Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Potrei postare il capitolo 7, ma l'8 è ancora in fase di lavorazione e sicuramente ci metterei una vita a finirlo, quindi pazientate per favore... T_T
     
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  2. .Enigmatic
     
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    Ok, donnaH, paziento
     
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  3. Monique;
     
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    Brava ragazza
     
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  4. .Enigmatic
     
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  5. KLEINE ENGEL
     
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    up ù.ù shu shù tu e le tue stramaledette firme ç_ç
     
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  6. .Enigmatic
     
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    Ahahah, shu shù, non mi crepare xD
     
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  7. .Enigmatic
     
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    up.
     
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  8. KLEINE ENGEL
     
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    CITAZIONE (.Enigmatic @ 16/5/2010, 02:49)
    Ahahah, shu shù, non mi crepare xD

    se crepo è colpa tua e mi avrai sulla coscenza ù.ù
     
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  9. .Enigmatic
     
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  10. KLEINE ENGEL
     
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    up ù.ù
     
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  11. .Enigmatic
     
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  12. Sarè <3
     
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  13. Monique;
     
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    Bene, eccomi di nuovo, con un nuovo capitolo.
    Spero sinceramente che vi piaccia, dato che è uno dei più importanti finora - finora - e tengo particolarmente ad un vostro parere spudoratamente sincero.
    Devo dire, sono comunque fiera delle mie lettrici che mi fanno sempre commenti molto belli, quelli che mi gratificano di più, quindi questo capitolo lo dedico a voi.
    Un bacio, Moni.

