Love for music;

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  1. J a n i s
     
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    Up! (:
     
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  2. Monique;
     
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    Perdono perdono perdono, sono in vacanza e tra questo e tutte le varie cose non ho tempo per finire il capitolo. Ma l'ho iniziato! :)
     
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  3. J a n i s
     
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    Ottimo. Aspetto con ansia. (:
     
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  4. J a n i s
     
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    Up!
     
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  5. J a n i s
     
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    Up!
     
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  6. tokiettinaa
     
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    up♥ :)
     
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  7. Monique;
     
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    Sono tornataaa! Sto scrivendo, ragazze :)
     
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  8. J a n i s
     
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    UP!
     
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  9. WoodyPorpi©
     
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    *_____________________________________________________* Io non ho davvero le parole per descrivere quanto sia bella questa storia, davvero! :ècosìbellochemitraumatizzo: ..ogni volta che dovevo staccare e non potevo più leggere non vedevo l'ora di leggere di nuovo. Spero che la continuazione arrivi presto perchè ho il bisogno di sapere *O* <3
     
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  10. Monique;
     
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    Sono imperdonabile, lo so.
    Ma sappiate che il capitolo c'è, va solamente aggiunta l'ultima parte. Non abbandonerò mai questa storia :)
     
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  11. WoodyPorpi©
     
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    Ci mancherebbe u.u ..è troppo bella per abbandonarla *-*
     
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  12. .Enigmatic
     
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    Hei, guarda che io non sono sparita, eh... Ci sono sempre (:
    Spero che aggiorni al più presto perché ho assoluto bisogno di questa storia (:
     
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  13. Monique;
     
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    Sono viva. E chiesto scusa per l'imperdonabile ritardo.
    Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo ^^

    Capitolo 15

    «Elsa, che stai facendo?».
    «Sto cominciando a mettere via ciò che mi potrebbe servire per il viaggio».
    «Ma mancano quattro giorni».
    «Appunto».
    «Sei ancora arrabbiata con me».
    Sospirando, bloccai la ricerca frenetica di un particolare paio di jeans nell'armadio – da quando Didi li aveva messi a lavare erano spariti – e mi voltai a guardarlo. «Non sono mai stata arrabbiata con te. Non so in che altra lingua ripetertelo».
    Didi si sedette sulla mia piccola scrivania. Con la coda dell'occhio scorsi la sua figura insaccata in un terribile pigiama giallo: se ne stava ingobbito, a testa bassa, come pronto a ricevere qualche colpo di frusta. «Io lo sarei se mi avessi interrotto sul più bello. Per un motivo così stupido poi».
    «Non è colpa tua se ti eri tolto le lenti a contatto e non vedevi ad un palmo dal naso. Anche se mi sono chiesta in seguito come avessi fatto a dimenticare gli occhiali da Bea».
    «Quindi non neghi che ti avrebbe fatto molto piacere continuare».
    Ripresi a cercare i jeans in quel labirinto che era il mio armadio.
    «E oggi com'è andata?», mi domandò, ignorando la mia non risposta. Dalla voce, però, capivo che il senso di colpa era svanito: già sapevo che mi stava fissando con il suo solito ghigno.
    «Oggi non abbiamo avuto molto tempo. A stento ci siamo parlati, c'era troppa gente. Sai, per la faccenda delle stalkers hanno convocato chiunque. Mancava solo la regina Elisabetta».
    «Meno male, la sua figura demolirebbe l'effetto decorativo che hanno quei ragazzi, managers inclusi. Ma tra te e Tom è successo qualcosa, comunque», asserì, sempre con quel tono cospiratore. «Magari qualche sguardo rovente. L'ho capito appena sei tornata, tutta elettrizzata...».
    «Ma tu non devi andare a lavorare? O ti pagano per fantasticare sulla mia vita sentimentale?», gli chiesi, stizzita e sorpresa che riuscisse a capire così tanto semplicemente osservandomi. Non avrei più dovuto meravigliarmi, ma ogni volta era inevitabile. Non sapevo se esserne contenta o meno.
    «Oggi ho il turno più tardi», mi disse distrattamente. «E comunque mi è sembrato molto strano che Tom sia scappato così. Avreste potuto liquidarmi, magari lanciandomi dietro qualche perla del vostro florido repertorio di imprecazioni, e riprendere felicemente a scambiarvi fluidi corporali».
    «Lo so, è tutto maledettamente strano», abbandonai la ricerca e crollai a sedere sul letto, affranta e confusa. «Nemmeno io so cosa sia successo in realtà. Tra me e lui, intendo, prima che arrivassi tu. Un secondo prima ci insultiamo e quello dopo...».
    «Ma che bugiarda. Sai benissimo quello che è successo, e doveva succedere molto prima».
    Mi morsi le labbra e volsi uno sguardo disperato al cielo. «Che casino».
    Non sapevo gestire tutta quell'assurda situazione.
    Didi saltò giù dalla scrivania e venne a darmi delle fraterne pacche sulla spalla. «L'hai detto, sorella».

