Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Grazie mille! ^^
     
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  2. Monique;
     
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    Eccomi qua, finalmente. Questo è un capitolo molto, molto, molto importante per me e vi prego di non leggerlo di fretta, se non avete tempo. Spero che vi emozioni quanto ha emozionato me scriverlo e che lo faccia così tanto da lasciare un commento.
    Buona lettura!



    Capitolo 12





    La mia testa non era mai stata così fitta di pensieri. Dall'inizio di quel dannato anno, la mia nevrosi galoppante era peggiorata.
    Guardavo con aria assente il tavolo della cucina, facendo agitare il fondo di caffè nella tazza. Erano già le undici passate.
    Avevo dormito poco e male, mi portavo dietro i postumi della distruttiva sensazione della sera prima e ne ero stata conscia perfino nel sonno.
    Gettai sconfortata la tazza nel lavello e andai a crollare sul divano. Non avevo voglia di fare niente, non volevo nemmeno impegnarmi per dimenticare come mi sentivo. Ero del tutto debole, vulnerabile.
    Mio padre mi avrebbe guardata disgustato, se mi avesse vista in quello stato.
    «Luna storta?», mi chiese Didi, sbucando dal corridoio. Strano che solo alle undici del mattino fosse già perfettamente sveglio e in ordine.
    «Sono nei casini», dissi. Nemmeno mi sforzai di nascondere niente. Che senso aveva, a quel punto?
    «Non ci credo», rispose, versandosi del caffè in un bicchiere.
    «Sì, fai bene. Sono nella merda fino al collo, in realtà».
    Sorrise, come farebbe una madre comprensiva e quello sguardo mi diede la nausea. Mi fece sentire ancora peggio.
    «Che hai combinato?», chiese, dopo aver preso un sorso.
    Scossi la testa, sbuffando, e ricordai di dover rispondere ad un messaggio di Sven. Sperai che non mi si appiccicasse come una zecca e che non si facesse illusioni.
    La sera prima, quando mi aveva riaccompagnata a casa, si era creato – ovviamente – un momento di forte imbarazzo. Il silenzio e il buio della sua macchina avevano rievocato troppe immagini familiari, ma avevo tentennato solo un momento. L'avevo salutato, ringraziato e poi, finalmente, avevo concluso quella terribile serata.
    In quel momento, dopo una notte, anche se quasi del tutto insonne, capivo bene di non provare più quel genere di sentimenti per lui. Era davvero una pagina del mio passato.
    «Si è persa di nuovo». Didi mi riportò alla realtà. Notai che si era seduto sul divano accanto a me.
    «Sto bene», mi affrettai a dire e scattai in piedi per cercare di rimuovere almeno in parte la sensazione di intorpidimento che provavo. Afferrai le chiavi dal piattino vicino alla porta d'ingresso e m'infilai il giubbotto.
    «E ora che fai?».
    «Esco. Non ce la faccio a stare in casa».
    «Vuoi che venga con te?».
    Scossi la testa. «Non prendo il cellulare, sarò del tutto irraggiungibile, okay?».
    Accese la tv e mi salutò con un gesto distratto della mano. «Non svenire per il nervoso in strada, o, peggio, aggredire il primo malcapitato che incrocia il tuo cammino».
    Alzai un sopracciglio e aprii la porta. «Quanta fiducia», dissi sarcasticamente.
    Mi rispose con un sorriso da lampada abbronzante e una sfarfallata di ciglia. «Nel peggiore dei casi, dirò che non ti ho mai vista prima».
    Alzai gli occhi al cielo e uscii di casa.
    Febbraio stava quasi per finire, tuttavia il clima non cambiava molto. Faceva piuttosto freddo. Ma avevo voglia di camminare, non avrei nemmeno preso la macchina.
    Avrei potuto comprare qualcosa di carino da mettere per tirarmi su il morale, se non fosse stato per la borsa e il portafogli: li avevo dimenticati a casa e avevo già fatto qualche metro. Non volevo tornare indietro.
    Ed è anche domenica, zucchero, mi disse la vocina.
    Sospirai e optai per una semplice passeggiata. Avrei smaltito il nervosismo continuando a camminare. Per pura fortuna, quel giorno la strada di casa mia non era molto frequentata. Ne ero contenta, non volevo essere avvistata da nessuno.
    Qualche secondo dopo, qualcuno mi afferrò violentemente per un braccio. Spaventata, opposi resistenza e mi voltai per vedere chi mi stesse strattonando così forte e nello stesso frangente ricordai che non c'era molta gente per strada.
    Vidi un individuo coperto fino alle orecchie da una sciarpa scura e due occhiali da sole dalle lenti enormi.
    «Chi cazzo sei!?», dissi, con il cuore che mi batteva all'impazzata, mentre quello che era evidentemente un uomo mi trascinava in una traversa della strada. Non ricevetti nessuna risposta. «Sto per mettermi ad urlare», lo avvertii già a voce piuttosto alta, tentando invano di opporre resistenza.
    «No, ti prego, non sarebbe piacevole per le mie orecchie», rispose una voce fin troppo familiare. Strabiliata, lo osservai abbassare la sciarpa a quadrettoni fin sotto il mento e sfilarsi gli occhiali da sole.
    «Tom?!», strillai, incazzata come una iena.
    «Non urlare!», sibilò, guardandosi furtivamente intorno.
    «Non urlare?!», mi liberai con uno strattone dalla sua presa, sperando di poterlo incenerire con gli occhi. «La devi piantare di fare queste americanate del cazzo, o non arrivo ai venticinque!».
    «Sono abbastanza vicino da strozzarti, potrei non farti arrivare davvero ai venticinque», mi avvisò, fissandomi negli occhi.
    «E io abbastanza alta da castrarti con una ginocchiata. Impedirei volentieri la nascita di altri coglioni, ora che ci penso», ribattei, stringendo i pugni. Il cuore mi batteva così forte per lo spavento da rimbombarmi nelle orecchie.
    Tom aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi chiuse gli occhi e fece un profondo respiro, unendo gli indici davanti alla bocca.
    «Se vuoi lascio te e te stesso da soli, mi sento di troppo».
    «Vuoi stare un momento zitta?! Sto tentando di non commettere un omicidio».
    «E io stavo tentando di farmi i cazzi miei prima che un deficiente mi facesse quasi crepare per lo spavento!».
    Ringhiò e alzò gli occhi al cielo. «Perché non riesco mai a parlare con te senza aver voglia di mandarti a fanculo?».
    Prima che potessi rispondere, mi tappò prontamente la bocca con una mano. Spalancai gli occhi, sorpresa, e nel mentre realizzai che eravamo a pochi metri da casa mia e che probabilmente Tom era lì per vedere me. Non avrebbe avuto senso il contrario.
    Elementare, Watson, sghignazzò la vocina nella mia testa.
    Mugugnai qualcosa contro il suo palmo caldo, poi mi arresi. Mi portai le mani sui fianchi, battendo ritmicamente un piede a terra.
    Mi liberò prudentemente. «Finito?».
    «Sì. Perché sei qui?».
    In risposta ricevetti uno sguardo di fuoco. «Per parlare».
    Mi morsi le labbra. Avrei dovuto aspettarmi qualcosa del genere, dopo la sera prima. Di certo, Tom non sarebbe restato impassibile: l'avevo fatta troppo grossa.
    «Va bene, parliamo», acconsentii, già nervosa.
    «C'è la mia macchina qui vicino».
    Si ricoprì il viso, tentando di passare inosservato – in realtà sembrava un mezzo terrorista – e si avviò. Mentre lo seguivo, mi sembrava di percorrere un tappeto di spilli.
    Ci infilammo nella BMW di Bill, non molto discreta, ma sicuramente meno appariscente di un'Audi supersportiva o di una Cadillac.
    Restammo in silenzio per parecchi minuti, mentre guidava per le strade di Amburgo. Realizzai che era la prima volta in cui eravamo realmente da soli. Nessuna paura di essere ascoltati, nessuna presenza di qualcun altro dei ragazzi ad aleggiare.
    «Sei una stronza», disse, alla fine.
    Lo guardai, stupita e un po' offesa. «Avresti anche potuto trovare un altro modo per esordire, trovi?».
    «No, non trovo», strinse il volante. Non avrei saputo dire dove guardasse, coperto da quei grossi occhiali scuri. «Sei proprio una stronza».
    Lasciai cadere il braccio sulla sporgenza del finestrino e guardai oltre il vetro, rassegnata. «Sì, lo so». Vulnerabile com'ero, non riuscivo proprio ad oppormi. E poi, aveva ragione.
    «E ieri sera hai proprio raggiunto l'apice».
    «Senti, non parlarmi di ieri sera, va bene? Lo so quello che ho fatto, non c'è bisogno che me lo ricordi».
    «Invece non lo sai. Tu non hai idea del casino che hai combinato. E non solo ieri sera», lo vidi contrarre i muscoli della mascella. «Perché fai sempre finta di niente?».
    Stavo per rispondere, ma la mia attenzione fu catalizzata da due persone che stavano per entrare nell'area pedonale vicino al Mabou.
    «Elsa?», mi richiamò Tom.
    «Guarda là», dissi, indicando la coppia con il dito. La ragazza aveva lunghi capelli biondi ed indossava eccentrici pantaloni a righe grigie e blu infilati in un paio di stivali neri. Solo una persona avrebbe potuto fare un simile accostamento.
    «Ma quello è Georg», disse, sporgendo il collo verso il mio finestrino.
    «E quella è Bea». Ed erano insieme. Avevo chiarito con lei, ma mi bruciava ugualmente che passasse del tempo con Georg.
    Prenditi un antinfiammatorio, dolcezza. Non fare quello che stai pensando di fare.
    Ignorai la vocetta e decisi di seguire il mio istinto. Voltai il viso verso Tom. «Che ne dici di seguirli?».
    Inarcò un sopracciglio, scettico. «Dico che dovremmo farci i cazzi nostri».
    «Sei proprio noioso vecchietto. È strano che Georg se ne vada tranquillamente in giro a piedi ad Amburgo, no? Per di più in piena mattinata. Ed è strano che Bea glielo lasci fare, è troppo paranoica».
    «Quello che è strano è che tu stia qui ad interrogarti su cosa vogliano fare quei due. Ce l'avranno il diritto di fare ciò che vogliono».
    «Io voglio seguirli», decretai, decisa. «Parcheggia, prima che le macchine dietro ci passino sopra».
    Sbuffò sonoramente e obbedì, mentre io tenevo d'occhio quei due. Ero davvero curiosa di capire dove stessero andando.
    Non dire stronzate. Tu vuoi posticipare il momento della verità e stai usando la prima scusa disponibile.
    Dettagli.
    Appena Tom parcheggiò, scesi dall'auto. Mi affiancò in pochi secondi e insieme attraversammo per raggiungere la zona pedonale.
    «Esattamente, perché lo stai facendo?».
    «Georg cosa dice di Bea?», lo ignorai, continuando a camminare. Non c'era molto vento, ma il cielo era ugualmente coperto. Mi dispiaceva che non ci fosse il sole.
    «Dice che gli piace davvero», rispose dopo aver riflettuto qualche minuto. «Penso che faccia sul serio».
    «Esatto! Bea non è di quest'idea, dice che si stanno solo frequentando».
    Mi fissò, scettico.
    «Va bene, d'accordo», capitolai, sbuffando. «Ha detto che non stanno ancora insieme insieme».
    «Insieme insieme...», Tom scosse la testa. «Elsa, quei due legano più della maionese con le patatine».
    «E allora? A me non piace la maionese sulle patatine».
    «Perché sei leggermente suonata», spiegò.
    Ritornai a guardare nella direzione verso cui erano spariti e non li vidi più. «Ecco, vedi? Per colpa tua li abbiamo persi!».
    «Per colpa mia, ovviamente».
    «Dici che sono andati verso il parco?», chiesi.