    Capitolo 7

    «Oh, Elsa! Ma guardati, sembri depressa!».
    Bea poteva scalpitare quanto voleva, io ero depressa.
    O forse no.
    No, ero più preoccupata che depressa.
    «Non è vero», mugugnai sovrappensiero, masticando un qualcosa dalla consistenza gommosa presa da un sacchetto aperto. Dovevano essere liquirizie salate. «Ma la situazione mi sta sfuggendo di mano».
    Ero a casa di Bea, precisamente sul tavolo della sua cucina, dopo l’ennesima, estenuante giornata allo studio di registrazione. Da qualche giorno avevo l’impressione che le ore con i ragazzi si fossero dilatate.
    La vidi risbucare dalla porta del corridoio mentre si legava i capelli in una coda disordinata, vestita di una maglia di flanella rosa e un paio di pantaloncini di cotone, perfettamente in linea con il suo paradossale stile d’abbigliamento.
    «Mi spieghi perché, con tutte le sedie che ci sono, tu debba appollaiarti proprio sul mio tavolo?», mi chiese, marciando spedita verso il frigorifero.
    Infilai in bocca un'altra liquirizia. «Solo quando tu mi spiegherai perché ti vesti come se fosse contemporaneamente inverno ed estate».
    Chiuse il frigo con aria scocciata. «Allora spiegami un’altra cosa».
    «Prego», dissi, masticando.
    Si appoggiò al frigorifero, braccia incrociate ed espressione furba. «Come mai, se si tratta solo di lavoro, ti fai buttare giù così tanto?». Mi sfarfallò in faccia le lunghe ciglia bionde.
    Ingoiai e deviai il suo sguardo. «Si tratta di lavoro, infatti. Non riesco a lavorare in un’atmosfera così negativa».
    Annuì con aria pensosa e spense il televisore, poi si accomodò sul tavolo accanto a me, i piedi poggiati su una sedia. «Dopo l’episodio del bar, è successo qualcos’altro?», mi chiese.
    «Sì», risposi. «È una settimana che Bill mi evita. Prima, bene o male, riuscivamo a parlare, adesso non si lascia più avvicinare. È sfuggente, scivoloso, e oggi era perfino reticente a farmi leggere un testo. Alla fine si è rifiutato. E non era mai successo, in…», feci velocemente il conto a mente, «un mese, praticamente». Sospirai, quasi schiacciata dal peso di quella situazione. Non riuscivo a crederci, ma mi faceva davvero, davvero male. «Non so cosa fare, di questo passo non riusciremo più a produrre un bel niente».
    Bea mi sorrise, pescando una liquirizia salata dal pacchetto. «Bill sarebbe la diva dall’arruffamento facile?», mi chiese.
    Sorrisi anche io al suo appellativo, mestamente. «Proprio lui».
    «Mhm. E del fratello che mi dici?».
    Oh, altra bella pelliccia. «È sempre più stronzo».
    Ridacchiò. «Tutto qui?».
    «Beh, forse no», dissi, pensandoci un attimo. «È successo qualcosa tra quei due, hanno litigato… poi non lo so, è tutto un casino…». Mi presi il viso tra le mani, mugolando lamentele in una lingua che non capivo nemmeno io.
    Li odiavo, li odiavo per quanto mi stavano incasinando la vita. Quei due gemelli erano più complicati di un maledetto rebus!
    «In poche parole, non sai cosa fare».
    «Hai centrato il punto», biascicai, ancora seppellita nelle mie mani.
    Bea me le strappò via dalla faccia, tirandomi dai polsi, e vidi il suo viso, la sua espressione compassionevole. Mi osservava come una madre che guarda la propria figlia alle prese con problemi di cuore. M’irritai a morte a quel pensiero, orgogliosa com’ero, ma avevo bisogno di un consiglio. Strano, ma proprio io, che mi ostinavo a fare tutto da sola, ero stata mandata in crisi da un paio di poppanti.
    Mi concentrai sulle sfumature verdi dell’ombretto di Bea, per scacciare quei pensieri. Aveva messo anche la matita blu, per far risaltare il colore cristallino degli occhi grandi e azzurri. Le stava benissimo.
    «Sei truccata malissimo», mugolai, ben conscia del fatto che rivolgermi in quel modo ai miei due amici più cari era il mio modo di fare i complimenti.
    «Grazie. Ci serve un piano».
    La fissai aggrottata, portandomi i capelli all’indietro con una mano che avevo liberato dalla presa di Bea. «Un piano?».
    «Sì. Anzi, no».
    «Deciditi…».
    Balzò giù dal tavolo e si diresse alla dispensa della cucina, stramba quanto lei. Era rossa e bianca, una di quelle cucine ultramoderne che occupavano meno di un minuscolo spazio vitale, ma poco funzionali e difficili da pulire. Lei riusciva sempre a tenerla in ordine, comunque, e non avevo mai capito come facesse. Aprì uno sportello e ritirò il braccio impugnando una bottiglia di vodka dal collo, poi saltellò fino alla credenza. La aprì con due dita, ne tirò fuori due bicchierini rosa e posò con decisione sul tavolo il tutto.
    «Stanotte dormi qui», decise, con un tono che non ammetteva repliche. La guardai sorridendo, mentre afferrava un telecomando grigio abbandonato sul divano. Tese il braccio verso l’impianto stereo incastrato nel mobile sotto la televisione, un sorriso che le circumnavigava la faccia. «Adesso, noi affrontiamo questa situazione per il verso giusto e risolleviamo il tuo morale».
    Premette un pulsante e le note dell’intro di Apocalypse please dei Muse riempirono la cucina, prima a volume basso, poi sempre più alto, fino a bombardare le orecchie nostre e, con molta probabilità, anche dei vicini. Non importava che fossero le otto di sera.
    «Sono d’accordo». Afferrai il collo della bottiglia e svitai il tappo, versando del liquido denso e trasparente nei due bicchierini. Gliene porsi uno e presi il mio.
    Bea salì su una sedia e si mise una mano sul cuore, levando l’altro bicchiere in aria. «Elsa Gabriella Fränze…».
    «Aspetta!», la interruppi. Mi tolsi le scarpe e mi misi in piedi sul tavolo, mentre lei mi guardava contrariata per aver interrotto il suo rituale. «Prima di dire qualche stupidaggine, accertiamoci di essere ubriache, così avremo una scusante se qualcuno ci sente o ci vede».
