’accordo: Weiss Dunkelweizen Bier, sempre. Saltammo a piè pari il secondo e ordinammo il dessert: per me un rotolino dolce al pandispagna e cioccolato, chiamato Pumpkin & Cream Cheese, un po’ di torta al Bailey’s per Bea, e per Bill e Didi un po’ di Whiskey Pie, una torta servita con crema di whiskey e panna.
    Bea pagò, ricevemmo lo scontrino e riuscimmo ad avere le nostre ordinazioni, poi ci spostammo di nuovo al tavolo.
    «Immagino che sia abituato a posti diversi, vero, Bill?», chiese Didi, staccando un pezzo del suo pane alle noci.
    «No», rispose dopo aver assaggiato la zuppa. «Di solito mangiamo nel tourbus, pizza o pasta, quando ci va bene. Tom sa cucinare solo pasta al sugo, certe volte ne fa così tanta che il sugo ci esce dal naso. Oppure siamo costretti a mangiare in ristoranti superlussuosi, che ci costano quanto un occhio della testa, solo per avere la sicurezza di non essere aggrediti dai fans, che ci scovano ovunque…».
    Tutti lo ascoltavamo parlare in silenzio. Purtroppo io conoscevo quell’aspetto della loro vita. Mi era capitato un paio di volte di vedere ragazze che si aggiravano nei dintorni dello studio di registrazione, armate di macchine fotografiche, e Gustav mi aveva anche parlato degli episodi di stalking che si stavano verificando.
    «E come fate quando dovete… che so, uscire, andare in giro?», azzardò Bea.
    «Non usciamo», rispose semplicemente. «O lo facciamo per pochi minuti, sempre tallonati dalle guardie del corpo. Non c’è mai un momento in cui siamo realmente soli».
    Sospirai, mentre masticavo. Ascoltare quei discorsi mi turbava sempre.
    «Però con noi non ti hanno mai beccato», intervenne Didi.
    «No, il che è strano. Solitamente ci riconoscono dappertutto, ad ogni ora del giorno. Certe volte vorrei… lasciare tutto, pur di ottenere un po’ di normalità, però d’altra parte so che non ce la farei. È come una dipendenza, fa male ma non si può vivere senza…».
    «E basta!», sbottai, annoiata e vagamente nervosa.
    Tutti gli occhi scattarono su di me.
    «Non va bene essere troppo normali, esserlo troppo poco, essere troppo ricercati, non esserlo affatto… che lagna! Ma fatevi un giro nel mondo reale!».
    Bill sbatté le ciglia, offeso. «Ma… come ti permetti? Parli come se fossi tanto più saggia di noi, come se conoscessi tutto del mondo!».
    «Elsa…», cominciò Didi, per cercare preventivamente di trattenermi, ma non lo ascoltai.
    «Non è questione di età o saggezza, il punto è che chiunque tu sia, ovunque tu sia e qualsiasi cosa faccia, lo prendi sempre in quel posto, prima poi. È così che gira il mondo. E non serve ad un accidente farsi le abluzioni nelle lacrime, si tira avanti cercando il più possibile di arginare i danni».
    Anni e anni di presenze forzate e autocontrollo lo costrinsero a rimanere seduto al proprio posto, ma era lampante che volesse piantare tutto e andarsene.
    «Beh, beata te che ci riesci!», mi rispose incattivito.
    «E pensi che sia stato facile imparare? Ci facciamo i conti tutti, chi prima e chi dopo, e nessuno può permettersi di sprecare tanto tempo a piangersi addosso».
    Strinse un pugno sulla tovaglia e si chiuse nel silenzio, gli occhi fissi sul piatto di zuppa.
    Didi mi lanciò un’occhiataccia che non m’intimidì affatto, poi parlò: «quello che Elsa sta cercando di dire è che è normale avere momenti di sconforto, ma non dobbiamo farci abbattere».
    Schioccai la lingua. Ero sempre stata contraria a quelle versioni edulcorate della realtà, pronte come le pappe per bambini.
    Man mano che il nervosismo cresceva, la mia voglia di una sigaretta aumentava in modo direttamente proporzionale.
    «Vado a fumare, scusate». Presi il pacchetto dalla borsa e uscii in strada, protetta dalla copertura dei battenti sporgenti del bar.
    Me l’accesi e aspirai nervosamente.
    Volevi tirarlo su di morale, no? Bel lavoro, ragazza.