    «Dico che stiamo attirando troppo l'attenzione, che è domenica mattina e le ragazzine sovreccitate sono tutte in giro».
    Il cuore riprese a battermi ad una velocità anormale. Non volevo perdere la mia unica distrazione, l'unica scusa che mi avrebbe evitato di parlare seriamente con Tom. Non volevo nemmeno rimanere in macchina a friggermi nella tensione, ero uscita apposta per smaltirla. Mi guardai intorno sperando nel miracolo di riavvistarli e posai gli occhi sull'entrata di uno dei ristoranti a cinque stelle dell'area pedonale.
    Oggi è proprio la giornata degli incontri, commentò la vocina perfidamente.
    Vidi mio fratello Joseph, più appesantito del solito, dirigersi verso l'entrata del ristorante con Annika e mio padre. Sentii una fitta da qualche parte nello stomaco così forte che mi portai una mano sulla pancia.
    «Ti sei incantata?», mi chiese Tom, guardando nella mia stessa direzione. «Ma quella è la tua famiglia! Quella specie di pupazzo impomatato però non l'ho mai visto».
    «Il pupazzo impomatato è mio fratello», dissi semplicemente, continuando a guardarli. Com'era familiare la sensazione che provavo in quel momento. Mi sentivo esclusa, non voluta... dimenticata del tutto.
    «Oh», esalò Tom, in evidente imbarazzo. «Non volevo dire che è un pupazzo impomatato. Cioè, lo so che è quello che ho detto, ma...».
    «Tranquillizzati», miagolai quasi, camminando verso una delle panchine di fronte al ristorante. Non sapevo perché volessi rimanere nei loro paraggi, ma non mi posi domande. Tom non mi contestò e mi seguì. «Joseph è proprio un pupazzo impomatato. Ed è un completo imbecille», aggiunsi. Mi sedetti e mi accesi una sigaretta.
    Tom accanto a me fece lo stesso, rimanendo in silenzio.
    «Sai cosa?», cominciai. «Non mi dà fastidio che abbiano una vita. Non mi dà fastidio che riescano ad essere felici anche senza di me. La cosa che mi fa terribilmente incazzare è che ogni volta me la prendo con me stessa». Aspirai con forza. «Come se mi colpevolizzassi di non essere stronza, snob, altezzosa e insopportabile quanto loro».
    Lo sentii ridere silenziosamente e, nonostante sentissi dentro un dolore d'inferno, sorrisi anch'io, ma amaramente.
    «D'accordo, io sono tutte queste cose messe insieme e anche di più. Ma loro sono diversi da me».
    «Può essere», mi concesse. «Ma tu sei diversa quando sei con loro. Specialmente con Aaron».
    «E tu che ne sai?», domandai, subito sulla difensiva.
    «L'ho visto. Lo vedo anche ora».
    Che nervoso. Odiavo quelle risposte sibilline. «Saresti così gentile da spiegarti?». Tentai di mantenere la calma.
    «La domenica in cui abbiamo pranzato insieme a te e alla tua famiglia sei stata in silenzio per tutto il tempo. E quando hai spiccicato mezza parola, Aaron ti ha sempre messa a tacere. Ma tu gliel'hai lasciato fare».
    Voltai di scatto la testa verso di lui. «Gliel'ho lasciato fare?!», ripetei, allibita.
    «Precisamente», disse, per niente impressionato dalla mia sorpresa. «Gli permettevi di continuo di condizionarti, di stroncarti, e lo stai facendo anche adesso. Guarda come ti sei ridotta all'improvviso, solo per averlo visto. E pensare che, se solo volessi, potresti dare un calcio nelle palle a lui e a tutta la sua manica di aristocratici». Aspirò ancora, tranquillo.
    Qualcos'altro dentro di me si ruppe del tutto. Era come se un muro fosse crollato, e non mi faceva soffrire come al solito.
    «È facile parlare per te», dissi dopo aver aspirato. Tentai di apparire disinvolta e noncurante. «Ti posso assicurare che è difficile vivere sapendo che tuo padre ti odia, non solo perché tua madre ha preferito morire e farti nascere invece che curarsi, ma anche perché sei tutto il contrario di ciò che avrebbe voluto e si vergogna di te», dirlo ad alta voce mi faceva più male di quanto pensassi. Non era la prima volta che lo confessavo, ma in quel momento provavo un dolore diverso. Non la solita atavica e rassegnata sofferenza. Questa era più sentita, più consapevole. «Io non riesco ad ignorare tutto questo. Ed ogni volta che lo vedo ci sto male. Non posso farci niente».
    È il discorso più lungo che gli abbia mai fatto parlando civilmente, sai?
    «No, forse non lo so», disse a bassa voce. «Ma posso immaginare come ci si sente. Mio padre fa il camionista ad Hannover e lo sentiamo una volta all'anno, se tutto va bene. E so anche cosa significa sentirsi esclusi e non voluti».
    Mi ricordò Bill il modo in cui disse quelle parole. Erano più simili di quanto pensassi.
    «I vostri compagni a scuola, già». Bea mi aveva accennato qualcosa in proposito.
    «So che non è la stessa cosa. I miei compagni non li ho mai più rivisti, e nemmeno i professori. Però so anche che...», si aggiustò gli occhiali e si calcò il cappello sulla fronte, appena imbarazzato, «che hai tutte le carte in regola per superare questa cosa».
    Rimasi colpita dalle sue parole. La parte disillusa di me mi diceva che era solo una frase di circostanza e in passato le avrei creduto ad occhi chiusi. In quel momento però mi stavo fidando di Tom – com'era assurdo, ridicolo e terribilmente sdolcinato pensarlo – e delle sue parole. Erano un incoraggiamento che, inaspettatamente, funzionò.
    «Non mi guardare come se ti avessi appena salvato la vita», mi disse. «Mi sento già abbastanza svenevole».
    Sorrisi lentamente, alzando un sopracciglio. «Era ora che ti accorgessi di esserlo. Tutti ormai sanno della tua dolcezza innata».
    «Ma certo», sogghignò, «pensa che quando sono da solo cucino dolcetti con l'aiuto degli uccellini e degli scoiattoli».
    «Con un grembiule rosa, immagino».
    «Ovviamente. Qualche volta ti invito».
    «Per mangiare i dolcetti?».
    «No, per pulire dopo che io e gli animaletti ci siamo abbuffati».
    «Porterò una mela avvelenata, allora».
    Ridacchiammo e mi sentii più leggera.
    «A proposito di cibo, io ho una fame da lupi», disse.
    Io avevo fatto colazione tardi, ma avevo già un certo languorino. «Sì, anch'io. Ma lì non ci voglio entrare», indicai la porta in legno e vetro del ristorante con un cenno.
    «Veramente pensavo al Mc Donald's...».
    «Non eri vegetariano?», domandai curiosa. Lui e Bill avevano da poco adottato questa nuova – incomprensibile, per me – dieta e sembravano seguirla rigidamente.
    «Diciamo che Bill lo è molto più di me. Io sgarro ancora».
    Scossi la testa e ci alzammo. Tom continuava a guardarsi intorno furtivamente, era evidentemente preoccupato della probabile presenza di paparazzi e fan pronte a scorticarlo vivo. Lo capivo, forse qualcuno ci aveva già fotografati insieme. La sola idea di finire in prima pagina e sui siti internet mi atterriva.
    Ci infilammo di nuovo in macchina – Tom era stato avvistato da un gruppo di ragazzine che l'avevano anche indicato, ma ci eravamo nascosti nell'auto appena in tempo.
    «Odio non poter andare in giro senza dovermi preoccupare», sospirò, partendo.
    Ora che eravamo di nuovo soli, il motivo per cui era venuto a casa mia a parlarmi poteva ritornargli in mente e dovevo assolutamente distrarlo.
    Sei una maledetta fifona, ipocrita e approfittatrice. Secondo te è così stupido da dimenticarsene?
    No, ma ero anche stanca di sorbirmi ramanzine sul mio comportamento, su quanto fossi irresponsabile, ingiusta e così via.
    Così, guidai Tom verso il McDrive più vicino. Stette in silenzio per tutto il tempo e mi arresi all'evidenza: dovevo affrontare quel discorso. Lo sapeva anche lui.
    Circa un quarto d'ora dopo eravamo parcheggiati vicino ad un parco e avevamo due panini, un pacco enorme di patatine a testa e due grandi bicchieri di Coca Cola.
    «Buon appetito», disse Tom, addentando il suo Big Mac.
    Lo guardai tranciar via quasi metà del panino con un solo morso, e inevitabilmente sporcarsi le mani e l e labbra con il cheddar.
    «Merda...», disse tentando di pulirsi con la cartina del panino.
    «Fai impressione quando mangi». Ripescai un fazzolettino da un pacchetto di fortuna trovato nella tasca del giubbotto e glielo porsi. Lo prese e si ripulì come poteva.
    «Voglio proprio vedere come farai con il tuo».
    Tirai fuori il mio McRoyal Deluxe dalla scatolina con fare altezzoso e ne presi un morso. Solo che era talmente farcito di maionese che mi sporcai le mani e perfino il giubbotto nero.
    «Fai proprio impressione quando mangi», mi scimmiottò.
    «Zitto». Tirai fuori un altro fazzolettino e mi pulii le mani. Tentai di fare qualcosa anche per il giubbotto, ma non ci riuscii. «Ora puzzerò di maionese, che schifo».
    «Tu insozzati pure, ma attenta a non sporcare la carrozzeria».
    Feci schioccare la lingua e mi tolsi il cappotto, attenta a non rovesciare altro. Quando l'ebbi gettato sui sedili posteriori, mi girai e notai che Tom mi stava fissando, per metà divertito e per metà sorpreso.
    «Carina la tua... ehm, il tuo look».
    Abbassai lentamente lo sguardo sulla mia maglia, con la strisciante sensazione di una figura di merda più che imminente.
    «Oh, no», piagnucolai.
    Indossavo la maglia di un mio pigiama, bianca, con una bizzarra pecorella rosa e azzurra stampata sotto il seno. Avevo dimenticato di toglierla quando mi ero vestita.
    «Davvero indossi pigiami così?», mi schernì Tom, indicandolo. Gli veniva da ridere.
    «Non guardarmi!», strillai, tentando di coprirmi con le mani.
    «No, dai, fammi vedere. Non ho capito se sotto alla pecorella c'è Hello Kitty o Pucca». Allungò una mano per allontanare le mie, ma opposi resistenza con tutte le mie forze.
    «Non osare!», gli schiaffeggiai una mano, divertita mio malgrado.
    «Invece oso eccome! Immaginavo che portassi un altro tipo di pigiami».
    Mi bloccai per fissarlo con occhi sgranati. «Tu non devi immaginare proprio niente, pervertito!».
    Mi ignorò bellamente e continuò a squadrarmi con occhio critico. «Ma devo ammettere che mi piace anche così. La trasparenza è perfetta. Sexy al punto giusto».
    «Ma che cos'hai nella testa? Viagra in polvere e segatura?».
    Devi specificare quale testa, tesoro. Ma è comunque probabile che in entrambe ci sia la stessa cosa.
    «Piantala di fare la puritana, non inganni nessuno».
    «Non faccio la puritana!».
    «Ma certo che no», mi sfarfallò le ciglia in faccia e mi sorrise, prendendomi palesemente per il culo. «Comunque, me le aspettavo più piccole».
    Dapprima non capii. Poi abbassai lo sguardo sul mio seno. «Sei proprio un pervertito!», mi allungai per picchiarlo, ma lui parò tutti i miei colpi.
    Improvvisamente, sentii un rumore, a cui seguì un'orribile sensazione di bagnato sulle ginocchia e sulle caviglie.
    «Ops», disse lui, un lampo di terrore negli occhi.
    Guardai in basso: la Coca Cola si era rovesciata sui miei jeans e a terra, insieme al panino, che si era aperto. Sulle mie scarpe e sul tappetino erano comparse chiazze rossastre e verdi– i pomodori e l'insalata, probabilmente – e scaglie di cipolla condita da abbondante maionese.
    «Merda», dicemmo in coro. Ci guardammo e scoppiammo a ridere.