    Mi guardò come se avessi avuto un’idea geniale. «Giusto! Allora, alla salute!», levò di più il bicchiere in alto.
    «Per ora», precisai, ed entrambe bevemmo tutto d’un fiato.
    L’alcool mi bruciò la gola, scese con difficoltà lungo l’esofago, togliendomi il fiato per un secondo. Mi diede dritto alla testa. «Cazzo, se è forte!», esclamai.
    Bea aveva fatto lo stesso, e si teneva una mano sulla gola, tossendo leggermente. Si riprese quasi subito, scuotendo la testa.
    «È una meraviglia. Ancora», e mi porse il bicchiere.
    Un’ora e mezza dopo la bottiglia di vodka era quasi vuota, e noi avevamo abbondantemente superato la soglia della lucidità. Bea rideva come una forsennata, seduta per terra, usando il divano come schienale, io ero accanto a lei che la seguivo a ruota.
    Tutto mi appariva ridicolo, la vista mi si appannava immediatamente anche se provavo a mettere a fuoco le cose più vicine. L’argomento di quel delirio etilico era virato sul deprimente, eravamo finite a parlare delle nostre vicende sentimentali andate male.
    «Oddio, in quinta c’era stato quel coglione, quel Frederick…», Bea dovette interrompersi, scossa da un violento attacco di risa che la portò a piegarsi di lato, fino a toccare il pavimento. «Oddio, stavamo studiando insieme a casa sua, mi stava chiedendo di uscire…», si fece aria con le mani, il viso paonazzo, «e poi mi ha starnutito addosso!».
    Ridemmo entrambe, a volume altissimo, tanto da soverchiare perfino Crying shame, la canzone che stavamo ascoltando.
    «Ma che minchione!», risi così tanto forte che mi mancò l’aria, e dei puntini bianchi apparvero ad intermittenza nel mio campo visivo. «Mai come quel coglione di Tom, che prima mi bacia e poi vomita!», aggiunsi. Ubriaca marcia com’ero, ripensare a quella situazione mi faceva ridere tanto da sentire i crampi alla pancia.
    Bea urlò, esultando, e alzò un pugno in aria, la maglia inzuppata della vodka con cui entrambe ci eravamo spruzzate, neanche fossimo state in estate. «Lo sapevo! Lo sapevo che vi eravate baciati!».
    Ridemmo di nuovo, piegandoci in due. La mia guancia si poggiò su qualcosa di freddo e bagnato di un liquido appiccicoso, che scoprii essere il pavimento dopo qualche secondo di ragionamento.
    «Oh!», esclamò Bea dopo un po’.
    Mi spostai i capelli unti dal viso e la guardai, riuscendo finalmente a respirare. «Cosa?».
    «Non abbiamo pensato alla tua soluzione!».
    «Cazzo, è vero!».
    «Ora ce ne occupiamo». Salì su una sedia, scalza, e riuscì a mettersi in equilibrio grazie ad un miracolo.
    Il pensiero che potesse cadere e rompersi qualche osso mi fece ridere tanto da farmi salire le lacrime agli occhi, e la sua risata mi seguì, probabilmente perché ci stava pensando anche lei.
    «No, facciamo le persone serie», disse poi, sforzandosi al massimo di non ridere.
    Annuì e mi misi in piedi pure io, reggendomi allo schienale di una sedia.
    «Prendimi quella».
    Mi ci volle qualche secondo per capire che si riferiva alla bottiglia, ma l’afferrai e gliela passai. Come prima, Bea la levò in alto e si posò una mano sul cuore, cercando di simulare un’aria solenne. Non ci riusciva molto bene, perché la sua bocca si ostinava a deformarsi in un sorriso e gli occhi le si riempivano di lacrime.
    «In virtù del…».
    «Ma che cazzo di modo di dire è “in virtù”!?», la interruppi, ululando di nuovo dalle risate.
    Anche lei si lasciò sfuggire un verso, ma cercò di rimanere seria. «Stai zitta, mi deconcentri! Dicevo, in virtù del sacro legame…».
    «Il sacro legame!».
    «…che ci lega all’alcool, tu, Elsa Gabriella Fränze, da lunedì ti farai solennemente i cazzi tuoi, ti toglierai dalla testa gemelli e costellazioni varie ed eventuali, e ti troverai un uomo normale, carino e, soprattutto, che sia adatto a te… anche se dovremo mandarti in orbita per trovarlo, perché di sicuro sulla Terra non esiste!».
    Mi accasciai sul tavolo, battendo ritmicamente un pugno sulla superficie di marmo. Anche lei si mise seduta sulla sedia, ridendo, e si posò un braccio sugli occhi, l’altro abbandonato lungo il fianco. Lasciò cadere la bottiglia a terra, che rotolò in circolo.
    Ebbi un flash. «Ma dobbiamo scrivercelo, altrimenti non lo ricorderemo domani!». Arrivai barcollando vicino al frigorifero, staccai la penna magnetica e scarabocchiai qualcosa sul primo post-it giallo del blocco, attaccato allo sportello.
    In quel momento sentimmo un rumore metallico e aspro, che si ripeteva insistentemente e che nella mia testa si amplificava di diverse migliaia di volte.
    «Chi minchia è?», domandò Bea.
    «Abbassa quel volume e vediamo», biascicai, inciampando nelle parole. Mentre camminavo a passo malfermo verso la porta, il volume si abbassava. Il rumore metallico cessò quando la aprii, e mi trovai davanti una signora in camicia da notte, piuttosto anziana, bassa e tarchiata. La faccia tonda e rugosa era nascosta da una spessa sostanza verde pisello, e aveva inquietanti capelli rosso fuoco.
    Mi faceva ridere. Trovavo ridicolo perfino il suo puntellarsi i fianchi con le mani rugose.
    «Beh?! Cos’avete aperto qui, il circolo degli alcolisti anonimi? Cos’è, un’orgia di gruppo? Un nuovo colpo di testa?», urlò infuriata, la voce stridula.
    La guardai per un secondo, cogitabonda. Poi scoppiai a ridere. «Oh, signora, se volessi fare un colpo di testa, andrei di filato dal suo parrucchiere!», mi premetti un braccio sulla pancia per le risa e chiusi la porta, spingendola con la schiena. Una volta chiusa, mi lasciai scivolare, nascondendo il viso tra le ginocchia.
    Appena riuscii a respirare regolarmente, le strinsi al petto e cominciai a piangere.