    Edited by Monique; - 25/5/2010, 16:53
     
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  15. .Enigmatic
     
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    Okay, sono arrivata fino alla fine e non me ne sono neanche accorta, te lo posso assicurare!
    Dunque, cominciamo con la prima scena che mi ha divertito da morire.
    Il modo in cui Elsa sveglia Didi con la sua estrema dolcezza è magnifico.
    Adoro sempre di più quel ragazzo; è così tenero ma schietto, sempre pronto ad aiutare Elsa o a riportarla con i piedi a terra quando ce n'è bisogno. Ed i loro scambi di battute sono esilaranti.
    Come ti ho già detto, anche a me piacerebbe avere un amico del genere ed in Elsa ritrovo parecchio di me stessa.
    Il suo atteggiamento così, a volte, chiuso, altre duro ma che poi nasconde tanta fragilità rispecchia molto il mio e quindi questo mi permette di comprenderla maggiormente.
    Il suo voler negare a tutti i costi un'evidenza - del quale anche lei si rende conto - che le potrebbe far male.
    Insomma, sono tutte cose che apprezzo come tu le stia raccontando.
    Purtroppo le persone così fanno anche fatica a piegarsi, vuoi per orgoglio, vuoi per vergogna, ma spero che lei ci riesca col tempo.
    Il fatto che Bea stia uscendo con Georg mi lascia piacevolmente sorpresa. Anche se non ho ben capito il motivo per cui non l'abbia detto ad Elsa.
    Da una parte capisco la reazione di quest'ultima, nel venire a saperlo.
    E' comprensibile che una persona che tiene particolarmente ad un suo amico si senta come "minacciata" dall'entrata di estranei nella sua vita.
    E' come se le certezze che si hanno fino a poco prima venissero completamente distrutte; è un pò egoistico dirlo, ma è come se si volesse avere un amico caro solo per sè e non dividerlo con nessun altro, diventando in questo modo possessivi.
    Si ha paura che tutto possa cambiare, che il 100% del tempo che ci viene dedicato cali ad un 50-30% ed è più che normale.
    D'altra parte ha ragione Didi: ognuno ha la sua vita e deve anche essere in grado di prendere decisioni riguardo essa; non si può vivere sempre a seconda di come qualcun altro potrebbe reagire, perchè si sa, niente è per sempre.
    Anche un'amicizia potrebbe finire - si spera sempre di no, ovvio - ed una volta che accade non ci si può pentire delle scelte che si è fatte.
    Non appena ho letto che è suonato il citofono, ho subito pensato che fosse Bill - nonostante io sperassi fosse Tom -; non so, me lo sentivo che ci sarebbe stato un chiarimento prima o dopo.
    E' palese che anche Bill sia attratto da Elsa, oltre a suo fratello, e personalmente anche io mi sentirei un attimo a disagio come lei.
    Il punto è, chi avrà la meglio? Se ci sarà qualcuno che l'avrà, chiaro.
    E poi, qualora le cose dovessero diventare più serie, voglio proprio vedere come si comporterebbero i gemelli tra di loro.
    Penso ci sarebbe competizione, ma nulla è certo.
    L'ultima scena mi è piaciuta molto (che novità!).
    Il fatto che Elsa abbia risposto a quella maniera a Bill non è stato un male.
    Insomma, sbagliato il modo, non del tutto errato il concetto.
    Certo, si possono avere cali - psiclogicamente parlando -, è normale, siamo tutti umani. Ma come ha detto lei: è inutile piangersi addosso; non risolve assolutamente le cose, anzi le rende ancora più insopportabili di quanto già sono.
    Ora però sei riuscita a triplicare la mia curiosità e non vedo l'ora di scoprire cosa la tua mente meravigliosamente diabolica ha in serbo per noi. Lo sai che ieri mi hai fatto venire un casino di dubbi! Ma la conclusione a cui sono arrivata è: non farti troppe domande, leggendo lo scoprirai.
    Bene, dopo questo poema epico, direi che posso anche evaporare.
    E non ti preoccupare se ti escono fuori capitoli lunghi; sono sempre più piacevoli da leggere.
    Penso non ci sia altro da aggiungere; che adoro il modo in cui scrivi e che ti stimo tanto già lo sai. Te lo ripeto tutti i giorni!
    Quindi me ne vo!
    Bravissima!
     
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