    «Bill mi ucciderà», disse, tirando fuori il tappetino lercio dalla macchina. Ci eravamo fermati in una traversa qualsiasi per finire di mangiare e riparare ai danni alla tappezzeria della preziosissima macchina di Bill.
    «Quanto la fai sporca», commentai, masticando una delle mie patatine, comodamente appoggiata ad un muro. Mi ero rimessa il giubbotto – anche se puzzolente e macchiato – per evitare altre plateali figuracce.
    «Mi dici perché tu devi startene lì a mangiare, mentre io tento di ripulire da solo?».
    «Perché io sono una ragazza d'alto rango, non posso abbassarmi a tali livelli».
    «E io sono una rockstar di fama internazionale e le mie guardie del corpo mi preparano pure la carta igienica quando vado al cesso».
    «Ma non sei una ragazza», ribattei, mangiando con gusto l'ultima patatina.
    Sbuffò e appoggiò al muro il tappetino. «Dobbiamo aspettare che si asciughi. Non so come fare per il sedile. Dovrò aspettare domani per portare a lavare la macchina, ma nel mentre Bill se ne accorgerà».
    Appallottolai la busta delle patatine e la lanciai in macchina, approfittando del finestrino aperto. «Non puoi innaffiarlo con il ghiaccio del tuo bicchiere di Coca Cola? Sicuramente si sarà sciolto».
    Tom mi guardò, allibito dal mio gesto noncurante e dalla mia proposta. Poi scosse la testa, tentando di calmarsi. Risi del suo modo di gesticolare.
    «Ti fai troppi problemi», sfregai le mani tra loro per mandare via il sale.
    «Senti chi parla. Sali, andiamo».
    Sembrò di colpo più serio, più nervoso e indubbiamente infastidito.
    Si avvicina il momento della verità, disse la vocina, come una voce fuori campo in un film horror.
    Arrotolai il tappetino e salii, subito imitata da lui. Mi aspettai che prendesse la strada di casa mia, ma dopo qualche minuto di silenzio mi resi conto che guidava senza una meta.
    «Terra chiama Tom Kaulitz».
    Si sfilò la sciarpa e sorrise appena.
    «Non pensare troppo, o esploderai e Bill si lamenterà con me della macchina».
    «Veramente volevo... riprendere l'argomento per cui sono venuto a casa tua oggi».
    La vocina intonò una musichetta lugubre nella mia testa. Sentii crescere l'agitazione dentro di me. Mi morsi le labbra e guardai oltre il finestrino.
    «Ah».
    Mi lanciò un'occhiata, prima di tornare a guardare la strada. «Volevo parlare di... di noi».
    Sgranai gli occhi.
    Allarme rosso, allarme rosso, prese a dire la vocetta.
    «Di noi?», quasi mi misi a ridere. Non volevo sminuire le sue intenzioni, ma l'idea di un noi da me non era mai stata nemmeno considerata.
    Anche lui parve rendersi conto dell'ambiguità della sua frase, ma non sorrise e sembrò molto più sulle spine di me. «Voglio dire... della situazione che si è creata», spiegò.
    Sospirai. Altro che sensazione di leggerezza: in quel momento mi sentivo tesa come una corda di violino.
    «Mi chiedo perché ti ostini ad ignorarla».
    Mi torturai le dita delle mani, imbarazzata e a disagio. «La ignoro perché... perché siamo colleghi e abbiamo un album da finire. Confrontando tutto con questa prospettiva, mi sembra davvero inutile fermarsi a rimuginare».
    «Ma ci sono tensioni nel gruppo, e anche tra me e Bill. Non riusciamo a lavorare serenamente così, e i risultati si vedono tutti».
    «Questi sono problemi vostri».
    «Problemi nostri?!», si alterò. «Ne hai dette di stronzate da quando ti conosco, ma questa è la più grande, te l'assicuro».
    «E cosa vuoi che faccia?! Che mi metta a consolare ogni cuoricino spezzato?».
    L'atmosfera era repentinamente cambiata. Ora la tensione era alle stelle e l'aria così densa da poterla tagliare con un coltello.
    «Ma per favore», mi sbeffeggiò, stringendo il volante. «Ma non facendo niente le cose peggiorano e basta».
    Mi sentii deliberatamente attaccata, senza un perché. I miei argini si stavano lentamente crepando e non potevo – né volevo – trattenermi come al solito. «Non so cosa fare, Kaulitz, va bene?», capitolai. «Io... non avevo questi programmi, non avevo questi piani, è andato tutto come non volevo che andasse. E non so cosa fare». Era così imbarazzante parlarne davanti a lui. Era come ammettere al nemico il proprio punto debole. «E tu sei venuto a casa mia per parlare di questo?».
    «Mi sembra abbastanza ovvio», disse duramente. «Quindi cosa intendi fare? Giocare con i sentimenti, continuare ad ignorarli, fare finta che non sia mai successo niente?».
    Lo guardai, portandomi una ciocca indietro. Ero abbastanza stronza ed egoista da fottermene dei sentimenti degli altri, ma proprio non riuscivo ad ignorare i miei. Non riuscivo a fare finta che non mi si contorcesse lo stomaco quando mi guardava, fosse anche per la sola voglia di strozzarmi. Non potevo ignorare che mi aveva baciata due volte e che, maledetta me, anche io l'avevo fatto e non mi era dispiaciuto per niente. Non potevo nemmeno negare che ero stata maledettamente bene con lui, che mi ero divertita e per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, mi ero sentita libera dal nervosismo che mi paralizzava di continuo.
    «Allora?», m'incalzò.
    Cos'avrei dovuto fare? Qualsiasi mossa avrebbe comportato ferire qualcuno, la situazione era troppo complicata.
    «Non lo so», risposi.
    «Ma cos'è, una risposta preselezionata? Non sai dire nient'altro? Nel caso ti fosse sfuggito sto qui come un deficiente a cercare di risolvere questa cazzo di situazione!».
    «Senti, cosa ti aspetti che faccia? Non è così semplice come credi, noi dovremmo essere colleghi e non i protagonisti di una tresca».
    «E questo giustifica il tuo non fare niente, secondo te? Elsa, qua ci hai incasinati tutti quanti e non hai il diritto di fottertene allegramente come stai facendo adesso, è chiaro?!», alzò la voce. Ora traspariva tutta la rabbia che provava: era davvero incazzato come una iena incazzata e ne aveva tutti i diritti.
    «Io non so cosa provo!», mentii. In realtà lo sapevo benissimo e non riuscivo ad ammetterlo a nessuno. Solo a me stessa. In quel momento tentavo pateticamente di difendermi.
    «A me pare che tu sia stata piuttosto chiara su questo punto, invece».
    Lo guardai confusa. «Chiara?».
    «Sì, chiara! Quando gli hai detto che non potreste mai essere più che amici».
    Qualcosa, nella mia mente, o nel mio cuore, o in qualunque altro anfratto di me stessa, si incrinò. E, ancora peggio, avvertivo che quel dolore pungente e sottile non era che l'inizio, il preludio di qualcosa di gran lunga peggiore.
    «Ieri sera?», ripetei come una deficiente. «Gli ho detto?».
    Era teso, molto teso e si vedeva. Come se stesse misurando una per una le parole. E io mi sentivo più stupida di secondo in secondo, perché per una volta ero io a non avere il controllo dei miei sentimenti e delle mie stesse affermazioni.
    «Sì. A Bill. È di lui che stiamo parlando».
    Pensavo che non potesse essere sensibilmente percepibile l'esatto istante in cui il proprio cuore si spezza. Io stessa ero convinta che non fosse altro che un modo di dire romantico, svenevole e sdolcinato. Invece in quel momento non trovavo espressione più calzante.
    «Ah», esalai. Sentii il respiro accelerare senza che lo volessi e la rabbia cominciò a scorrermi nelle vene, bruciandomi come fuoco. «Stiamo parlando di Bill», scandii lentamente e a bassa voce, fissando la strada davanti a me.
    Quindi lui aveva messo su tutto quel casino per difendere il fratellino con problemi di cuore? E che senso aveva avuto allora tutto il resto?
    Perché non riuscivo a capire un beneamato cazzo?
    «Sì. Cosa ti aspettavi?». La tensione nella sua voce ora era molto più percepibile. Ma non mi interessava, ero troppo incollerita e delusa.
    «Niente, Kaulitz. Da te, proprio niente», dissi. Mi sentii di colpo rassegnata e stanca, oltre a tutto il resto. «Ferma la macchina».
    Mi guardò chiedendo spiegazioni con il semplice sguardo. «Come?».
    «Ferma questa cazzo di macchina!», strillai.
    Inchiodò in risposta al mio urlo e ci beccammo gli assordanti clacson delle macchine dietro di noi.
    «Ma sei impazzita?!», tuonò.
    Non lo ascoltai e scesi dall'auto, sbattendo lo sportello con tutta la forza che avevo. Speravo che si rompesse, che si scardinasse o qualcosa del genere. Speravo di fare danni, come lui ne stava facendo a me. Solo dopo qualche secondo ricordai che era la macchina di Bill che avevo appena tentato di fracassare e mi sentii ancora più furiosa.
    Cominciai a camminare, stringendo i pugni così forte da intorpidirmi le dita. Vidi con la coda dell'occhio la BMW accostare al marciapiede prima del parco e Tom uscirne, nascosto dal cappello, dalla sciarpa che si era riavvolto intorno al collo e dagli occhiali scuri. Accelerai e sparì dalla mia visuale.
    «Elsa!», mi richiamò, ma non mi voltai.
    Mi fermò da un braccio – lo faceva sempre – e mi costrinse a voltarmi verso di lui. «Elsa, che cazzo ti ha preso!?», urlò.
    La gente ci guardava, ma non mi interessava. Non ero io quella famosa; paradossalmente, nemmeno mi placava la prospettiva di diventarlo, se avessi continuato a comportarmi in quel modo.
    Mi liberai avendo cura di infilargli le unghie nella mano e lo costrinsi a mollare la presa. «Mi ha preso che sei un deficiente! Un totale, completo deficiente! No, di più! Sei un fottutissimo coglione!».
    Si sfilò gli occhiali con la mano segnata dalle mie unghie, mostrandomi i suoi occhi confusi. Boccheggiò.
    «Tu... voi dite sempre che ragiono al contrario», aggiunsi. «Invece dovreste farvi un po' di cazzi vostri e risolvervi le faccende personali da soli! Sono stanca di cercare di capirvi!».
    «Non urlare», sibilò a denti stretti, guardandosi intorno.
    Mi resi conto degli occhi che ci scrutavano curiosi e mi ricomposi subito. Odiavo avere pubblico. «Va bene, non urlo. Ma tu sparisci dalla mia vista». Mi voltai e ripresi a camminare, sperando che non mi seguisse.
    Speranza vana, ovviamente. Mi affiancò, tenendo il mio passo non senza difficoltà. Mi sentivo così in collera che gli occhi mi si riempirono di lacrime di rabbia e mi girava la testa.
    «Elsa», cominciò, ma lo interruppi alzando una mano.
    «Non dire una parola, non guardarmi, non respirare. Nebulizzati». Accelerai ancora.
    «Vuoi smetterla di correre?!».
    «No!».
    Mi fermò ancora e fui ad un passo dallo schiaffeggiarlo. Non volevo che mi toccasse, non volevo guardarlo, non volevo più avere niente a che fare con lui.
    Tentai di liberarmi e gli feci cadere gli occhiali da sole che stringeva nella mano. Pensai fugacemente che dovevano costare centinaia e centinaia di euro. Avrei voluto pestarglieli.
    «Elsa, ascoltami».
    «No, okay!?», strepitai, «non voglio ascoltarti, non voglio ascoltare più! Ne ho le palle piene delle tue cazzate incomprensibili e insensate, almeno tuo fratello segue fili logici! Tu... tu invece sei così... così imprevedibile e non me ne fotte un cazzo della tua arringa a favore di Bill, va bene!? È abbastanza grande da risolversi i suoi problemi da solo. E ora lasciami in pace».
    Volevo riprendere a camminare, ma le mie gambe non si mossero. Erano immobili e pesanti come macigni. Mi trovai a fronteggiare il suo sguardo, incazzata, delusa e dandomi della stupida di continuo, come una litania onnipresente nella mia testa intonata dalla mia vocina.
    Non volevo che Tom mi vedesse ridotta in quello stato, mi faceva sentire ancora peggio. Per un solo momento avevo pensato che volesse davvero tentare di risolvere qualcosa, che ciò che voleva lui fosse ciò che volevo anch'io. Invece il suo obiettivo era solo difendere il fratellino che era andato a piangere da lui.
    Colpita e affondata, vero, zuccherino?
    Tom boccheggiò, indeciso su cosa dire. «Tu hai... fatto un sacco di casino. E ci stanno guardando tutti».
    Strinsi i pugni vicino ai fianchi. «E allora vattene. Non voglio finire sui giornali per colpa tua».
    «Colpa mia?! Sei tu che stai urlando come un'ossessa!».
    Ringhiai. «Non voglio più discutere con te. Non voglio più starti a sentire».
    «E allora cosa vuoi?!».
    Una molla scattò dentro di me, gli argini si ruppero del tutto. Sentii la mia voce abbassarsi e scorrere lenta e incrinata. «Vorrei che la smettessi con questo balletto e che non giocassi con i miei sentimenti. Non sono un maledetto automa, va bene? Non lo sono. Non puoi presentarti sotto casa mia e parlarmi di Bill, di quanto gli abbia spezzato il cuoricino, è una presa per il culo bella e buona. Io non voglio lui e non ho mai dato intenzionalmente nessun segnale di questo tipo. Sono solo stata gentile». Pregai, con tutte le mie forze, di non stare piangendo. La mia voce era debole e si era spezzata più volte, sentivo le lacrime inondarmi gli occhi, ma ugualmente tentai con tutte le mie forze di contenermi.
    «Allora dovrei pensare che ti prendi una cotta per tutti quelli che tratti come zerbini?!», alzò la voce.
    «Sì!!!», sbottai.
    Merda. Mi sa che questa volta ha capito.
    Il terrore mi assalì. Mi sentii nuda, e fragile, e vulnerabile.
    Percepii chiaramente le lacrime rotolarmi sulle guance e me le asciugai in tutta fretta.
    Tom mi guardava. La sciarpa gli cadde comicamente sotto il mento, mostrando una mascella caduta come una tapparella rotta. La vocetta nel mio cervello considerò velocemente che doveva essere una grottesca copia della mia. Me la sentivo staccata dal resto.
    Mi veniva da ridere, da piangere. Non sapevo come sentirmi.
    Mi coprii il viso con le mani, soffocando una risata incredula mista a singhiozzi. Quando fui sicura di riavere il controllo, lo fissai di nuovo.
    «Elsa...», cominciò. Era in evidente difficoltà, era chiaro anche che non sapesse cosa dire.
    Alzai una mano. «Senti, risparmiami le tue cazzate kaulitziane. Mi sento abbastanza di merda anche senza».
    Lo superai, lasciandolo in mezzo alla strada, in balia dei passanti attoniti. Grazie a Dio, non mi seguì.
    Svoltai un angolo a caso e cominciai a correre.