    Dolore. Dolore, dolore, dolore.
    Non mi sentivo più la testa, ormai, tutto era un pulsare sordo e doloroso. Sensazione primaria.
    Sensazione secondaria: sempre dolore, ovviamente, ma al fondoschiena e lungo tutto il fianco destro. Aprii gli occhi per capire da cosa fosse provocato almeno quello, dato che il primo era sicuramente dovuto all’alcool.
    Ero per terra.
    Quindi ero più a pezzi di un muratore perché avevo passato la notte sul pavimento. Biascicai qualcosa che assomigliava al rantolo di un cane bastonato e mi portai una mano al viso.
    Ma ero tutta appiccicosa! E i miei capelli erano un ammasso di stoppa incatramata!
    Mi misi in equilibrio sulle ginocchia e la stanza vorticò intorno a me. Dovevo aver bevuto oltre il limite la sera prima, perché mi sentivo più male del solito. Infatti, misi a fuoco tre bottiglie di vodka vuote, abbandonate sul pavimento. E misi a fuoco anche la figura di Bea, distesa sul divano.
    Lurida egoista! Io mi ero spaccata la schiena e lei si era messa comoda sul divano.
    «Prima che pensi che abbia passato la notte comoda comoda, ti informo che mi sono messa sul divano per pietà verso la mia spina dorsale solo mezz’ora fa», biascicò Bea con voce d’oltretomba.
    «Troppo tardi, l’ho già pensato». Sbuffai e guardai l’orologio appeso accanto al frigorifero.
    Cazzissimo! Erano le undici e mezza!
    No, presentarmi in quello stato era fuori discussione.
    Mi alzai a fatica e raggiunsi la borsa per prendere il cellulare. Dovevo avvisare, ma non avevo memorizzato il numero di Jost.
    «Ma che cazzo…», stavo per continuare, ma… idea. Tom mi aveva telefonato quando eravamo usciti, quel sabato, sicuramente avevo memorizzato il suo numero.
    Non fu necessario cercare, comunque, perché trovai otto chiamate perse, tutte da uno stesso numero sconosciuto. Premetti il tasto verde.
    «Pronto?», mi rispose una voce dopo quattro squilli. Era acuta, morbida.
    «Bill…?». Che voce strana mi era uscita. Sembrava quella di un deportato.
    In quel momento mi soggiunse un problema a cui non avevo ancora pensato: che accidenti gli avrei detto?
    «Elsa. Dove sei finita?».
    Appunto.
    «Ehm, io…».
    «Stai bene?», chiese, ma non potevo esattamente dire che dal tono traboccasse sincero accoramento.
    Mi sforzai di dare alla mia voce una parvenza di normalità e risposi: «non esattamente. Ehm… scusate se non ho avvisato prima, ma…», una scusa, una scusa, una scusa, «è capitato un imprevisto, oggi non posso venire».
    Dall’altra parte, Bill tentennò qualche secondo. «Sicura di stare bene? Hai una voce strana».
    «Ma hai sentito quello che ho detto?!», chiesi irritata.
    «Sì, ma sono preoccupato per te».
    «Ah, ora sei preoccupato per me. Mi eviti come la peste, ma sei preoccupato per me».
    «Sì, sono preoccupato per te, perché nonostante tu sia stata una vera stronza nei miei confronti, io sono capace di andare oltre. E se tu non ti presenti al lavoro e avvisi solo dopo ore, con la voce di uno zombie, se permetti, mi sento un po’ in pena».
    Ero allibita. Non ero mai, mai stata insultata da Bill. Anzi, per essere precisi, non si era mai rivolto a me in modo così scortese.
    «Non hai ancora afferrato questo semplice concetto, Bill: non so a cosa ti riferisci, e vorrei tanto che me lo spiegassi, anche se non ora. Punto secondo: non sto bene, è vero, ma non ho potuto avvisare prima. Punto terzo: ciao». Riappesi, arrabbiata come una iena.
    Normalmente avrei avuto più pazienza, specie trattandosi di Bill, invece avevo avuto una reazione acida e violenta. Meglio, in fondo: significava che gran parte dei postumi della sbronza era passata, ed era rimasta solo l’irritazione facile che mi caratterizzava. Solo, esponenzialmente accresciuta da un mal di testa torturatore.
    Quando mi voltai, finalmente, vidi lo stato disastroso in cui versava la cucina di Bea: il pavimento, da bianco, era diventato di un grigiastro sporco, con grosse chiazze dall’aria appiccicaticcia, e sul tavolo erano sparse liquirizie salate, la cui busta era stata abbandonata a terra, vicino ad una sedia rovesciata.
    Mi guardai. Ero vestita nello stesso modo della sera prima, jeans e maglioncino, avevo perfino le scarpe, e mi sentivo un ranocchio pieno zeppo di muco.
    Doccia, subito.
    Appena aprii la porta del corridoio, diretta verso il bagno, sentii un tonfo che mi fece trasalire.
    «Bea?», chiamai incerta, indugiando.
    Apparve dall’angolo che aveva svoltato e mi superò a velocità supersonica. Fu talmente veloce che a stento misi a fuoco tutti i suoi dettagli.
    Capii ciò che voleva fare. «Non osare!!!», strillai.
    Mi lanciai per rincorrerla, ma fu più veloce. Entrò in bagno e vi si chiuse a chiave.
    «Mi aspetto che tu pulisca la cucina, mentre io mi lavo e mi rendo presentabile!», esclamò da dietro la porta.
    Sgranai gli occhi, impalata a fissare quella dannatissima superficie in plastica.
    «Sei… sei…», non riuscivo a trovare le parole per descrivere il suo gesto.
    La sentii ridere di gusto. «Adorabilissima? Dolcissima? Amabilissima?».
    «Bastarda!», urlai, i pugni stretti lungo i fianchi.
    «Peccato, non hai fatto la rima…».
    «Bastardissima!».
    Udii la sua risata, e poi lo scroscio dell’acqua della doccia.
    Io mi diressi spedita verso il ripostiglio in fondo al corridoio, in cerca dell’occorrente per pulire il disastro in cucina. La odiavo, in certi momenti.
    Pulii la sua dannata cucina alla meno peggio, per ricambiarle lo smacco che mi aveva fatto soffiandomi il bagno in un momento di estrema necessità, e quando finalmente Bea venne fuori – dopo appena venti minuti – mi ripulii di tutto ciò che avevo addosso. Lasciai i vestiti nel suo lavandino perché me li lavasse – me lo doveva – e recuperai un paio di suoi jeans e una maglietta.
    «Elsa?», sentii chiamare, mentre mi pettinavo davanti allo specchio.
    «In bagno!».
    Mi raggiunse, i capelli biondissimi spettinati e le labbra arrossate. Si appoggiò allo stipite e mi squadrò, la mano sinistra nascosta dietro la schiena.
    «Dimmi».
    «Niente appuntamento con i concentrati ambulanti di ferormoni, stamattina», affermò con espressione furba.
    Mi venne voglia di lanciarle la spazzola in faccia. «È quasi l’una, secondo te devo presentarmi da loro all’orario in cui vado via?!».
    «Non era una domanda, infatti», rispose tranquillamente, rimirandosi le unghie della mano destra. «Oh, posso stirarti i capelli?».
    «No», risposi piccata. Posai la spazzola sul bordo del lavandino e cercai il phon e il suo diffusore.
    «Ma hai uno stile monotono, cambia ogni tanto», ribatté.
    Cercai nella cassettiera sotto il lavabo, ignorandola del tutto. Sfilai i cassetti uno per uno: non c’era.
    «Dove hai messo il phon?», chiesi, sollevandomi.
    Sollevò la mano sinistra che era stata nascosta fino a quel momento: impugnava il phon che cercavo, con il diffusore annesso e mi propinò l’espressione angelica ereditata da Didi: «mettiamola così, allora: tu, adesso, ti farai stirare i capelli dalla sottoscritta».
    «Assolutamente no».