    Fumare ingiallisce i denti, invecchia la pelle, provoca il cancro a innumerevoli organi, tra cui i polmoni, crea dipendenza e, peggio del peggio, provoca un'alitosi che tramortisce.
    Insomma, uno sfacelo. Eppure, nonostante non mi considerassi realmente dipendente, da quando avevo cominciato a lavorare per i Tokio Hotel il mio bisogno di sigarette aveva avuto un picco vertiginoso verso l'alto.
    Non avevo mai fumato alle nove di mattina, a digiuno, eppure in quel momento mi trovavo appoggiata al muro dello studio di registrazione, in compagnia della mia sigaretta, a cercare – senza risultati – di godermi il silenzio mattutino e il sole che faceva capolino attraverso le nuvole bianche e sfilacciate.
    Il fulcro dei miei pensieri era, tanto per cambiare, Tom.
    Sei disgustosamente banale, mi disse la vocetta, e non potevo darle torto. Il giorno prima mi ero salvata in corner: gli amici, i produttori e tutto lo schieramento di forze dell'ordine per la protezione dei divini Tokio Hotel mi avevano concesso di evitare contatti diretti con Tom per tutta la giornata; quel giorno invece avrei avuto sicuramente l'opportunità di confrontarmi con lui. Una parte di me – la più vigliacca – era atterrita, e sperava che quel giorno fosse una replica di quello precedente. Un'altra era ansiosa di risolvere quella situazione.
    In effetti non ne potevo più. Ero stanca di scappare perfino io, l'indiscussa regina dei conigli, per quanto riguardava i rapporti personali. Avevo bisogno di chiarezza.
    Il rumore di ruote sulla ghiaia mi distrasse. Mi voltai e vidi la BMW dei gemelli parcheggiare accanto alla mia auto. La mia C3, accanto a quel macchinone, sembrava un triciclo rotto.
    Che depressione, pensai sconfortata.
    I gemelli vennero fuori, e la mia mente malata si prefigurò senza nessun motivo apparente la classica scena da film in cui il protagonista, austero e algido, avanza verso coloro che lo guardano – in quel caso io – completamente incurante di avere alle spalle un'esplosione degna di una supernova.
    Peccato che la realtà fosse ben diversa. I protagonisti erano due, entrambi austeri e algidi, ma non sembravano essere minimamente intenzionati a parlarmi.
    Hanno due facce di granito che fanno invidia alle statue, commentò la vocina, e non potei che darle ragione.
    Nonostante fossimo all'aperto, l'aria era densa come melassa.
    «Buongiorno», dissi comunque, con una faccia tosta che avrebbe potuto rompere un muro, «i saluti non si pagano, sapete?».
    «Ciao», mi liquidò Bill senza nemmeno guardarmi in faccia, e marciò dentro, avendo cura di sbattere la porta.
    Sospirai, sempre più depressa, e guardai Tom. «Dai, ora tocca a te».
    Contro le mie previsioni, si appoggiò al muro accanto a me, il ginocchio piegato, e tirò fuori il suo pacchetto di sigarette dalla tasca. «Scusalo. Gli gira proprio male in questo periodo».
    Per quanto bene volessi a Bill, avevo deciso che doveva risolvere le sue questioni sentimentali da solo. Avrei seguito il suo consiglio: mi sarei fatta gli affari miei. Quando avesse voluto parlarmi, avrebbe saputo dove trovarmi.
    Così, mi voltai verso Tom con tutto il busto, appoggiandomi con una spalla al muro, e lo fissai, determinata. «Tom, perché?».
    «Perché cosa?».
    «Perché sei scappato?».
    Mi lanciò un'occhiata. «Quando?».
    «Sabato», risposi con voce grave, sempre più spazientita. «Se è necessario a farti tornare la memoria, sono disposta a darti un colpo in testa».
    «Non sono io quello che ha fatto come se niente fosse successo», ribatté a tono, aspirando.
    Cercava di mostrare disinteresse, ma il suo sguardo ardeva, come se si stesse trattenendo.
    «Ti ricordo che ieri mancavano solo il WWF e l'ONU qui, non c'è stato tempo per scambiare due parole e chiarire».
    «E cosa c'è da chiarire? La cronologia degli eventi è abbastanza chiara, mi pare».
    Lo odiai dal profondo.
    Ti somiglia incredibilmente in questo momento, sai?, disse la vocetta con tono saputo. La ignorai.
    Incrociai le braccia sul petto, attenta a non scottarmi con la sigaretta e lo fissai più severamente che potei. «Con chi sto parlando adesso, Tom? Con una persona matura o con il moccioso che ha abbandonato il lavoro il primo giorno perché gli giravano?».
    Sostenne il mio sguardo. «Sai cosa, Elsa? Mi sono rotto di litigare con te, e per te, e di essere perfino insultato da te. Riguardo a sabato non c'è niente di niente da chiarire, è inutile che cerchi di dare una spiegazione logica a tutto. Sai benissimo com'è la situazione. E tra tutto ciò di cui mi sono rotto c'è anche questa tua insicurezza cronica che ti fa scappare di continuo e porta me ad impazzire per i tuoi comportamenti».