    Edited by Monique; - 18/2/2011, 20:58
     
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  3. .Enigmatic
     
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    Penso che nessuna parola sarebbe in grado di descriverti tutto il mio stupore, nel leggere questo magnifico capitolo. Tu sei straordinaria, te l'ho già detto tante volte, ormai fino alla nausea, ma non posso fare a meno di ripetertelo per l'ennesima. Proprio come hai detto tu, questo segna la svolta, segna un qualcosa di più concreto, sentimentalmente parlando. Siamo arrivati a stabilire o immaginare conclusioni, a poter capire finalmente, in modo più definitivo – dato che già dai capitoli precedenti, un po', ci si poteva arrivare – i sentimenti di Elsa. È sempre stato abbastanza chiaro che fosse presa da Tom, ma questa sua ultima affermazione, questi suoi sentimenti provati soprattutto nell'ultima parte, dove fino all'ultimo ha pensato che Tom stesse parlando della loro situazione piuttosto che di quella con Bill, di delusione, non fa altro che confermare ogni teoria. Si è sentita stupida, quasi presa in giro, ed è più che normale. Chiunque avrebbe reagito a quella maniera. Effettivamente anche io ho pensato fino all'ultimo che Tom stesse cercando di dirle che lui era preso da lei e che voleva che si arrivasse ad una situazione più concreta e meno contorta. La mia delusione è arrivata assieme a quella di Elsa, proprio perchè mentre leggevo mi trovavo in quella macchina piena di salse e Coca Cola. Ormai Tom – credo – ha capito ciò che Elsa prova per lui e da una parte capisco non abbia saputo che dire; dall'altra però vorrei si svegliasse. Anche lui è preso da lei e si nota benissimo; potrebbe fare qualcosa, potrebbe, che so, cercare un punto di incontro con lei, provare a parlarle di nuovo, ma non di Bill, diamine. È stato snervante. È logico che ad una ragazza, palesemente interessata, dia noia sentirsi fare la ramanzina su un qualcuno per cui non prova il minimo interesse, proprio dalla persona che le fa andare in tilt il cervello. Tom, in questo senso, è stato molto ingenuo. Sentivo i brividi, avevo il batticuore, provavo gli stessi sentimenti di Elsa e questo perchè hai descritto tutto alla perfezione, come sempre. Ora sono proprio curiosa di sapere come reagirà questo ragazzaccio, dopo aver capito più o meno – se l'ha capito – quali sentimenti prova Elsa per lui e anche di come si comporterà lei, di conseguenza. Beh, concludo dicendoti che la vicenda in macchina, per strada, e via dicendo – quella dall'atmosfera più ilare – l'ho semplicemente adorata. Quando non perdono tempo a torturarsi verbalmente, per me, sono completamente compatibili. C'è intesa, c'è ironia, c'è tutto quello che aiuterebbe a mantenere salda una coppia... Ovviamente se accompagnato al perfido amore. Per questo sono sempre più convinta che loro debbano mettersi insieme, perchè sono semplicemente perfetti, come questa storia e come il tuo modo di scrivere ed emozionare. Un bacio.
     
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  4. tokiettinaa
     
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    wow...semplicemente...!
     
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  5. Monique;
     
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    Merci ^^
     
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  6. tokiettinaa
     
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    up ♥
     
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  7. Monique;
     
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    Per chi seguisse ancora, non sono sparita. Il capitolo è pronto, va solo ultimato ^^
     
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  8. .Enigmatic
     
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    Ci piace =)
    P.s. Non rispondo ai messaggi sul cellulare perchè non ho più soldi =)
    Bacio.
     
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  9. tokiettinaa
     
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    CITAZIONE
    Ci piace =)

     
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  10. Monique;
     
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    Sono vivaaaaaaaaaaa!!! Perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi, il capitolo era pronto da secoli, mi mancavano solo due righe finali. Spero comunque che vi piaccia e che mi facciate sapere se vi è piaciuto o no. Un bacio!

    Capitolo 13

    Con le nocche bianche, camminavo a passo spedito verso casa mia. Ci sarei arrivata in mezzora, se avessi mantenuto quella velocità, e avrei scaricato la rabbia.
    Nella mia testa si susseguivano insulti.
    Non sapevo se sentirmi più incollerita, umiliata o ferita, tuttavia ero certa di poter esplodere da un momento all'altro. Il sangue mi ribolliva nelle vene e mi sentivo la testa bollente.
    D'altra parte, cosa potevo aspettarmi? Dove pensavo di arrivare?
    Tom era un perfetto idiota, vigliacco, innamorato di sé al limite del narcisismo, presuntuoso e prepotente. Lo avevo saputo fin dall'inizio. Ma allora perché mi sentivo così... ferita e ridicola? Quella sensazione bruciante era simile a quella del rifiuto.
    È così, gioia. Ti sei presa una cotta per il rocker più bello e deficiente del reame, e sei rimasta fregata.
    Crollai affranta su una panchina qualsiasi. Dovevo essere in prossimità della fermata di Sternschanze, frequentata soprattutto da giovani, ma di sera. In quel momento, alle tre del pomeriggio, probabilmente gente di tutti i tipi si stava solo chiedendo cosa ci facessi, accartocciata su quella panchina.
    «Elsa!».
    Conoscevo quella voce. Mi voltai al suo richiamo appena in tempo per vedere Bea raggiungermi, le guance rosse e i biondi capelli scompigliati.
    «Finalmente ti ho trovata», disse, accomodandosi accanto a me.
    La fissai confusa, troppo abbattuta per aver voglia di parlare.
    «Ti ho vista prima, e ho visto cosa è successo con Tom...», spiegò.
    Con Tom?
    Quando capii, dopo qualche secondo, volevo davvero ridere per la disperazione: io stessa avevo avuto l'idea di seguire Bea e Georg, ma in realtà loro avevano visto e seguito noi, probabilmente spinti dalla stessa mia curiosità. Mi chiesi fugacemente quando ci avessero avvistato.
    «E dov'è ora Georg?». Com'era strana la mia voce: pacata, incolore. Inespressiva. Il contrario di quello che era stata solo pochi minuti prima.
    «Con Tom», rispose Bea tentennando.
    Sorrisi e mi passai le dita tra i capelli, incredula e piena di vergogna. «Gli angleli custodi che corrono a consolare l'infelice amichetto del cuore. Che cosa patetica».
    Bea alzò gli occhi al cielo. «Abbiamo assistito alla vostra scenata da telenovela messicana, insieme ad un quarto della popolazione di Amburgo. Alcuni mangiavano patatine, altri prendevano appunti per qualche scenografia romantica. La parte più importante, comunque, è che il fustacchione non è stato riconosciuto».
    Appoggiai il mento alle ginocchia, respirando a fondo per trattenere la voglia di mettermi a frignare, e guardai fissamente davanti a me. Le persone mi sfilavano davanti, indifferenti ora che ero in compagnia. Non potevano sapere che in realtà mi sentivo davvero, davvero sola.
    «Ne vuoi parlare?», chiese infine Bea, più dolcemente. Non era da lei tanta delicatezza. Dovevo proprio sembrare disperata.
    «No. Voglio che si apra una voragine sotto di me e che mi inghiottisca, adesso».
    Le sue dita mi accarezzarono i capelli, districandone piano le ciocche. Mi ricordò il gesto di una madre, e, ovviamente, mi fece stare anche peggio.
    «Povera piccola Sissi. Così triste, così innamorata...».
    «Non dire cazzate», ringhiai, allontanando la mano. «Non sono triste. E soprattutto non sono innamorata». Ci mancava solo l'innamoramento per l'idoneità al suicidio.
    «No, certo», mi assecondò ironicamente.
    Non ero innamorata, cazzo. Ero solo... Più cotta di una pera, completò la vocina per me. Il paragone era alquanto calzante, anche se ero riluttante ad ammetterlo.
    «Ehi», mi richiamò Bea dopo un po', in tono cospiratorio, per distrarmi. Le lanciai un'occhiata. «La vuoi? Ho qualcosa di forte». Agitò nella mano un piccolo barattolo metallico. Dopo aver sorriso della mia espressione attonita, sollevò il coperchio sui confetti bianchissimi.
    Sorrisi, dopo un po'. «Voglio una dose doppia».
    Aprii la mano e Bea vi posò non una, ma due delle sue caramelle alla menta extraforti.