    «Sai che stai bene con i capelli così? Dovresti stirarli più spesso».
    «Grazie, Didi», risposi a denti stretti. Alla fine quella strega aveva vinto.
    Lanciai le chiavi nel piatto accanto alla porta e mi fiondai al frigo, ancor prima di togliermi il cappotto e la sciarpa. Tirai fuori una porzione di budino al cioccolato, presi un cucchiaino e cominciai a mangiarla nervosamente.
    Erano le sette di sera ed ero appena tornata a casa, e la prima cosa che Didi mi aveva detto era stata quella simpatica frase, dopo che ero stata fuori tutta la notte e quasi tutto il giorno senza avvisare nessuno.
    Grandioso.
    Lo vidi sparire nel corridoio, in boxer – a fantasia grigia con delle macchinine rosse – e poi sentii la porta del bagno che si chiudeva.
    Forse il budino e i gong che suonavano nella mia testa erano fattori influenzanti, ma decisi di non mettere piede fuori casa quella sera. Avrei lavorato, per non sprecare il tempo.
    Lasciai il piattino sul tavolo, insieme al cucchiaino, estrassi il computer dalla borsa che avevo abbandonato sul divano e dopo averlo avviato, lo posizionai sul tavolo.
    Mi presi la testa tra le mani. Mai più mi sarei sbronzata in quel modo.
    «Sissi, io vado!». Didi risbucò dal corridoio, mentre si passava gli ultimi residui di gel nelle mani tra i capelli biondi.
    Strizzai gli occhi a causa del volume della voce. «Okay».
    «Sto bene così?». Mi si mise di fronte, per farsi guardare attentamente. Inclinai la testa e accarezzai la sua figura con gli occhi: una camicia bianca abbracciava il busto armonico, jeans molto scuri, ed insolitamente larghi, sostenuti sui fianchi da una cinta nera.
    Tamburellai con la penna sul tavolo. «No, fai schifo».
    «Okay, allora non mi preoccupo».
    «Esattamente, perché indossi un paio dei miei pantaloni?», chiesi, sollevando al massimo il mio sopracciglio.
    Vidi il suo adorabile visino corrucciarsi. «I miei sono tutti a lavare. A proposito, visto che rimani a casa, fai il bucato». Sfarfallò le ciglia, mentre io gli lanciavo un centinaio di saette con gli occhi.
    «Ma dovevi farlo tu ieri! Toccava a te!», urlai. Nella testa l’eco della mia stessa voce si infranse contro le pareti del cervello come un ariete.
    Guarda che te le vai a cercare…, disse la parte più ragionevole di me.
    Zitta, tu.
    «Hai tutto il mio cuore, piccola Sissi», diceva intanto Didi. Prese le chiavi dal piatto ed aprì la porta d’ingresso.
    «E lo userò come cavia per il nuovo tritacarne». Parlai a volume più basso per pietà verso la mia testa.
    Didi rise con leggerezza, s’infilò il cappotto, prese il borsello che aveva dimenticato sul divano ed uscì.
    «Stronzo», mugugnai. Poi, ripensandoci, sorrisi tra me e me.
    Prima di rendermi operativa di nuovo, decisi che dovevo quantomeno tentare di arginare il mal di testa, quindi mandai giù una compressa, aiutandomi con dell’acqua. Poi feci partire le registrazioni degli arrangiamenti sul computer, intanto che cercavo nella borsa il materiale cartaceo e tutti i post-it che Bill usava per scrivere i suoi appunti.
    «Ma dove accidenti sono…», rovistai ancora per un po’, poi mi arresi. Mollai spazientita la cartella, che cadde sulla sedia, inerte.
    Realizzare di averli dimenticati nella sala registrazioni dello studio fu come una stilettata alla mia voglia di lavorare. Imprecai molto poco finemente e per occupare il tempo decisi di mettere i panni sporchi di Didi in lavatrice. Riordinai la mia stanza e la sua, operazione che mi portò via circa un’ora. Le frustate al cervello intanto erano notevolmente diminuite, così decisi di tenermi occupata leggendo. Una volta in camera mia, scorsi i libri della libreria e vidi un dorso bianco più spesso degli altri, con degli inserti in velluto azzurro.
    E feci una cosa molto stupida.
    Lo sfilai lentamente e poi soffiai sulla parte superiore: una leggera nuvoletta grigia si librò in aria. Mi diressi verso il letto e mi ci lasciai cadere, con quell’album di fotografie davanti a me.
    Accarezzai la copertina spessa.
    L’avevo portato via all’insaputa di mio padre quando me n’ero andata da casa. Era l’album che conteneva tutte le fotografie di mia madre. Aaron le aveva raccolte, affidate a fotografi professionisti perché ne migliorassero la qualità e poi archiviate in quel grosso libro che era lì, sotto le mie mani. Probabilmente, se avesse saputo che ero stata io a portarlo via, mi avrebbe fatto causa.
    Sollevai lo spesso strato della copertina ed osservai le prime due foto: una bambina, alta a malapena un metro, che si torceva le mani piene di fossette e guardava nell’obiettivo con due occhi grandi e spauriti, le guance piene e la boccuccia semiaperta. Accanto a lei, un tavolino con una semplice torta al cioccolato e tre candeline. Da sfondo, c’era solo un muro modificato dal bianco e nero della foto. Sorrisi e accarezzai la superficie liscia della fotografia.
    Più in basso, la stessa bambina stava dando da mangiare ad una capra dall’altra parte di una grata metallica, il viso e il vestitino bianco illuminati dal sole. Accanto alla foto, c’era una data: 19 giugno 1956.
    Mia madre aveva sei anni in quel periodo.
    Sapevo poco, veramente poco di lei. Mio padre mi aveva detto che amava la natura, che era praticamente cresciuta in campagna. Mi venne da sorridere pensando che tutto ciò che sapevo di Gabriella, l’avevo dedotto dagli insulti e dalle frasi taglienti che mio padre mi aveva dedicato in diciannove anni di convivenza.
    Non assomigli per niente a tua madre. Da dove hai preso tutta quell’arroganza? Sei troppo disordinata, non hai preso proprio nulla da tua madre. Vestiti con un po’ più di buongusto, un po’ come tua madre.