    «Non sono io quella che è scappata questa volta, Kaulitz».
    Gettò la sigaretta ancora a metà per terra e si voltò a fronteggiarmi. «Io non sono scappato».
    «E invece sì», lo interruppi, gettandola anch'io. «Mi fai la predica, ma se non l'hai notato hai sempre accettato di buon grado che mi allontanassi, e sabato sei addirittura fuggito via come un ladro. Come il ragazzino senza palle che sei».
    Sbatté una mano contro i mattoni, come d'abitudine quando s'incolleriva, e si avvicinò fino a sibilare a due centimetri dal mio naso: «sai perché sono andato via? Mi ero reso conto che scopare con un frigido robot non mi sarebbe piaciuto, in fondo. Nemmeno per sfizio».
    Il mio cervello elaborò quelle parole molto più lentamente del mio cuore, che aveva preso a sanguinare ancora prima che Tom avesse finito di sputarmi in faccia la sua cattiveria.
    La rabbia e quel poco di dignità che ero riuscita a conservare mi fecero reagire: alzai una mano e la abbattei violentemente sulla guancia di Tom, senza nemmeno pensarci un secondo. Il rumore di quello schiaffo fu forte quanto quello di un gong, nella mia testa.
    Tom si portò una mano sulla parte colpita, ma assorbì il colpo senza battere ciglio.
    Presi fiato. «Per un momento, un brevissimo momento ho pensato che dietro la tua facciata si nascondesse una persona migliore», dissi, con tutta l'amarezza che avevo in corpo. «Che idiota sono stata. Non ti meriti nulla più delle puttane con cui vai a letto».
    Feci per andarmene, ma Tom fu più lesto: mi mise le mani sulle braccia, stringendo fino a farmi male, e mi tenne ben fissa davanti a lui.
    «Mi fai male», dissi, sostenendo furiosa il suo sguardo accorato. La rabbia sembrava essersi stemperata, per lasciare il posto ad uno strano pentimento, come se si fosse reso conto di quanto mi avesse ferita.
    Nella mia delusione, sperai che lo capisse fino in fondo e che gli facesse male il triplo di quanto faceva male a me.
    «Spiegami perché io e te non riusciamo mai a parlare senza sbranarci».
    «Ah, ora vuoi perdere tempo in spiegazioni?!». Mi liberai dalla sua presa, disgustata dall'idea che mi toccasse. «Ti accontento: tu sei un moccioso che non sa cosa sia il rispetto verso i sentimenti altrui. Anzi, il rispetto in generale. Ed io non voglio avere niente a che fare con gli stronzi come te. Ecco perché mi viene sempre voglia di ucciderti».
    «Elsa, io non...».
    «Se sono troppo complicata per te», lo interruppi, arrabbiata, «non sei obbligato a starmi dietro. Anzi, nessuno te l'ha mai chiesto. Quindi, questo robot frigido ti sta pregando di lasciarlo in pace. Non ti perderesti niente, comunque, no? Non varrebbe il tuo prezioso tempo nemmeno toglierti lo sfizio». Con orrore, mi resi conto che mi tremava la voce mentre ripetevo le sue stesse, dolorose parole.
    «Elsa!».
    «Non dire il mio nome!», strepitai, sempre più ferita. Non riuscivo a guardarlo, e la vista mi si stava appannando. «Non osare piantarmi in faccia quegli occhioni pentiti perché non serve. Vaffanculo, Kaulitz, vaffanculo!».
    Sentii la porta aprirsi e la presenza di qualcun altro oltre a noi. Quando mi voltai, Bill ci stava fissando preoccupato. «Cosa succede qui?».
    Con le mani che mi tremavano, mi sistemai la borsa sulla spalla. Fui felice di aver lasciato in macchina la cartella con il computer e gli spartiti. Per un momento pensai di abbandonare il lavoro su due piedi, di uscire teatralmente di scena come un'eroina tragica, ma poi ricordai di essere nel mondo reale, e di non potermi comportare come una mocciosa con il cuore spezzato.
    «Niente», stava dicendo Tom, intanto.
    «Ma Elsa ha gridato, e...».
    La mia occhiataccia lo interruppe: «Elsa non ha bisogno di una balia, grazie».
    «E David e Benjamin sono dentro, si sono preoccupati», aggiunse.
    Pensai atterrita a quando fossero arrivati. Non avevo visto nessun'altra auto oltre alla mia, quando ero arrivata. «Com'è possibile?».
    «Hanno lasciato le macchine nel garage perché hanno dormito qui», spiegò velocemente. Guardava me e poi Tom, cercando forse di capire cosa fosse successo. Sperai e pregai che non avessero distinto nemmeno una parola.
    «Solo l'ennesima lite, comunque», spiegò velocemente Tom, con tono stranamente dimesso. «Niente di nuovo».
    «Dovreste entrare», suggerì Bill.
    Senza dire una parola, andai verso l'auto e recuperai la borsa con il computer e gli spartiti. Quando rientrai, affrontai i visi interrogativi di tutti quanti. Tentavano di nascondere la loro curiosità, forse avevano fiutato che quella litigata era stata diversa dalle altre, ma non avevo nessuna voglia di dare spettacolo o spiegazioni.
    Mi schiarii la voce. «Scusate. Cominciamo».