    «Non va, non va», sbuffai, scostando le dita dalla tastiera del pianoforte.
    «Dobbiamo aggiungerci una terzina», suggerì David.
    «Così diventa un quattro quarti», considerai, e appuntai la correzione sul quaderno pentagrammato. «Non stiamo tirando troppo la corda, vero? La tonalità non sarà troppo alta per la voce di Bill? E se lo facciamo in quattro per Tom non sarà più difficile suonare?». Mi sentivo stranamente ansiosa.
    Bill e Tom, ufficialmente diventati coproduttori dell'album, avevano avuto l'idea di accompagnare un paio di canzoni con il pianoforte. Erano già state scritte, e una mi piaceva parecchio, ma per quella avevo già approntato la melodia al piano. Stavamo invece lavorando a Zoom, in quel momento. Personalmente, il solo testo mi faceva rabbrividire: troppo melenso. E anche la melodia che aveva in mente Bill lo era. Tuttavia stavo cercando di adattarmi ai loro gusti.
    Mi chiedo come faccia ad essere la loro sound editor, se non condividi nemmeno uno dei loro gusti musicali.
    A parte il particolare inquietante della vocina che aveva una coscienza propria, me lo chiedevo anch'io.
    «Non ti preoccupare», mi rassicurò David. «Sono sicuro che verrà fuori qualcosa di bello».
    Invidiai quella sua sicurezza.
    «Come procede?», chiese Tom, incedendo nella sala registrazione.
    Sentii distintamente il cuore saltare un battito. D'istinto piantai gli occhi sui tasti bianchi e neri davanti a me, come se il non guardarlo mi rendesse invisibile.
    «Abbiamo apportato delle modifiche», rispose David, incerto, notando il mio mutismo ostinato.
    «Bene».
    Silenzio.
    «Io... vado da Bill, per il testo. Intanto, Tom, fatti spiegare i cambiamenti da Elsa».
    Sicuramente aveva percepito la tensione tra me e Tom e aveva pensato bene di defilarsi. E da quel momento smisi di respirare.
    Sentii i passi di Tom farsi sempre più vicini, fino a scomparire quando si sedette accanto a me, facendo sfiorare i nostri fianchi.
    Mi schiarii la voce e cominciai: «il tempo è cambiato, ora è diventato un quattro quarti».
    «Elsa».
    «Questo significa che le semiminime diventano quattro per ogni movimento. E anche le terzine iniziali. Ti ricordi di cosa è fatta una terzina?».
    «Elsa».
    Lo ignorai. «Di crome. Le alterazioni ovviamente sono sempre quelle cinque. Re, sol, la, si, mi». Accennai la melodia sul piano, ma Tom mi bloccò il polso e mi costrinse a guardarlo. La pressione della sua mano mi fece realizzare con orrore quanto rigida e tesa fossi.
    «La smetti?», domandò, irritato.
    «Di fare cosa?».
    «Non possiamo parlare? Mi hai evitato per tutta la mattina».
    «Parlare?», liberai il polso con uno strattone, irritata. «A meno che tu non voglia farmi un'altra ramanzina su quanto sia crudele con tuo fratello, non c'è proprio niente da dire».
    «Invece sì».
    «Prego, allora. Ma fai presto, abbiamo da fare».
    Un altro profondo respiro. «Voglio sapere cosa ti passa per la testa. Proprio non ci arrivo».
    «Ah», dissi. «Tu non avresti la più pallida idea di cosa mi passa per la testa».
    Mi fissò, con un'espressione a metà strada tra il perplesso e il sicuro di sé. «Che tu ci creda o no, è così».
    Mi misi a ridere. Poi feci un respiro profondo, pur essendo perfettamente cosciente dell'inutilità dell'azione. Poi, esplosi. «Quindi saresti tu a non avere la più pallida idea di cosa mi passi per la testa. Io non so cosa diavolo passi per la tua!», bisbigliai con forza, per non essere sentita da tutto lo studio e vicinato. «E stai solo facendo il finto tonto, adesso. Se così non fosse, saresti davvero idiota, ma la cosa non dovrebbe stupirmi, perchè dietro la tua improbabile apparenza da stronzo, dietro i tendoni canadesi che porti per vestiti che ti fanno sembrare tanto figo e tanto duro, dietro quel cazzo di sorriso agli estrogeni e alle tue frasi buttate lì su cui mi arrovello ogni santissima volta perchè quasi ci sei riuscito a dimostrarmi di non avere solo segatura nella testa, tu, tu, tu», feci rimbalzare il dito sul suo petto, «tu sei davvero idiota!».
    Mi fissò allucinato, senza parole, come se il mio discorso lo avesse fulminato.
    Il suo neurone può concentrarsi su una frase alla volta, non offenderti se non afferra subito il senso di cotanto discorso razionale e sensato, suggerì la vocina, ironica.
    «La... la smetti di insultarmi ogni volta?!», si decise ad offendersi.
    «Non urlare, e no, non la smetto. Appena ti vedo divento idrofoba e non posso farci niente». Ma perchè mi stavo calmando? Mi sentivo intorpidita, come se la rabbia si stesse stemperando a velocità anormale.
    Tom assottigliò gli occhi in due mezzelune e si avvicinò appena. «Bugiarda. Come fai a mentire anche a te stessa?», mi chiese.
    Lo guardai, perplessa e scettica. «Come, scusa?».
    «Non è vero che diventi idrofoba perché mi odi. Tu non mi odi. Anzi, appena mi vedi ti irrigidisci, diventi nervosa, non mi guardi, e non mi parli se non per comunicazioni di servizio. E mi hai baciato».
    Era disarmante, accidenti. «Ero ubriaca».
    «No, io ero ubriaco», mi corresse. «Ma me lo ricordo lo stesso».
    «Allora la tua memoria fa cilecca», tentai di dire, ma mi sentivo sempre più con le spalle al muro.
    «Ammesso che sia vero», continuò, «ti ho baciato di nuovo, ed ero più che lucido. E tu non mi hai fermato. Se non avessi voluto, mi avresti rovesciato la faccia con un ceffone».
    Senza parole, boccheggiai guardando fissamente la tastiera del pianoforte. Sentivo il fianco che toccava il suo bruciarmi, come se il contatto mi ustionasse. Anche il respiro era diventato ancora più corto, e pensavo che se solo avessi voltato il viso, mi fossi sporta appena, avrei potuto...
    ...baciarlo di nuovo. Questi sono gli ormoni che si svegliano dal letargo, sghignazzò la voce dentro di me.
    Indignata da quella frase, lo guardai, aggrottata. Mi spiazzò quanto fosse vicino, più di quanto avessi pensato.
    «Io ho le palle piene di tutto questo», continuò con decisione. «Io non sono quello che pensi, ma per quanto cerchi di dimostrartelo, ti chiudi sempre nelle tue convinzioni, per non affrontarmi. Sono stanco di essere sottovalutato da te».
    Quella frase mi distolse dalla contemplazione del suo viso – una parte di me inorridiva di fronte a tanta pateticità – e mi ricordò le parole di Bill. Anche lui mi rimproverava spesso di sottovalutarlo.
    «Ma sai che sei proprio un egoista? E a tuo fratello e ai suoi sentimenti non pensi minimamente?».
    Ma senti da che pulpito! Hai una bella faccia tosta a parlare così, tu che rifiuti un fratello e hai le scalmane per l'altro!
    Dettagli.
    «Non ti permetto di accusarmi di non pensare a mio fratello. Non lo conosci bene», si difese, punto nel vivo.
    «Però so che ha una inspiegabile, assurda, impossibile cotta per me. E so anche che è incazzato come una iena».
    All'improvviso, Tom abbassò le difese. Spostò lo sguardo sulle sue mani e mi sembrò solo un ragazzo insicuro e vulnerabile. In quel momento, in quel brevissimo istante, mi parve di vedere la sua faccia per la prima volta, e non era quella di un ragazzo arrogante e sbruffone. Tra noi c'era una differenza d'età di quattro anni, ma non mi era mai sembrata così evidente come in quel momento.
    «Lui non è innamorato di te», ammise. Quasi non lo sentii, la sua voce era troppo bassa.
    «E ci mancherebbe», sussurrai, rendendomi conto in quel momento di quanto mi fossi intenerita.
    «No, intendo... è complicato».
    Non gli avrei certo chiesto di spiegarmi: non potevo calpestare così il mio orgoglio.
    «Quello che sto cercando di dire è che gli piaci, ma in realtà non gli piaci», disse, infine.
    Oh, ora sì che è chè è chiaro!
    Perché non riuscivamo a capirci? Entrambi eravamo così restii a parlare chiaramente e a scoprire tutte le carte in tavola, che andavamo avanti per frasi vaghe. E cominciavo a stancarmi di questo atteggiamento.
    «O tuo fratello è schizofrenico, oppure sei tu che stai trovando scusanti per ottenere quello che vuoi. Quindi parla chiaro, Tom», lo redarguii. Il tono era molto più duro di quanto in realtà non dovesse essere, ma avevo bisogno di spronarlo per capire.
    Sospirò, nervoso e a disagio. La parte più sadica di me un po' ci provava gusto nel vederlo così.
    «Va bene. In realtà non piaci veramente a Bill. L'unica cosa che lo ha attratto è stato il tuo modo di fare. Lui è... in un certo senso è debole. Cioè, non lo è, perché in realtà lui è quello con più palle di tutti noi, ma gli piace il tuo modo di essere... tosta. Il tuo carattere deciso, e al tempo stesso riservato. Gli piaci perché sai sempre cosa fare e non sei mai indecisa su niente. Gli piace come rispondi a tono, come trovi sempre qualcosa di intelligente da dire, il fatto che sorridi come se ci facessi una concessione, come ti mangiucchi il tappo della penna quando scrivi e come tieni il mignolo sollevato quando digiti al computer, con un'aria un po' schifata perché, anche se cerchi di nasconderlo, anche i muri hanno capito che non ti piacciono i nostri testi», bloccò un sorriso a metà, mordendosi appena un labbro. Fissò la mia espressione incredula e sorpresa, quasi spaventato da quello che aveva detto. «No, in realtà a Bill piace solo che si possa contare su di te. Il resto dimenticalo».
    Lo fissai inebetita – di nuovo.
    Ora, decisamente, sai cosa gli passa per la testa. Anche se per vie indirette, disse la vocina, estasiata e sorpresa quanto me.
    Ingoiai e mi schiarii la voce. «Capisco». E, per la prima volta, era vero. «Ma potevi risparmiarti la predica, perché tra me e Bill è impossibile qualsiasi sviluppo romantico».
    Con lui però è possibilissimo, vero, zucchero?
    «Penso che lo capisca pure lui, per questo dà così tanto i numeri... Non so se dispiacermi o meno. In entrambi i casi, comunque, mi sento in colpa e inutile, perchè nemmeno posso aiutarlo».
    Come lo capivo.
    Era così imbarazzante parlare di quell'argomento con lui. Finora mi ero limitata a lamentarmi con Bea e Didi, o a negare l'evidenza a Bea e Didi solo per convicere me stessa di non provare niente per Tom. In quel momento, invece, eravamo entrambi a nudo, con i nostri assurdi sentimenti.
    Mi sentivo in una specie di romanzo rosa, e solo pochi mesi prima mi sarei presa a badilate da sola se mi fossi trovata coinvolta in una situazione come quella. In quel momento, invece... quasi mi sentivo risollevata. E non capivo perché.
    «Come... come sono i rapporti tra te e Bill ora?», mi permisi di chiedere, dopo un momento di silenzio. Non negavo che era una domanda che mi ero posta parecchie volte, senza mai riuscire a trovare una risposta. Non avevo mai nemmeno immaginato di chiedere direttamente a Tom, o a Bill, per non essere azzannata. Ma, in quel momento, sentivo che potevo farlo. Potevo osare di più, così come lui. Avevo abbassato anch'io le difese.
    «Ci siamo detti di tutto, ci siamo parlati e non è andata bene, così evitiamo di toccare l'argomento. Bill cerca in tutti i modi di mettere da parte il rancore perchè lo fa sentire ancora peggio, ma si vede che non ci riesce».
    Se avessi avuto almeno cinque anni in meno, mi sarei mangiata un'unghia come una qualsiasi adolescente, per quanto nervosa ero. Mi dispiaceva tantissimo, e non riuscivo ad immaginare come si sentisse Tom.
    «Gli passerà presto», disse, comunque.
    «Sì, non sono la donna della sua vita», sdrammatizzai.
    Mi sorrise, riacquistando la sua aria strafottente e birichina. Era vicino, troppo vicino. «Lo so benissimo».
    Ormoni, a cuccia.
    Vi state muovendo su un terreno decisamente minato, avvertì la vocina. Se non ti attizza l'idea di fartelo sul pianoforte, cosa di cui dubito, ti consiglio di darci un taglio.
    Imbarazzata – e anche un po' indignata – per il consiglio di quella stronza vocina, gli premetti una mano contro il petto e lo allontanai. «Sì, non te ne approfittare».
    Non potevo permettermi di cedere. Nell'altra stanza c'erano Bill, David e Benjamin – Georg e Gustav erano sempre meno assidui nelle frequenze, mentre Bill e Tom avvertivano di più la responsabilità dell'album –, e dovevamo lavorare.
    «Ah, già. Il fidanzato perfetto», ricordò con amarezza.
    «Quale fidanzato perfetto?», domandai, allibita.
    «Sven», disse, schifato. Il modo in cui pronunciò quella parola la faceva sembrare un insulto.
    Mi faceva sorridere il modo in cui si stava comportando. Se non lo avessi conosciuto, avrei detto che era geloso. «Ah, lui», sorrisi.
    «Sì, lui. Quello che sa sempre quale forchetta usare, che si alza quando ti alzi, che ti avvicina la sedia quando ti siedi e che nemmeno fuma sigari cubani per non macchiarsi i polmoni e non allargare il buco dell'ozono. Ma come facevi a stare con uno così?».
    Non riuscivo a smettere di ridacchiare. Per quanto l'argomento non mi piacesse, quella versione di Tom mi divertiva più di quanto non dovessi ammettere. «Non è solo una questione di aristocrazia. Sven mi capiva».
    «Ecco perchè non lo capisco», borbottò.
    «E comunque non è il mio ragazzo. Non più».
    Mi fissò attendendo spiegazioni.
    Premetti il tasto del do centrale così piano che non ne sentii nemmeno il suono. «L'ho rifiutato. Con il passato ho scelto di chiudere. E lui fa parte del mio passato».
    Passò qualche secondo. Poi, sorrise, segno che aveva tutta l'intenzione di sdrammatizzare. «E questo l'avresti deciso prima o dopo di indossare quel ridicolo pigiama di Hello Kitty da adolescente turbata?».
    Appunto.
    «Non era Hello Kitty», precisai. «E comunque mi pare di ricordare che tu abbia gradito il panorama».
    «Mai detto il contrario. In effetti posso aiutarti a... spogliarti del tuo passato quando vuoi».
    Mi sorrise, il bastardo, candido come la quintessenza della verità.
    «E tu quand'è che ti spogli della tua demenza cronica?», lo rimbeccai.
    «Non lo so, vuoi darmi una mano?».
    Lo spinsi sul bordo dello sgabello, divertita. Ma il pensiero di Bill mi faceva sentire così in pena e gettava un'ombra sulla mia ritrovata – e temporanea – serenità. Sentivo di comportarmi in maniera ingiusta verso di lui. E, anche se non lo dava a vedere, Tom era chiaramente combattuto.
    «Se voi due piccioncini avete finito, venite di là, dobbiamo dirvi una cosa», intervenne acidamente Bill, comparso dal nulla sulla soglia.
    Lupus in fabula...
    Io e Tom sobbalzammo e lo guardammo entrambi con espressioni colpevoli, come se ci avesse sorpresi a rubare.
    La vocina, forse impietosita, non commentò proponendo altre piacevoli occupazioni in cui avremmo potuto essere sorpresi.
    Annuii, e coprii la tastiera del piano con la fascia rossa, fingendo indifferenza. Avevo una terribile voglia di mordicchiarmi l'unghia del pollice, di nuovo, ma mi trattenni.
    Raggiungemmo il salotto, ufficiosamente eletto a sala comune. David e Benjamin stavano mangiando un panino, e sul tavolino vicino al divano vidi un piattino con delle verdure che doveva essere di Bill.
    Mi sedetti compostamente vicino a Benjamin.
    «Cosa dovete dirci?», chiesi.
    «Abbiamo programmato il viaggio a Miami per la registrazione delle tracce».
    Miami?
    «Febbraio è praticamente finito. Ci andremo verso metà marzo. Ci siamo già confrontati con i sovrintendenti alla Universal, che sosterrà la almeno i costi di viaggio. Per il resto, lì abbiamo un appoggio, una sorta di studio in affitto. Quello effettivo lo avremo a Los Angeles in poco tempo e potremo registrare lì».
    Forse per i ragazzi era normale volare tranquillamente da una parte all'altra del globo, ma a me, che non ero mai stata più ad ovest di Dublino, sembrava ancora una prospettiva astratta.
    «E quanto tempo ci rimarremo?», chiese Tom.
    «Circa una settimana. Giusto il tempo di ambientarci», rispose Benjamin.
    «E siamo stati anche invitati ad un party esclusivo. Niente stampa, niente giornalisti. Il tempo lì sarà favoloso», aggiunse David, sorridendo soddisfatto.
    E io sarei dovuta andare da sola con i Tokio Hotel, a Miami, a registrare un album di giorno e a divertirmi di notte?
    L'idea mi piaceva. Anche se non avessi partecipato al party come imbucata, avrei trovato sicuramente il modo di stare bene e divertirmi.
    «Elsa, tu puoi venire, giusto?».
    «Certo».
    «Non potremo contare su Georg», disse Benjamin con aria cupa. «Sarà a Nizza con Bea, in quel periodo».
    Ah, il soggiorno che Bea aveva vinto. Alla fine aveva scelto con chi andarci.
    «Il problema è già risolto. Non mi sembra che Georg sputi sangue per comporre l'album», intervenne Bill acidamente. «Figuriamoci. L'unica cosa che sputa sono sentenze».
    Guardai Bill, sorpresa. Avrei voluto rispondergli a tono, ma non ero nella posizione per farlo.
    «È da stamattina che è più acido di uno yogurt», commentò Benjamin.
    Per tutta risposta, Bill mostrò il suo dito medio.
    «Certo, Bill, che per essere uno che non vuole essere giudicato, sei tu il migliore sputasentenze che abbia mai conosciuto», commentò casualmente Tom, assolutamente a sproposito.
    «Vaffanculo, stronzo».
    David intervenne per mettere ordine. «Calmatevi, voi due».
    Sospirai e decisi di prendere la situazione in mano. «Vi dispiace se vado a fumare?».
    Tutti mi guardarono sorpresi, tranne Bill, che si era così immusonito da avere due guance da cocker.
    «Certo che no», disse Benjamin.
    Mi alzai, sperando che Bill mi seguisse. Gli lanciai un'occhiata, che ricambiò. Di sicuro colse il messaggio che volevo lanciargli, ma per tutta risposta schioccò la lingua.
    Una volta fuori, in completa solitudine, mi chiesi come avessi fatto da sola a mettere uno contro l'altro due gemelli così affiatati. Mi sentivo egoista e ingiusta verso Bill, tuttavia non potevo decidere da chi sentirmi attratta. Inoltre, Bill si sarebbe trovato malissimo con me. Forse, come diceva Tom, era stato solo attirato dal senso di affidabilità e protezione, quasi, che davo.
    Mentre fumavo, tentai di dare un senso logico ai miei pensieri, di organizzarli. Mi venivano in mente solo due soluzioni possibili per non peggiorare la situazione. Una era licenziarmi. L'altra era tentare ancora una volta di allontanare Tom.
    Ovviamente, la prima era da escludere. Non potevo lasciarli nel bel mezzo di un album da terminare, ma, a parte la motivazione più nobile, avevo bisogno di soldi, e quel lavoro mi retribuiva bene. Rimaneva la seconda. Avevo già ampiamente dimostrato di non essere capace di evitare Tom a lungo: la tensione sensuale tra noi era sempre stata alle stelle, e, cosa ancora più sorprendente, riuscivamo perfino a comunicare, se ci impegnavamo a mettere da parte epiteti poco carini.
    Mi appoggiai al muro, su cui stavano attecchendo i primi boccioli di una pianta rampicante.
    Avrei dovuto mettere da parte i miei sentimenti, sacrificarli, per il quieto vivere del gruppo e per la buona riuscita dell'album. Tom avrebbe sicuramente capito e mi avrebbe assecondata: non valevo quanto il suo rapporto con Bill.
    La logica non fa una piega, disse la vocina, stranamente cogitabonda. Ora bisogna solo spiegare la fitta al cuore che senti al pensiero di dover rinunciare al Kaulitz cazzuto in nome di un improbabile Bene superiore.
    Non potevo nascondere di starci male. Non potevo più nascondere nulla, ormai. Ero uscita allo scoperto, a cosa serviva mentire?
    Lanciai un'occhiata al salotto attraverso l'enorme vetrata. Bill e Tom si stavano dicendo qualcosa, David e Benjamin ascoltavano, senza interferire. Sembravano davvero fratelli, a dispetto della primissima impressione che avevo avuto.
    Sospirai. Non avevo scelta.