    E così discorrendo.
    Voltai pagina, sospirando. Io dovevo essere masochista, perché ogni foto, ogni ricordo, era la punta di un gatto a nove code che mi feriva.
    Altre due foto: una bambina di poco più di sette anni, che cavalcava in un recinto, lo sguardo concentrato e le labbra pressate. Era stata immortalata poco prima di un salto. E poi la stessa bambina bionda dagli occhi scuri che inseguiva un cane bianco e nero, immortalata dall’alto di un balcone.
    Sapevo che se avessi continuato così, sarebbe successo quello che accadeva tutte le volte: non sarei arrivata nemmeno a metà e avrei chiuso l’album, saltando tutte le foto degli ultimi anni della sua vita. Così, sollevai quasi tutte le pagine, risparmiando le ultime, e le voltai.
    La bambina era diventata una donna. Ogni volta che guardavo quelle fotografie, mi rendevo conto di quanto effettivamente poco le somigliassi, non solo per carattere. Ero bionda come lei, avevo gli stessi capelli ondulati e gli stessi occhi, ma il mio viso era più allungato, le labbra più sottili ed ero anche più alta. I suoi lineamenti invece, non erano affilati quanto i miei.
    Una foto la ritraeva mentre cucinava, i capelli ancora bagnati, in un’altra, così sdolcinata che in altre occasioni mi avrebbe fatto venire il voltastomaco, baciava mio padre e posava una delle sue mani sul ventre tondo e sporgente. Era incinta di Joseph, perché quando si seppe della mia esistenza il clima non era stato così goliardico. Cambiai foto: in quella successiva aveva la pancia ancora più grande ed era stata immortalata mentre preparava la borsa per il trasferimento in ospedale.
    Delle foto con mio fratello neonato, il tutto in compagnia di mio padre, e poi… stop. Fine. L’album si fermava lì. C’erano delle fotografie dei primi anni di Joseph abbandonate tra l’ultima pagina e la copertina, ma nient’altro.
    Stando a quell’album, mio padre e mia madre avevano avuto un solo figlio.
    Mi sistemai seduta sul letto, le caviglie raccolte vicino al bacino, e ripensai a ciò che Didi mi aveva detto una delle volte in cui avevamo affrontato il discorso di mia madre: nonostante non l’avessi mai conosciuta, non avevo mai accettato la sua morte.
    Era vero, cazzo, io non riuscivo a rassegnarmi. Non potevo accettare che una malattia o il troppo affetto potessero spegnere una persona e farle chiudere gli occhi per sempre. Non farla più sorridere, parlare, pensare. Non riuscivo ad accettare che delle variabili fuori dal controllo degli uomini potessero causare tanto dolore. Il mio dolore.
    Mi resi conto di avere la vista appannata e di aver bagnato il piumone. Richiusi l’album e cercai un modo per scappare da quello stato d’animo. Era facile quando c’erano Didi, Bea, o quei quattro strampalati, ma da sola non avevo scampo. Tutto ciò che mi faceva male mi fronteggiava, più grande e più forte di me.
    Mi recai in cucina, dove tamponai gli occhi e mi soffiai il naso con un fazzoletto.
    Tutto mi sembrava opprimente, all’improvviso. La casa, i mobili, perfino l’aria che respiravo.
    Senza pensarci, riposi in fretta il computer nella borsa, m’infilai le scarpe e il cappotto ed uscii da casa, le chiavi che tintinnavano in mano. Avevo una voglia disperata di urlare e prendere a pugni qualsiasi cosa, ma ero lucida quanto bastava a capire di dovermi trattenere. Dopotutto, io ero sempre stata abbastanza razionale e controllata da non avere nemmeno la scusa della pazzia o delle crisi di panico. Io vivevo il dolore in tutta la sua distruttiva interezza.
    Uscii nel gelido vento di febbraio, che m’investì, potente. Mi sentii gelare fin dentro le ossa e mi infilai in macchina. Avviai il motore, partii.
    Ovviamente, non avevo la più pallida idea di dove andare. Sapevo solo che non volevo vedere nessuno, la mia intenzione era allontanarmi da tutto ciò che potesse lontanamente ferirmi.
    Didi mi avrebbe impedito di ridurmi così. Per questo spesso e volentieri mi portava in giro con lui. Io lo sapevo, ma ugualmente mi mostravo scocciata e scontrosa. E la complicità che c’era tra me e Bea mi avrebbe tenuta lontana da qualsiasi cattivo pensiero. Avevo bisogno<i> di loro. Eppure, in quel momento, mostrarmi a loro in quelle condizioni, come la più immatura e fragile delle bambine, era l’ultima delle mie volontà.
    Dovevo trovare qualcosa che mi occupasse la mente, così, in uno sprazzo di ragionevolezza, tornai al piano originario: lavorare. In fondo, se fossi andata allo studio di registrazione non se ne sarebbe accorto nessuno, erano sicuramente tutti via.
    Guidai più velocemente del solito, nonostante il traffico, ed arrivai lì in venti minuti. Scesi in fretta, nascondendo le mani nelle tasche del cappotto e corsi fino alla porta. Avevo tenuto costantemente lo sguardo basso, fisso sulle punte delle mie scarpe e sul pietrisco, così mi stupii della luce accesa quando spalancai la porta con uno strattone violento ed entrai. Vidi Tom comparire in salotto con gli occhi sgranati.
    «Cazzo, Elsa, pensavo fosse entrato un uomo armato!».
    Non era nei programmi che ci fosse anche lui. Non ero preparata a farmi vedere in quello stato da nessuno, figurarsi da Tom. Boccheggiai nel panico, fissandolo con gli occhi spalancati, e mi odiai dal profondo per quanto mi sentivo stupida e vulnerabile.
    Mi portai una mano sulla bocca per nascondere che era aperta mentre qualcosa mi diceva di scappare via.
    Ma le mie gambe restarono inchiodate lì dov’erano, pesanti come macigni.
    «Stai bene?», mi si avvicinò, guardandomi perplesso.
    <i>Riprenditi, accidenti!