    «Ma che bastardo è stato», piagnucolai, strombazzando nell'ennesimo fazzoletto di carta che Bea mi aveva passato.
    «Suvvia, ai maschi capita di ragionare con il cazzo ogni tanto», mi blandì maternamente, accarezzandomi la testa.
    Quella stessa sera dopo il lavoro avevo programmato di rintanarmi in casa, seppellirmi sotto le coperte con i sei pacchi di caramelle gommose che avevo comprato al supermercato poco prima e piangere fino a raggiungere la completa disidratazione, ma Bea – forse avvisata dall'agente segreto Georg Listing – aveva sfasato i miei programmi: si era fatta trovare in cucina, seduta ad aspettarmi al tavolo. Mi era bastato guardarla per capire che sapeva che qualcosa stava andando a rotoli. Senza pensarci due volte avevo mollato le buste sul pavimento, l'avevo abbracciata ed ero scoppiata a piangere come una bambina.
    E venti minuti dopo mi trovavo seduta a gambe incrociate sul mio stesso tavolo, circondata di fazzoletti accartocciati e pacchi di Haribo sbranati.
    «Ma quanto è stato stronzo», mugolai con voce tremula, e m'infilai in bocca una caramella alla fragola.
    «Zucchero, l'hai ripetuto almeno cento volte...».
    «Ma perché non Tom Cruise? O Brad Pitt? O, se proprio doveva essere un musicista, Matt Bellamy? Almeno loro se ne sarebbero stati tranquilli nei loro poster, o nello schermo, e non si sarebbero materializzati davanti ai miei occhi, scombinandomi la vita». Strombazzai un altro po' nel Kleenex, lo accartocciai, e lo lanciai sulla piramide di fazzoletti per terra. «E invece no, arriva questo lavoro, arriva Tom Kaulitz con il suo piercing al labbro, quel maledetto neo sulla guancia e il suo fascino da quattro soldi, che mi insulta, mi fa innamorare di lui e poi mi dà pure della frigida, quando in realtà la mia tiroide produce camion su camion di ormoni, mi va in tilt il cervello, e ho extrasistoli per tutto il tempo, con tanto di infarti al miocardio, e mi parte anche la valvola mitrale...».
    «Non sentivo una lagna del genere dalla puntata cinquemilacentouno di Beautiful». Bea fece un gran sospiro e alzò gli occhi al cielo, passandomi un altro fazzoletto. «Il Kaulitz riesce perfino a farti ricordare quelle poche nozioni di anatomia che hanno tentato di inculcarti al ginnasio».
    Frignai, ancora più disperata, e infilai la mano in uno dei sacchetti di caramelle, estraendone quattro in un colpo solo.
    «Elsa, adesso basta». Spazientita, Bea mi tolse le gommose di mano.
    «Ehi, quelle sono mie!».
    «Sei passata dal negare con ogni cellula che ti sei presa una cotta per Tom Kaulitz ad ammettere che sei innamorata di lui, fino a rinunciare ad ogni singolo brandello di dignità. Va bene sfogarsi, ma ora piantala di lagnarti».
    La guardai da sotto in su, sbattendo le ciglia per metterla a fuoco, il respiro che tremava.
    «Lo sguardo da cucciolo di cocker abbandonato non funziona. Dobbiamo mettere a punto un piano».
    Mi asciugai le guance che mi bruciavano, sentendo il mento tremare di pianto represso. «Un piano?».
    «Sì, un piano. Io parto fra tre giorni, sarò a Nizza, e non potrai affogarmi nelle tue lacrime. Tu vai a Miami tra due giorni, e tu e il fusto starete a stretto contatto. Voglio che tu mantenga la tua snervante faccia di bronzo quando lavorate, che non gli caschi ai piedi, ma che nemmeno lo insulti e lo faccia impazzire».
    «Capire la teoria della relatività ristretta sarebbe più semplice».
    «Elsa, devi capire che voi due siete cotti l'uno dell'altra, e l'unica cosa che vi blocca è l'orgoglio».
    «Ma perché devo essere io a fare un passo verso di lui?! Mi ha insultata!», protestai.
    «Perché, piccola Sissi, con l'orgoglio non si può amare. Si può solo essere infelici».
    Sbuffai, impotente di fronte a quella verità. «Ti odio quando hai ragione».
    «Io ho sempre ragione».
    «Appunto».