    «Miami?», trillò Didi, bloccandosi a metà dell'azione di rimettere un maglioncino sullo scaffale. «Forte!».
    «Già. Non vedo l'ora di partire».
    Rimise a posto il capo di abbigliamento e mi guardò, scettico. «Tu», disse serio.
    «Sì, io».
    «Tu che non vedi l'ora di partire», continuò.
    «Ehm... sì?».
    «Tu che non vedi l'ora di abbandonare il tuo nido, da sola, senza nemmeno una delle persone di cui ti fidi. E con Tom che ti scatena la libido con una sola occhiata».
    Distolsi lo sguardo, a disagio. Ora capivo dove volesse andare a parare. «Sono solo contenta perchè questo viaggio capita nello stesso periodo di quello di Bea. Andrà a Nizza con Georg. E non dovrò preoccuparmi o essere gelosa».
    «Oh, il viaggio premio del concorso, già. Alla fine ha deciso con chi andare. Beh, Georg era la scelta più ovvia», commentò. «Quindi solo Gustav e i gemelli adorati».
    Mi morsi un labbro. Dalla padella alla brace. «No. Solo i gemelli».
    La sua espressione divenne il perfetto esempio della furbizia.
    Dannato elfo adorabile e stronzo.
    «Oh», disse a bassa voce, con aria contemplatrice . Piegò dei pantaloni sul tavolo davanti a lui. «Ed esattamente, cos'è successo di tanto miracoloso da renderti felice di lasciare casa per un viaggio sconosciuto con gente che non conosci bene?».
    «Se lo dici così fai sembrare me una sociopatica misantropa e i gemelli una fonte del male da tenere lontana».
    «Scherzi? Nessuno è così scemo da tenere lontani quei due bigné da riempire di panna».
    «Tu sei malato», dissi. La sua allusione era così spudorata che mi strappò un sorriso. Ma ero ugualmente imbarazzata. «E comunque non è successo niente...».
    Alzò un sopracciglio, scrutandomi attentamente. «Sei più falsa di Giuda. La tua capacità di mentire va sotto lo zero ormai», disse. «Ti è successo qualcosa che ti ha addolcito. Altrimenti non saresti venuta a trovarmi in negozio all'orario di chiusura, con una bella ciambella e un passaggio per non "farmi tornare a casa da solo". Avanti, sputa il rospo».
    Tana per Elsa!, sghignazzò la vocina.
    Era vero, dopo il lavoro ero passata, in compagnia di una bella ciambella, dal negozio in cui lavorava Didi. L'aveva divorata mentre gli raccontavo della mia giornata, escluso il dialogo con Tom. Ovviamente.
    In quel momento eravamo soli: erano andati tutti via, sia la commessa che il proprietario, che gli aveva affidato il compito di chiudere il negozio.
    «In realtà, sono successe diverse cose», confessai.
    «Chissà perchè, lo immaginavo».
    «Ma devo darci un taglio, non posso andare avanti così. Non è giusto per nessuno».
    Sospirò e si sedette sul tavolo, ormai sgombro di vestiti. «Raccontami tutto».