    Mi schiarii la voce e mi diedi un contegno. «Che ci fai qui?».
    «Potrei farti la stessa domanda. Chiudi la porta? Tira una leggera brezzolina polare».
    Obbedii semplicemente, non riuscii ad apprezzare l’umorismo. In quel momento riuscivo ad essere spiritosa quanto può esserlo un cadavere.
    «Ho dimenticato le mie cose qui, ieri», dissi semplicemente. In me il desiderio di girare i tacchi e darmela a gambe era forte.
    Alzò un sopracciglio e si sedette scompostamente sul divano. «Le uniche cose tue che ci sono qui dentro sono i fogli con gli appunti tuoi e di Bill e alcuni spartiti».
    «Cercavo proprio quelli, infatti».
    Voltò il busto per guardarmi accigliato. «Lavori il sabato sera?».
    «Sì». Feci un salto nella sala registrazione, recuperai il materiale e tornai lì nel salotto. Avevo sperato di poter lavorare lì, in silenzio e senza nessun contatto con il mondo degli umani, ma evidentemente quella sera la sfiga ci si era messa proprio d’impegno.
    «Dovresti trovarti un hobby, sai?», mi disse.
    Non avevo le energie per rispondere. Infilai nella borsa tutto ciò che mi occupava le mani, così, alla rinfusa.
    «E poi, non mi hai ancora risposto».
    «A cosa?», domandai con voce incolore.
    «Stai bene?».
    «Fatti i cazzi tuoi». Chiusi tutto.
    Si alzò ed aggirò il divano, in modo da fronteggiarmi apertamente. «Mi spieghi perché devi sempre, sempre comportarti come una zitella in menopausa?!».
    Perché non capiva che non ero nelle condizioni di affrontarlo? Non volevo parlare con nessuno, era già tanto non scoppiargli di fronte.
    «Ripeto: fatti i cazzi tuoi». Nonostante questo continuavo a parlare in modo lento e strascicato, come se avessi fatto venti vasche nuotando con una gamba sola. Provai a dirigermi verso la porta per andarmene, ma lui mi si mise davanti, sbarrandomi il passaggio.
    «E se volessi farmi i tuoi?».
    Assottigliai lo sguardo. «Dovresti trovarti un hobby, sai?».
    «Tipo giocare con le persone, come te?».
    La mia pazienza si esaurì. Ero satura. «Dovete smetterla con questa storia del giocare con le persone!», strillai. «Io non gioco e non inganno nessuno, e se avete qualcosa da dirmi, parlate apertamente e non fate i sibillini del cazzo!». Lo spintonai per andare via.
    Reagì afferrandomi per un braccio. «Dimmi di che accidenti si può parlare con una persona asettica e incolore come te!».
    Lo guardai e mi sentii ferita. Profondamente ferita.
    «Tu non sai niente di me», venne fuori una sorta di vocina querula. Mi odiai visceralmente.
    «Già, non fai che ripeterlo! Ma cosa credi, che la gente sia disposta a starti dietro per sempre?!».
    «Non sono io quella che si nasconde dietro una facciata per ottenere l’approvazione altrui!». Tentai di liberare il braccio dalla sua stretta, ma non me lo permise. Anzi, mi afferrò anche l’altro, affondando i polpastrelli nella carne.
    «Già, tu preferisci nasconderti dietro il tuo lavoro, il tuo sarcasmo e il tuo maledetto cinismo, vero? Tu non hai nemmeno il coraggio di metterti in discussione!».
    Mi stava facendo seriamente male. «Almeno non propino agli altri qualcosa che non sono!».
    «E cosa sarei? Sentiamo». Avvicinò il viso al mio, sibilando a pochi centimetri dalla mia faccia con aria minacciosa.
    Sentii qualcosa che colava dai miei occhi e pregai con tutte le mie forze che non fossero lacrime. Ero crollata, avevo già ceduto rispondendo alle sue provocazioni, ma non volevo abbassarmi tanto da piangere di fronte a lui.
    «Un moccioso immaturo, che si spaccia per adulto solo perchè ha plotoni di mocciose altrettanto immature che lo seguono per un bel faccino e qualche nota strimpellata», parlai a voce altrettanto bassa, più determinata che potei. Volevo ferirlo nel profondo, come lui aveva fatto con me. Svilire tutto ciò che era per fargli sentire l’amaro sulla lingua.
    Acuì la stretta intorno alle mie braccia, e fu così forte che mi bloccò la circolazione. Forse era il suo modo di punirmi. Strizzai gli occhi per reazione e cercai di reagire sferrandogli pugni sul petto o ovunque riuscissi a colpire, ma la sua presa scese sui miei polsi e li immobilizzò.
    Mi costrinse a guardarlo negli occhi. «Ma l’hai baciato, questo moccioso immaturo, non è così?».
    Il mio battito sembrò fermarsi per qualche secondo. Mi lasciò senza parole, senza fiato. La realtà circostante si ridusse al suo viso e a quelle parole che rimbalzavano nella mia mente.
    E così, Tom ricordava tutto.
    «Lasciami, mi fai male», provai di nuovo a liberarmi.
    «Non scappare, hai detto che volevi parlare, no?! E allora parliamo!». Alzò la voce.
    «Non ho niente da dirti!». Voltai il viso per non guardarlo, in quel momento volevo solo andare via. Sentivo i lembi del mio autocontrollo scivolare via dalle mie dita, e più provavo ad afferrarli per ancorarmici, più si facevano scivolosi e lontani.
    Tom intanto mi scuoteva come se fossi stata una bambola di pezza. «Dimmi perché hai preso in giro Bill e poi anche me! Dimmi perché gli hai fatto credere di provare qualcosa per lui, perché hai baciato me e perchè hai preteso di fare come se niente fosse successo! Dimmi come cazzo ragioni!». Stava urlando davvero, ed ebbi paura. Mi sentii cedere le ginocchia, tuttavia cercai con tutte le mie forze di restare in piedi.
    «Io non ho fatto niente di tutto questo!». Senza volerlo, cominciai a singhiozzare e Tom mollò la presa sulle mie braccia.
    Mi sentii sospinta leggermente all’indietro e per non cadere mi appoggiai allo schienale del divano. Lo guardai mentre indietreggiava, come se all’improvviso avessi avuto una malattia contagiosa.
    Mi sentii annullata. Svuotata. Del tutto avvilita.
    Mi massaggiai un polso dolorante, cercando di controllarmi, ma c’erano ferite che bruciavano molto più in profondità. Non riuscivo a riprendere il controllo.
    Non avevo nemmeno la forza e la voglia di scappare, perché sapevo che non si sarebbe risolto niente in quel modo. Nessun colpo di spugna avrebbe cancellato ciò che era successo.
    «Io non avevo cattive intenzioni», dissi a voce bassa, tenendo costantemente gli occhi sui brutti segni viola che stavano comparendo sui miei polsi. «Non volevo ferire né illudere nessuno».
    Mi resi conto di stare tremando, nonostante questo trovai la forza di guardarlo.
    Mi fissava, impassibile, ma la tensione nei suoi muscoli faceva capire che non aveva smaltito la rabbia. Rimase in silenzio, e questo mi permise di dire l’unica cosa che avrei detto se fossi stata in condizioni normali, senza lacrime né scene patetiche: «non è colpa mia se avete creduto nei vostri castelli in aria. È tutto». Feci un bel respiro e gli passai accanto, diretta verso la porta. Quando la aprii, vidi la figura di Bill, il suo viso sorpreso, mentre reggeva una busta di plastica con una mano.
    «Elsa, ma…».
    «Ciao, Bill», lo interruppi. Lo superai, senza curarmi di nulla e raggiunsi la macchina camminando a passo spedito. Una volta dentro, accesi il motore e mi allontanai da lì più in fretta che potei.
    Quando mi accertai che abbastanza spazio dividesse me da loro, accostai nel buio della strada rettilinea.
    Mi rannicchiai su me stessa e urlai. Urlai con tutte le mie forze.
     