    Due giorni dopo, esattamente alle nove di mattina, ero all'aeroporto di Amburgo. Entrai, seguita da Didi, Bea e dal mio bagaglio a mano. Avevamo appuntamento con i gemelli, Natalie, la truccatrice e ufficiale migliore amica di Bill, e i due manager, che si erano gentilmente offerti di accompagnarmi: avevo declinato per non inquinare la loro aristocratica macchina delle chiacchiere e stranezze dei miei due migliori amici.
    «Dove sono i fusti?», chiese Bea guardandosi intorno.
    L'aeroporto di Amburgo distava solo otto chilometri dalla città, ed era dotato perfino di un'area commerciale distribuita nei vari piani.
    «Questo posto mi fa paura», commentò Didi guardando l'alto soffitto di tubi metallici.
    Scrutai l'ambiente, ma non c'era nessuno.
    «Elsa, quello non è Benjamin?». Guardai Bea, che indicava un ragazzo alto e biondo, in compagnia di un'altra donna ben vestita, bionda anche lei. Entrambi portavano due carrelli colmi di valigie.
    «Sono Benji e Natalie, raggiungiamoli». Mi avviai verso di loro, salutandoli con la mano quando si accorsero di me. «Avete impacchettato e infilato in valigia l'appartamento di Amburgo?», dissi, mentre li salutavo con i due canonici baci sulla guancia.
    «Non sono nostri», disse Natalie. «I gemelli si fanno prendere sempre un po' la mano quando si tratta di viaggi».
    «Ci sono anche delle attrezzature per il nuovo studio di registrazione, questo va detto», aggiunse Benjamin.
    Dopo le solite frasi di circostanza, presentai Bea, che, a differenza di Didi, non si era intromessa nel mio lavoro così tanto da pretendere di farsi presentare ai miei compagni di lavoro. Mi domandai dove fossero i Kaulitz. Immaginai che non potessero prendere un aereo normalmente, famosi com'erano, specie ad Amburgo, e che avessero chiesto una sorta di permesso particolare per salire sull'aereo senza attirare l'attenzione. Ignoravo di quale permesso si trattasse.
    «Guarda la differenza tra la pila di valigie dei Kaulitz e il tuo insulso bagaglio a mano», mi disse Didi con aria di rimprovero, dopo aver partecipato vivacemente alle presentazioni di Bea, «ti avevo detto di portare più roba!».
    «Didi, mi hai preparato tu la valigia. E ci hai infilato tutto l'armadio, anche se non capisco come abbia fatto».
    «Perché sono un genio, tesoro, e nel tuo armadio c'erano solo quattro stracci».
    «Così ci ha infilato anche il suo, di armadio», aggiunse Bea ridendo. «Io avrei paura anche di aprirla».
    «Didi non mischierebbe mai i suoi adorati vestiti con i miei», dissi sorridendo.
    Didi boccheggiò oltraggiato: «certo che lo farei, perché ci tengo e non voglio farti sfigurare».
    «Okay», s'intromise David ridendo, probabilmente più per le penne arruffate di Didi che per il nostro teatrino, «tutto questo è davvero divertente, ma noi abbiamo un check-in da fare».
    «Vi aspetto sull'aereo allora», dissi.
    Tirai fuori la carta d'imbarco e il documento e cercai con gli occhi l'ingresso ai terminal.
    Bea mi prese la valigia. «Di qua», disse avviandosi, e la seguii.
    Una volta arrivati all'ingresso, mi strinse forte. «Fai la brava», mi sussurrò nell'orecchio. «E cerca di non impazzire senza di me», sciolse l'abbraccio e mi sorrise.
    «Vivo con Didi, poche cose potrebbero farmi impazzire».
    Lo guardammo entrambe, ma rimanemmo basite nel vedere i suoi occhi navigare nelle lacrime, e il suo viso accartocciato in una smorfia nel tentativo di contenersi.
    «Didi!», esclamai, intenerita. «Suvvia, mica vado in guerra in Vietnam!».
    «Sì, ma...», tirò fuori un fazzoletto dal suo borsello e si asciugò le lacrime sulle guance, «la mia piccola Sissi va a Miami tutta sola, e sono così orgoglioso...».
    «Non fare la checca sensibile adesso, te la ritrovi tra le palle fra una settimana», lo riprese Bea.
    Ridemmo entrambi e mi decisi ad abbracciare il mio migliore amico nel pieno di un momento di maternità mancata.
    «Mi raccomando, lavati i denti dopo ogni pasto, usa anche il balsamo dopo lo shampoo, così non ti vengono i capelli crespi, metti le creme che ti ho messo in valigia mattina e sera e usa sempre il primer prima di truccarti».
    Stavo per scoppiare a ridere. «E tu consuma meno acqua sotto la doccia, di notte spegni tutte le ciabatte, dopo essere uscito da una stanza assicurati che la luce sia spenta e non usare sempre il riscaldamento, altrimenti alla fine del mese non ci arriviamo nemmeno strisciando».
    Era surreale quella scena, ma partii con una piacevolissima sensazione di caldo nel petto.
    Sull'aereo, mi infilai a fatica nel microscopico sedile, armata di computer portatile e di libro. Mi aspettava un volo di non volevo sapere quante ore, e temevo la noia, così mi ero portata il lavoro e qualche passatempo come cruciverba, sudoku e lettore mp3.
    Dopo un'ora e mezza, sentivo già di poter scoppiare. Non volevo lavorare, non mi riuscivano i cruciverba, né tanto meno i sudoku, la musica non mi aiutava e il nuovo libro era una fregatura. In più, il grasso uomo alla mia destra guardava nella scollatura della mia camicetta ogni due per tre e mi stava davvero facendo innervosire. Non era un bel soggetto: aveva occhi piccoli, grosse guance da criceto, ed era sempre rosso in viso, come se gli andasse costantemente di traverso l'aria.
    Dopo l'ennesima occhiata, cercai di sistemare la mia giacca tra il mio sedile e il suo, ma urtai per sbaglio il gomito contro la sua bibita frizzante, che gli cadde sui pantaloni.
    «Ehi, guarda cos'hai fatto!».
    Se i tuoi bulbi oculari rimanessero al loro posto, invece di cascare costantemente nella sua scollatura, forse non sarebbe accaduto, ringhiò comprensiva la vocetta, incontrando il mio favore.