    Edited by Monique; - 6/5/2011, 16:11
     
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  11. .Enigmatic
     
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    Oh, sì, proprio come hai detto su msn, mi viene voglia di lanciarti qualcosa. Questa situazione diventa ogni volta più atroce; quando credi che finalmente arrivi la svolta, ecco che caschi di nuovo a terra, dalla bella e morbida nuvoletta sulla quale poltrivi un istante prima. Questa è perfidia, donna.
    Innanzitutto, ho capito a pieno i sentimenti contorti di Elsa, li ho provati sulla mia pelle, assieme al nervoso per tutto il tempo che quei due stanno impiegando ad arrivare a qualcosa di concreto. È palese che si piacciano a vicenda e anche se non nel migliore dei modi, se lo stanno facendo capire in tutte le lingue del mondo. La tensione sensuale di cui parla Elsa trapassa lo schermo; ti arriva addosso. Io non posso credere che tutte queste difficoltà derivino dal povero, piccolo Bill. L'ha spiegato anche Tom: gli piace ma non gli piace Elsa... Che se la facesse passare definitivamente, qualunque tipo di cotta abbia, e li lasciasse vivere in pace, senza fare scenate di gelosia varie ed inutili. Me lo stai facendo odiare, il che è abbastanza grave.
    Tom è dolce, adorabile, un mix di aggettivi che inevitabilmente complica maggiormente la vita ad Elsa. È inutile che cerca di ignorarlo: è semplicemente impossibile, se c'è di mezzo un sentimento. Secondo me dovrebbe andare contro ogni tipo di pregiudizio; non può tarparsi le ali per delle semplici lagne da parte di un ragazzo che non le interessa. Chi le interessa è lì, davanti a lei, che la aspetta a braccia aperte, da quanto ho capito. Per me dovrebbe mettere da parte i sensi di colpa e gettarsi a pieno in ciò che desidera.
    Il loro piccolo battibecco al piano l'ho adorato. Sono complici in tutto ciò che fanno e neanche se ne accorgono. E secondo me, Tom voleva farle capire che gli piace, se solo non fosse arrivata come al solito la pietra dello scandalo – chiamasi anche Bill – a rovinare l'atmosfera con quel suo atteggiamento che... Che... Che boh. Non trovo neanche le parole per farti capire quanto mi faccia innervosire.
    Sono veramente curiosa di sapere cosa succederà durante il viaggio, anche perchè saranno decisamente in pochi e la possibilità che tra loro succeda qualcosa cresce a dismisura... Vero? Bene, spero davvero che finalmente tra quei due scoppi la scintilla perchè qui voglio vedere un po' di sana passione, anche se la passionalità e l'erotismo, a momenti, viene fuori anche dalle loro semplici discussioni.
    Conto sulla tua bontà... =D
     
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  12. Monique;
     
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    Ancora una volta mi scuso per il ritardo gigantesco.

    Enjoy ^^

    Capitolo 14

    La musica era energica e sferzante. Bill non stava risparmiando la sua voce e la usava al massimo delle sue potenzialità. Battevo il ritmo con il piede, mentre scoprivo che, stranamente, ciò che i ragazzi stavano suonando mi piaceva molto. Riusciva a farmi dimenticare ciò che mi angosciava, e sicuramente riusciva ad accantonare, o quantomeno, a lenire anche i loro pensieri.
    È sempre stato un forte potere della musica, quello di accompagnare qualsiasi emozione. Era stata creata apposta. In qualche modo, ci si sentiva meno soli.
    In quel momento stavamo registrando la versione base di una canzone che Bill aveva scritto quasi un mese prima. Raramente registravamo separatamente le diverse parti strumentali.
    In realtà, prima che arrivassi io, sia i ragazzi che i produttori avevano l'abitudine di unire le diverse registrazioni alla voce di Bill. David e Benjamin non erano molto entusiasti dell'idea di registrare tutto insieme, nello stesso momento, ma i primi tentativi ben riusciti avevano fatto cambiare idea a tutti.
    Quei ragazzi erano davvero uniti quando suonavano, al di là di tutti i dissidi che potevano crearsi tra loro. La musica era unica, non risentiva dei diversi gusti musicali di ognuno.
    Il testo della canzone che ascoltavo in quel momento era particolare, non riuscivo a capirlo appieno. Bill l'aveva abbozzato appena due settimane prima e nonostante fosse criptico, sembrava che fosse fatto apposta per lui.
    David e Benjamin, accanto a me, li guardavano attraverso il vetro e sorridevano soddisfatti. In quel particolare momento, mentre osservavo i produttori guardare i ragazzi e sorridere, mi sentii orgogliosa di poter contribuire alla creazione di quell'album. Eravamo partiti quasi da zero, ma procedevamo spediti, nonostante tutto.
    Quando la canzone finì, premetti il tasto per terminare la registrazione e applaudii spontaneamente, seguendo già David e Benjamin.
    I ragazzi uscirono dalla stanzetta di registrazione e solo allora poterono vedere i nostri sorrisi.
    «Com'è andata?», chiese Georg.
    «Siete stati splendidi», dissi.
    «Davvero», disse David, con convinzione, «le modifiche delle parti strumentali erano perfette».
    «Merito di Elsa», disse Gustav, sorridendo al mio indirizzo.
    Ecco, quella era esattamente la parte che non mi piaceva.
    «Perché date sempre tutto il merito a lei?», disse Tom, offeso. Mi bastò guardarlo per capire che mi stava solo sfottendo. «Siamo noi la mente del gruppo».
    «Sì, una mente malata», replicai.
    «A questo punto, se fossi in te, mi chiederei perché con noi ti trovi così bene».
    Tutti risero, tranne Bill, che si limitò ad un sorrisino stiracchiato. Guardarlo mi faceva passare tutto il buonumore.
    «Bill, oggi sei andato ancora meglio del solito», tentai, mentre nella sala si diffondevano chiacchiericci da David, Benjamin e gli altri ragazzi.
    «Grazie».
    E lì, decisi di incazzarmi. Mi alzai dallo sgabello su cui mi ero appollaiata durante la registrazione e coprii la distanza tra me e lui con tre lunghi passi. «Andiamo a fumare», dissi, perentoria.
    «Ho fumato venti minuti fa», sibilò in risposta, deciso a non cedere. Incrociò le braccia al petto e mi sfidò con lo sguardo.
    «Vorrà dire che mi guarderai fumare. Allora, devo trascinarti?».
    Sbuffò e mi seguì attraverso lo studio, fino al giardino, dall'altra parte dell'edificio. Mi accesi una sigaretta.
    E ora cosa gli dici?, mi prese in giro la vocina.
    Bella domanda. Avevo agito prima di pensare e ora che lo avevo davanti non sapevo proprio che cazzo dire.
    «Beh?», mi chiese, ancora con le braccia ostinatamente incrociate sul petto e quell'odioso sopracciglio alzato.
    «Hai finito di fare la primadonna isterica?», gli chiesi.
    Rimase spiazzato. «Come, prego?».
    «Mi chiedevo quando avessi intenzione di uscire dai tuoi panni di drama queen. So che ti stanno d'incanto, ma dopo un po' scocciano».
    «Mi auguro che tu stia scherzando».
    «Non sto affatto scherzando».
    Guardò altrove, sorridendo incredulo. «Hai proprio una bella faccia tosta. Non solo mi hai rifiutato, non solo tu e mio fratello vi sforzate da giorni di non guardarvi nemmeno per un'assurda compassione nei miei confronti, adesso vieni pure a dirmi che faccio il musone. È ridicolo».
    «Compassione?!», ripetei, allibita. «Non ti accontenti proprio mai! Cos'altro avrei dovuto fare, Bill? Giurarti amore eterno?».
    «Niente», rispose, scandendo bene la parola, come se non avessi potuto capirla. «Non avresti dovuto fare proprio un cazzo. Mi sarebbe stato meglio, invece di vedere questa ridicola messa in scena tra te e Tom, come se nemmeno vi conosceste. Mi sarei sentito meno patetico».
    «Sai cosa? Da come parli sembra che tu ti senta solo terribilmente inferiore a tuo fratello».
    Bill mi guardò, arrabbiato e ferito, senza riuscire a rispondere.
    Avevo colpito nel segno.
    «Ah, è così, vero? Sei incazzato con tutto il mondo perché non ti senti all'altezza di Tom».
    «Fatti i cazzi tuoi, Elsa», rispose duramente. «Continua a pensare solo a te stessa, a come proteggerti da gente inesistente che ha solo l'obiettivo di ferirti, e, per una volta, fallo come si deve, senza tentare di fare la crocerossina solo per sentirti una persona migliore».
    Mi cadde la sigaretta dalle dita.
    Bill non se ne andò, variando dall'usuale copione, e rimase a fronteggiarmi per assistere a tutto il mio sgomento. O forse in attesa che gli rispondessi.
    Ma, davvero, non avevo proprio nulla con cui difendermi. In quel momento, lui mi aveva ferita.
    «Sì, è proprio così che ci si sente», disse. «Ora sai cosa provo ogni volta che apri bocca per rivolgerti a me. Perché ti assicuro che quando lo fai, o quando non lo fai e invece dovresti, mi sento esattamente così».
    Mi imposi di reagire, ma non me ne diede il tempo.
    «Non so in che altra lingua ripeterlo, sia a te che a quel coglione di mio fratello. Io non sono un moccioso che va consolato, non ho bisogno della vostra ipocrisia. Me la so cavare da solo».
    Hai intenzione di rispondere o preferisci continuare a guardarlo con quella faccia da sarago lesso?, mi disse la vocina.
    «Chi è che pensa solo a se stesso, adesso?», dissi. «Non guardarci come mostri cattivi, non pensare che siamo in una posizione facile». Mi veniva spontaneo parlare al plurale. «Specialmente Tom. Ti vuole bene».
    «Sicuramente lo so meglio di te. Quindi, rinnovo l'invito a farti i cazzi tuoi. Il rapporto tra me e Tom non ti riguarda nemmeno da lontano».
    Mi aveva messa al tappeto, letteralmente. Le sue non erano frasi di un ragazzino mirate a colpire solo la superficie. No, mi sentivo intimamente ferita e umiliata. Mi sentivo l'egoista che lui vedeva. Bill non era l'immaturo che si vedeva dal di fuori, decisamente, e aveva cercato di dimostrarmelo fin dall'inizio. Me ne aveva parlato la prima volta la sera del compleanno di Bea, in discoteca, mentre ballavamo. Solo che non l'avevo mai capito davvero. Ero stata troppo concentrata su me stessa. In quel momento invece i miei sentimenti erano la prova tangibile che lui aveva sempre osservato e incassato in silenzio, e aveva saputo esattamente cosa colpire e in che modo.
    Bill Kaulitz non era un fantoccio idiota. Bill Kaulitz sapeva come combattere e anche come distruggere.
    «Hai altro da dirmi o posso andare?», chiese, pronto a fronteggiarmi se avessi avuto qualcosa con cui controbattere.
    «Solo che non ho mai agito in cattiva fede». Come mi sentivo stupida.
    Schioccò la lingua. «Consolazione di merda». E marciò dentro, pestando la sigaretta che mi era caduta.
    Mi sentivo una guancia umida. La toccai e osservai la mano bagnata di lacrime nere.
    Era assurdo, stavo piangendo per Bill.
    Quando tornai dentro, dopo essermi ricomposta e aver fumato un'altra sigaretta, erano tutti nel salotto. Era quasi mezzogiorno, e il sabato io andavo via sempre verso quell'ora.
    Bill non mi rivolse uno sguardo, Tom era al telefono, Gustav probabilmente era in cucina. Quel sabato "cucinare" spettava a lui.
    «Elsa, mangi con noi?», chiese David.
    Neanche pagata. «No, grazie. Devo andare da Bea», improvvisai.
    «No, io devo andare da Bea», disse Georg, sbucando dal corridoio mentre si infilava una giacca a vento.
    Nella mia mente esplosero imprecazioni degne di un vero scaricatore di porto. «Sì, lo so. Ma mi aveva chiesto di passare».
    Sperai di risultare convincente.
    «Beh, allora accompagnami tu, così non prendo la macchina di Gustav».
    M'infilai il soprabito. Faceva già più caldo, così non ero costretta a portare sciarpa e guanti. «E come sei venuto qui?».
    «Con Gustav», sorrise.
    In effetti era abbastanza ovvio.
    Salutai tutti e m'infilai in macchina con Georg.
    «Davvero Bea ha invitato anche te per pranzo?», mi chiese, già conoscendo la risposta.
    «No. Volevo una scusa per andarmene», tagliai corto, guardando fisso davanti a me.
    «Lo immaginavo».
    Non risposi: non avevo proprio voglia di parlare. Così, accesi la radio e la sintonizzai sul primo canale che mi capitò a tiro. Con la coda dell'occhio scorsi Georg sorridere del mio stratagemma poco celato.
    «Non c'è bisogno di accendere la radio. Terrò il becco chiuso», disse gentilmente.
    La spensi. «Bene, ho mal di testa». Ero al limite della maleducazione.
    Dopo circa dieci minuti, tuttavia, la mia curiosità mi propose un nuovo argomento di conversazione. «Allora», cominciai, «con Bea come va?».
    «Non avevi mal di testa?», sorrise.
    Lo guardai con un sopracciglio alzato e lui volse lo sguardo al cielo.
    «Va bene. Andiamo d'accordo».
    «Nessuna persona normale va d'accordo con Bea», affermai.
    «Tu e Didi ci andate d'accordo però».
    «Appunto».
    «Non capisco».
    «Tu e gli altri passate intere giornate a ricordarmi quanto non sono normale. E Didi, beh, quale essere sano di mente si metterebbe pantaloni di coccodrillo per andare al supermercato? Non è solo questione di omosessualità».
    Ridacchiò e riuscì a far sorridere anche me. «Magari è proprio perché non è il prototipo della ragazza comune che Bea mi piace così tanto. D'altra parte, nemmeno noi siamo tanto comuni».
    Sento puzza di fregatura, disse la vocina. Ero completamente d'accordo con lei.
    «Voi?».
    «Nemmeno a Tom e Bill piace una ragazza del tutto normale».
    Feci un respiro profondo. «Quindi vi siete accorti di tutto».
    «Noi ci eravamo accorti di tutto anche prima di voi. Solo che siete un po' tonti e non avete capito che siete il nostro argomento di gossip preferito».
    «Meraviglioso», dissi con fastidio.
    «Elsa, è impossibile non notare cosa c'è tra te e Tom. Sii realista».
    «L'unica cosa che c'è tra me e Tom è tanta distanza».
    «Sì, come no», rise.
    Accelerai, ansiosa di arrivare il prima possibile. Volevo stare da sola. «Mi dici com'è che si finisce per parlare sempre di me e di Tom? Io ho cominciato con te e Bea».
    «Sì, ma io e Bea non siamo così spassosi come voi due. Dovreste guardarvi dall'esterno: due calamite che tentano in ogni modo di non saltarsi addosso e si ringhiano contro a vicenda. Almeno, noi non abbiamo negato con tutte le forze di piacerci».
    «Tu e Bea non siete colleghi. E, fortunatamente per te, sei figlio unico».
    «Elsa, dai: anche se Bill non si fosse messo in mezzo con il suo atavico senso d'inferiorità verso il fratello, tu ti saresti creata ugualmente un sacco di problemi inutili».
    «Allora è vero che si sente inferiore», glissai abilmente.
    Georg si riavviò all'indietro i capelli, sospirando ancora. «Sì, sei tu l'unica che non se n'era accorta. Una delle motivazioni più forti che spingono Bill a fare quasi tutto ciò che fa è suo fratello. E tu gli piaci proprio perché fin dall'inizio tu e Tom avete fatto scintille, sia pur insultandovi a vicenda. E, ultim'ora, a Bill ha dato fastidio che Tom fosse sempre al centro della scena, nonostante i suoi modi da orso. Ecco perché si è attaccato così tanto a questa storia».
    Ora si spiegava tutto. «Hai studiato psicologia?».
    «No, basta guardarsi intorno e riflettere».
    Allora era proprio vero che pensavo solo a me stessa. «E non avere niente da fare», aggiunsi.
    «Te l'avevo detto che siete troppo spassosi tutti e tre. Ti dispiacerebbe rallentare? Non voglio diventare un pappina umana spalmata contro un albero».
    Ridacchiai e diminuii la velocità.
    Quando lasciai Georg da Bea e rimasi sola, mi sentii vuota. Come se tutti i miei conflitti e tutti i miei pensieri avessero fatto spazio al nulla. Un nulla pesante, opprimente.
    Ripensai alle parole amare di Bill mentre girovagavo senza meta per le strade di Amburgo. Lui era stato fin troppo diretto. Tuttavia, solo un impatto frontale così violento era servito a farmi capire la realtà delle cose. Ripensandoci, era così ovvio, quasi banale.
    Bill non era così egoista da interferire nella vita privata di suo fratello. Io avevo una paura folle dei miei sentimenti per Tom, così mi ero creata delle sovrastrutture inutili, delle ulteriori motivazioni per soffocare ciò che sentivo. Avevo fatto soffrire anche lui. Mi sembrava così strano che Tom potesse soffrire, o darsi pena per qualcosa. Era sempre il ragazzo spocchioso, borioso, maleducato... e riservato di sempre.
    Dopo aver tirato quelle conclusioni, mi chiesi quale essere sano di mente avrebbe osato prendersi una cotta per me. Era inconcepibile, assurdo, da veri masochisti.
    Sai come si dice in questi casi? “Dio li fa e poi li accoppia”.
    Oh, certo, di grande aiuto.
    Sospirai e mi avviai verso casa. Sarebbe stata una lunga, lunghissima giornata.