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  14. KLEINE ENGEL
     
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    considerando che oggi è decisamente una giornata NO, e sono particolarmente emotiva direi che ho letto gran parte del capitolo piangendo.
    Tutto ciò perchè scrivi maledettamente bene e tutta la rabbia e la disperazione che provava Elsa nel litigare con Tom, si è automaticamente riversata su di me....non riesco davvero a capire quale cavolo di idea si erano fatti i gemelli con Elsa, insomma, Bill sembrava volesse esserle amico ò.ò non avrei mai immaginato che provasse qualcosa per lei...e Tom ancora non riesco a decifrarlo sinceramente XDXD l'ha baciata ma sembra quasi nutrire odio verso di lei ò.ò quindi la domanda è: prova qualcosa per lei o no?ne è attratto? boh...
    ma in fondo chi disprezza compra no? quindi in fondo Tom potrebbe provare qualcosa per lei ma vedendo che non viene ricambiato minimamente nell'interesse, ricevendo solo frecciatine e "complimenti" molto pungenti, si è sentito quasi ferito nell'orgoglio ò.ò
    Oddio mi sto facedo le seghe mentali XDXD scusa se cerco di psicoanalizzare i personaggi ò.ò XDXD
    cooooooooooomunque resta il fatto che i tuoi capitoli sono stupendamente stupendi e che sono davvero curiosa di sapere come continua **
    posta presto ^^
     
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  15. .Enigmatic
     
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    o_____O

    Ok, chiariamo subito una cosa, mio caro Bill.
    Se la bella Elsa ti affascina, levatela subito dalla testa! U.U
    E' di Tom, punto e basta e si deve mettere con lui
    Ok, ovviamente queste sono mie preferenze, l'ultima parola spetta sempre all'autrice
    Ma almeno dico cosa mi farebbe contenta *O*
    Per quanto riguarda il "giochetto" della vodka tra Elsa e Bea, sono morta dal ridere xD
    Mi ricorda tanto una cosa che ho combnato io con una mia amica, quindi mi ci sono ritrovata xD
    Tom... eh, Tom.
    Che si può dire di quel santo ragazzo?
    Questo suo modo di fare un pò burbero, freddo, distaccato, ma allo stesso tempo di un ragazzo che prova interesse verso la protagonista, è fantastico.
    Lo adoro in tutto quello che fa, tanto lo descrivi bene.
    Il punto in cui lei si mette a piangere, durante la discussione con lui, è stato molto toccante.
    Riesci a rendere reale tutto quello che scrivi e, come ti ho già detto, riesci ad emozionarmi ad ogni singola virgola o spazio.
    Tutto scritto divinamente, scorrevole, curato nei minimi dettagli.
    Spettacolare, davvero.
    Adesso questa storia mi prende ancora di più perchè credo che siamo arrivati ad un punto "critico".
    E' palese che entrambi i gemelli siano attratti da Elsa (o almeno, ne sono quasi sicura).
    Il problema è Elsa.
    Secondo me è più attratta da Tom, mi pare di capire da ciò che scrivi riguardo le sue mozoni mentre sta con uno o con un altro (forse anche perchè è quello che spero xD). Vabbè, questa è stata la mia impressione.
    Solamente leggendo i prossimi capitoli mi toglierò questo dubbio atroce xD
    Che altro c'è da dire?
    Che sei bravissima, ma credo che sia scontato =)
    Bacione e aggiorna presto =)
     
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218 replies since 23/6/2009, 12:26   5970 views
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