    «Oh, come mi dispiace!», pigolai, guardandolo con uno sfacciato sorriso soddisfatto.
    L'hostess bionda che stava passando per il corridoio mi individuò e mi rivolse un sorriso freddo e plastico. «Signorina, vuole seguirmi, per favore?», disse con uno strano accento che non sapevo individuare.
    Vuoi vedere che hai fatto incazzare un pezzo grosso! Era strano che non combinassi qualche guaio, disse la vocina, ritornando subito antipatica e saccente.
    «Non ho fatto niente!», mi difesi. «L'ho urtato per sbaglio e lui mi guardava sempre nella scollatura, mi metteva in imbarazzo e... perché lui non lo rimproverate?».
    «Signorina, la prego, mi segua», ripeté come un disco rotto. Erano le uniche parole che riuscisse a dire?
    Mi alzai, stizzita. «Assurdo, ora ci mancano anche le sanzioni disciplinari», borbottai, alzandomi. «Una ragazza non può nemmeno difendere la propria virtù senza essere disturbata, rimproverata e addirittura costretta ad alzarsi e... ehi!», mi voltai indietro attirata da una seconda hostess che prendeva il mio bagaglio a mano. «Quella è la mia valigia!».
    «La prego, signorina, mi segua», l'hostess bionda mi prese gentilmente per un braccio e mi sospinse lungo il corridoio.
    «Non vorrete buttarmi fuori dall'aereo, vero? Non so in che Paese siamo adesso ma sono quasi sicura che l'omicidio sia illegale quasi ovunque...». Mentre parlavo, attraversavamo i settori dell'aereo. Mi guardavo intorno cercando l'uscita da cui mi avrebbero probabilmente gettata in compagnia del mio bagaglio a mano e, se fossero stati magnanimi, di un paracadute, quando ci fermammo nella zona della prima classe.
    «Grazie, Janet», disse una voce familiare. Individuai David nel sedile alla mia destra, con mio immenso sollievo.
    La ragazza sorrise, mentre la seconda hostess sistemava il mio bagaglio negli scomparti superiori.
    Lo guardai, confusa.
    «Non avrai mica pensato che ti avremmo lasciato viaggiare in turistica, vero?», disse sorridendo.
    Il mio cuore, che batteva così forte da vibrare come un diapason, si rilassò. «Ho appena avuto paura che mi gettassero dall'aereo per aver rovesciato una bibita sul ciccione accanto a me, te ne rendi conto?».
    Rise, insieme a Benjamin. «Allora suppongo di dovermi anche scusare per il ritardo. Cercati un posto».
    Sorrisi riconoscente e scorsi un posto libero. Natalie era seduta con Bill, e Tom era davanti a loro. Il posto libero era accanto a lui.
    Come avevo potuto pensare di trovare un posto libero accanto a qualcun altro? Ovvio che fosse accanto a lui.
    Sospirai, rassegnata, e mi avvicinai. Mi aspettavo che avvertisse la mia presenza, ma nemmeno staccò lo sguardo dall'oblò. Guardando attentamente, capii perché: aveva le orecchie coperte da un grosso paio di cuffie e gli occhi chiusi. Cercando di fare meno rumore possibile, e mordendomi le labbra, mi sedetti, attenta anche a non causare troppi spostamenti d'aria. Riuscii miracolosamente a non svegliarlo, ma restava un problema: non potevo muovermi di un millimetro.
    Che cagasotto, mi riprese la vocetta. Hai fatto fuoco e fiamme l'altro giorno e adesso nemmeno hai il coraggio di stargli vicino.
    Tornatene nel tuo anfratto cerebrale, tu, la rimproverai stizzita.
    Guardandolo, non potevo credere che fosse riuscito a farmi addirittura piangere. Io avevo pianto per lui! Elsa Gabriella Fränze che piangeva per Tom Kaulitz. Nemmeno se fosse successo in una puntata di Star Trek ci avrei creduto.
    Mi appoggiai – sempre estremamente cauta – con la testa al sedile e sospirai. Non avrebbe di certo dormito per tutto il viaggio, avrei dovuto affrontarlo.
    Per una volta, però, non ero io quella dalla parte del torto. Lui mi aveva offesa e insultata, avevo il diritto di non parlargli e lui aveva più motivi di me per non volermi affrontare.
    Forte di questa convinzione, mi sentii meno nervosa e più sicura di me stessa. Quando si fosse svegliato, avrei fatto come mi aveva detto Bea: avrei mantenuto la mia faccia di bronzo. Pensandoci, non avevo nemmeno motivo per non volerlo svegliare, così frugai liberamente nella mia borsa in cerca del libro. Se si fosse svegliato, l'avrei ignorato. Ero ancora arrabbiata e ferita, dopotutto: era praticamente impossibile dimenticare le sue parole.
    Circa venti minuti dopo, ero ancora immersa nel mio libro, ma riuscii a sentire Tom muoversi accanto a me. Ero in guardia, le orecchie tese, ma mi sforzai di continuare a leggere.
    «Cazzo!».
    Sobbalzai e mi cadde il libro di mano. Lanciai un'occhiata assassina a Tom, che si premeva la mano che non stringeva le cuffie sul cuore e mi guardava come se avesse visto la Madonna.
    «Tom, cosa c'è?», chiese Bill sporgendosi dal suo sedile. Tom aveva urlato così forte da aver attirato l'attenzione di tutti.
    «Niente, Elsa mi ha spaventato».
    «Che modo sublime e plateale di sottolineare la mia bellezza, Kaulitz. Sono commossa», dissi distrattamente, voltando la pagina. In realtà non avevo ancora finito di leggerla, ma era un gesto molto chic e altezzoso, e in quel momento mi pareva appropriato.
    Tom attese che l'attenzione di tutti gravitasse altrove, ma sapevo che avevamo più occhi addosso di quanti non ne immaginassimo. «Cosa ci fai qui?», mi chiese sottovoce.
    Meglio tagliare corto. «Era l'unico posto libero».
    Era una risposta così lapidaria da non lasciare adito a risposta e calò il silenzio. Finsi di leggere il mio libro – in realtà non ci stavo capendo niente, distratta com'ero – e mi godetti l'atteggiamento deliziosamente colpevole di Tom.
    Passarono parecchi minuti, poi sospirò, evidentemente al limite della sopportazione. «Senti, io non sono la classica persona che chiede scusa, d'accordo? Quindi segnati questa data perché non lo ripeterò più: mi dispiace per quello che ho detto».
    Aveva parlato così velocemente da non avermi dato il tempo di interromperlo. «Non tutto si risolve con le scuse, lo sai? Specie in questo caso. Te le puoi tenere, nessuno te le ha chieste».
    Provò a rispondere, ma poi vidi con la coda dell'occhio che si tenne prudentemente la lingua tra i denti, cercando di non rispondermi.
    Gli facilitai il compito: «non ho nessuna voglia di litigare per le prossime dieci ore, Kaulitz, quindi puoi tenere chiuso il becco».
    «Io almeno sto provando a risolvere la situazione e a chiarire. Tu stai solo facendo la stronza menefreghista».
    Mi sentii furiosa, ma mi sforzai di mantenere quella maschera da perfetta padrona della situazione e continuai a fingere di leggere. «E cosa c'è da chiarire? La cronologia degli eventi è abbastanza chiara, mi pare», gli rivoltai contro le sue stesse parole, pregando che capisse quanto odiose fossero state.
    «Ti ho già detto che mi dispiace per quella scenata».
    «Ma a me no. È venuta fuori la tua indole almeno».
    Bea non ti aveva detto di non esasperarlo?, mi ricordò candidamente la vocetta. Era più forte di me, però: non riuscivo a mandar giù quello che mi aveva detto.
    «Con te perderebbe la pazienza anche un santo», ringhiò Tom, stringendo i pugni. «E guardami negli occhi quando parlo». Mi tolse il libro di mano e mi costrinse a guardarlo. «Tu non capisci. Mi dispiace davvero per quello che ho detto. E non riesco a credere che tu me lo stia facendo ripetere così tante volte».
    «No, Tom, sei tu che non capisci. Non puoi trattare così le persone e poi pretendere che si risolva tutto scusandoti. E anche se volessi costringere la mia mente ad accettare le tue scuse, non troverei un valido motivo per farlo».
    Si schiacciò le labbra, fissando con amarezza la copertina del libro che mi aveva strappato di mano. «Ora improvvisamente sei diventata la vittima e io il carnefice. Mi fai la lezione come se fossi mia madre, senza nemmeno considerare che io per primo ho costretto la mia mente a provare a capirti. Perché sai come ti giudicherebbe chiunque? Complicata».
    «Ti ripeto, Kaulitz, che non te l'ho chiesto».
    «E chiunque rinuncerebbe all'impresa, perché, sì, è un'impresa», continuò.
    «Ah, ora sei diventato anche il bravo ragazzo che per pietà prova a capire me, la povera ragazza misantropa che in realtà è dolce e fragile. È ridicolo».
    Sospirò ancora, forse facendo appello a tutta la sua pazienza. «Mi hai sempre trattato di merda, fin dal primo giorno, sei sempre stata acida e cinica».
    «Se devi continuare con la lista dei difetti puoi anche piantarla, perché so come sono fatta».
    «Quello che voglio dire», alzò la voce per mettermi a tacere, «è che non sei l'unica che è rimasta ferita. Sai che significa cercare di interagire con te? Significa essere ignorato per giorni, correre il rischio di essere sbranato alla prima parola fuori posto, stare dietro alle tue lune storte, essere insultato e poi respinto, e, questa è la peggiore di tutte, essere confuso riguardo a ciò che vuoi e che senti. Non credere di essere l'unica con dei buoni motivi per mandare a fanculo tutto». Alzò una mano per interrompere la mia replica pronta. «E prima che spari uno dei tuoi stupidi “nessuno te l'ha chiesto”, sappi che me l'hai chiesto tu nel momento esatto in cui hai deciso di pranzare con me, di lavorare con me, di fare quasi sesso con me e di instaurare un legame con me, per quanto strambo possa essere. Quindi, ti prego, risparmiati la tua paternale del cazzo, perché non attacca».
    Cazzo, ha ragione, sì stupì la vocetta, facendo perfettamente eco ai miei pensieri.
    «E pensi di essere giustificato?», ingoiai aria a vuoto. «Sei comunque scappato, mi hai comunque trattata in quel modo indecente».
    Si decise a guardarmi, ovviamente, male. «Avevo le palle strapiene del tuo atteggiamento sfuggente, mi ero rotto di cercare di capire cosa provassi, o di cercare di fartelo capire. E sono esploso».
    «E questa è un'ottima scusa per giocare con i miei sentimenti e darmi del robot, giusto?».
    «Giocare con i tuoi sentimenti? Elsa, fatti un'analisi di coscienza: invitare il tuo aristocratico ex ragazzo ad una cena con me e Bill presenti, quello si chiama giocare con i sentimenti. Baciarmi e poi far finta di niente, questo lo è. Far credere a Bill di avere una cotta per lui, anche questo è giocare con i sentimenti altrui. Di certo non lo è perdere la pazienza. Per gli insulti, ti ho già detto che mi dispiace. Ho parlato senza pensare. Senza contare che ci sei andata pesante anche tu».
    Cazzo, ha ragione di nuovo.
    Era riuscito a farmi passare dalla parte del torto e nemmeno ero sicura di come avesse fatto.
    Non lo riconoscevo e non riuscivo a capire quale parte di lui fosse quella autentica: il pallone gonfiato, immaturo e insensibile che faceva sfoggio di sé o quella persona riflessiva e più umana, che riusciva anche ad essere divertente e piacevole?
    «Non dici niente?», m'incalzò.
    Mi resi conto di volermi riprendere il mio libro e chiudermi in un ostinato mutismo. Se l'avessi fatto, però, gli avrei dato ragione riguardo alle mie lune storte. Non volevo dargliela vinta. «Sei molto bravo a rigirare le frittate, ma quello che hai fatto rimane», dissi. «E non ho mai agito in cattiva fede riguardo a te e a Bill, io stavo solo...».
    «Scappando», completò lui per me. «Sì, so come ci si sente».
    Improvvisamente non mi sentivo più arrabbiata con lui. Anzi, sentivo che poteva comprendermi. Stavo scoprendo un'affinità con Tom Kaulitz e improvvisamente tutti i miei discorsi riguardo al volere che se ne stesse nel mio schermo o in un poster persero tutta la loro importanza.
     
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  14. .Enigmatic
     
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    Che agonia! xD
    Dunque, intanto ti devo sgridare per il fatto che dopo quello che è successo nello scorso capitolo, mi hai lasciato a bocca asciutta per tutto sto tempo; spero di non dover aspettare di nuovo così tanto per il prossimo, soprattutto in questa situazione.
    Dunque, sono sincera, Elsa ogni tanto mi da un pò sui nervi. Ha ragione nel rimanerci così male per ciò che le ha detto Tom, ha ragione per tutto quello che ha detto. Tom non è stato di certo carino ma sono convinta che quelle cose, come ha anche affermato lui, non le ha dette per cattiveria, e soprattutto, perché ci crede davvero. Elsa, per quanto possa avere ragione, è davvero troppo complicata. Vuole le cose, le insegue, poi scappa, poi le rivuole, arrivano e non le van bene perché scappa di nuovo... E' tutto così e non riesco veramente a capire che cosa pretenda xD
    Tom si è scusato, cosa che non capita tutti i giorni, e lei ha avuto ancora qualcosa da ridire, nonostante si fosse ripromessa di non trattarlo male. Io giuro che non la capisco O.O
    Perchè non può semplicemente mettere da parte il suo orgoglio e viversi i suoi sentimenti, dato che sono abbastanza forti?
    E' palese che anche Tom è cotto di lei, quindi, perché tanti problemi? Potrebbero mettersi insieme in due secondi, se solo provassero ad accantonare il loro orgoglio. Tom per lo meno, l'ha fatto. Ahahah, scusami, ma in questo momento ce l'ho proprio con Elsa, perché alla fine tutto dipende solo da lei, arrivati a questi punti.
    Io ora sono tremendamente curiosa di sapere cosa succederà durante questa settimana. Ovviamente spero che i due si chiariscano una volta per tutte e la smettano di litigare ogni secondo. Mi sento quasi disperata per loro e mi incazzo anche, davanti alla schermo del mio pc, perché non mettono una pietra sopra a ciò che succede. So che in molti momenti non è facile... Ma così stanno solo male entrambi e non lo capiscono. Più che altro Elsa non lo capisce. Perché distruggersi in questo modo quando ci sono tutti i presupposti per stare insieme? Ripeto, che agonia! XD
    Il momento della partenza è stato divertente. Didi è l'amico che chiunque vorrebbe; divertente, ironico, pazzo ma anche protettivo ed intelligente. Ma soprattutto gay! Quanto vorrei un amico gay! Ahahah! (:
    Anche la scena in cui Elsa piange e Bea cerca di consolarla, anche con i suoi modi un po' burberi, sei riuscita a farla risultare comica, proprio come piace a me. Questo perché sei bravissima e il tuo modo di scrivere è impeccabile, ma questo te l'ho detto tantissime volte. Chiunque imparerebbe davvero tantissimo da te.
    Mi raccomando, aggiorna in fretta, o io muoio... E questi due, poveracci, falli quagliare che non ce la fanno più entrambi (:
    Un bacione.
     
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  15. J a n i s
     
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    Ahahah. Ma no, la suspence è troppa però così!
    Elsa è sempre la solita. Pur consapevole di avere torto marcio, continua a sostenere il contrario. E' un mito. E Tom ha esagerato, anche se poi alla fin fine ha ragione su tutti i campi, ma reagisce sempre troppo impulsivamente. Diciamo che sono molto più simili di quanto non credano di essere, questi due furboni.
    Non vedo l'ora di leggere cosa accadrà a Miami. E abbi pietà di noi, non farci aspettare ancora così tanto per il prossimo capitolo, LOL.
    Per il resto, bravissima come sempre. Inutile dire che ad ogni tuo capitolo rimango sempre con l'acquolina in bocca, in attesa di quello successivo.
    E non ci abbandonare sul più bello, eh. Mi raccomando. (;
     
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218 replies since 23/6/2009, 12:26   5970 views
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