    Il lunedì successivo, alle nove e mezza, ero allo studio di registrazione. Capii subito che qualcosa non andava: non c'era la macchina dei gemelli, solo quelle di Gustav, di Benjamin e David. E una volante della polizia.
    No, decisamente qualcosa non andava.
    Parcheggiai in gran fretta, ansiosa di capire cosa stava succedendo, e quasi corsi nello studio. Tirai fuori le chiavi, ma la porta era aperta.
    All'interno c'era un gran caos: divani spostati, cuscini ovunque tranne che al loro posto, e il contenuto di ogni singolo cassetto era stato rovesciato e giaceva per terra. Il salotto, dove trascorrevamo i momenti di relax e di pausa, era un campo di battaglia.
    «Elsa, finalmente», disse David, venendomi incontro. Stava parlando con un ufficiale.
    «Com'è successo?», domandai, seria. Mi sentivo male, violata.
    Alzò le spalle. «Non lo so, stanotte di sicuro. Benjamin è andato in centrale con l'altra volante, Georg e Gustav sono di là a controllare cosa manca».
    Non osai chiedere nulla dei gemelli. «E cosa manca?».
    «Niente. Non hanno rubato nulla, a parte gli album di foto inedite, qualche fotografia e degli oggetti inutili. Il ché è un bene, visto che nei computer c'era tutto il nuovo materiale, anche se protetto da password».
    Non mi sentii per niente sollevata. Che scopo aveva mettere a soqquadro l'intero studio senza rubare niente che potesse fruttare quattrini?
    «Sospettiamo che siano state le stalkers», mi rispose David, forse comprendendo la mia domanda. «Per questo non vedi in giro Bill e Tom: stanotte delle ragazze hanno pedinato e aggredito la loro madre».
    Mi coprii la bocca con la mano. Era orribile.
    «David, dietro è tutto in ordine. Non hanno nemmeno provato a forzare la serratura della sala registrazione», disse Georg, sbucando dal piccolo corridoio.
    «Avete sporto denuncia?», domandai, con la voce che mi tremava. Mi guardai intorno: era come se lo studio fosse stato dissacrato, come se non ci appartenesse più. Nessuno era mai entrato in casa mia senza il mio permesso, non avevo mai provato come ci si sentisse.
    «Certo», disse Gustav. «E non è la prima volta: i gemelli combattono da mesi contro questa storia, ma quelle non si fanno scoprire».
    Annuii a fatica.
    «Noi abbiamo finito», annunciò l'ufficiale, sbucando dalla cucina. Era un uomo alto, piazzato, di mezza età. «L'unica cosa da fare è segnalare l'avvenimento al Comando, e chiedere di avere una volante sempre nei dintorni, anche di notte. È tutto ciò che possiamo fare».
    «Grazie», dissero in coro Gustav e David. Georg si stava guardando intorno.
    Dopo aver salutato l'agente, ci demmo da fare per mettere in ordine. Dopo tre ore il pavimento era di nuovo sgombro, ogni cassetto era stato sistemato e i mobili erano a posto. Mancavano i posters appesi alle pareti, le fotografie, le posate nella cucina, dei vestiti, e tutti gli album di foto non pubblicate, come aveva detto David. Fortuna che la sala registrazione fosse sempre chiusa a chiave, quando non la usavamo.
    In quelle tre ore, al dispiacere e alla sorpresa, era subentrata la rabbia.
    Che diritto avevano delle ragazzine fanatiche di violare in questo modo la vita privata dei ragazzi? Sembrava una sorta di vendetta personale, un meccanismo perverso: sei un personaggio famoso, quindi non hai più diritto al rispetto e alla privacy che spettano ad ogni altro essere umano.
    Mi sentivo furiosa.
    «Elsa, stai spostando da cinque minuti gli stessi cd su quella mensola», disse Gustav.
    Riemersi dai miei pensieri e misi a fuoco la scena davanti a me: stavo riordinando i cd per altezza delle confezioni. Poco prima li avevo disposti in ordine alfabetico.
    Gustav mi sfilò gentilmente una custodia di mano. «So come ti senti», disse, comprensivo, rimettendolo a posto.
    «Avete avuto notizie di Bill e Tom?», domandai a bassa voce.
    «Sono andati a Magdeburgo appena hanno ricevuto la telefonata della madre. E cioè appena hanno messo piede qui dentro».
    Mi riavviai i capelli nervosamente. Avevo bisogno di sapere.
    «Elsa?», mi chiamò David.
    Mi voltai.
    «Per oggi credo che tu possa andare a casa. Non c'è molto da fare qui. Grazie comunque per aver aiutato».
    «No, resto con voi».
    «Lo apprezzo, ma ormai non si può fare più nulla. I gemelli e Benjamin non ci sono, e io non me la sento di lavorare».
    Non potevo tornarmene a casa come se nulla fosse successo! Ero nervosa, arrabbiata e ansiosa di sapere, di avere uno straccio di notizia.
    Georg mi venne in aiuto. Mi mise una mano sulla spalla e parlò a David. «Allora noi adesso telefoniamo a Bill e chiediamo cosa è successo. E se è il caso facciamo un salto lì».
    David annuì, sfregandosi la fronte. Sembrava ancora più spossato e sconvolto di me.
    Rivolsi uno sguardo riconoscente a Georg, che mi sorrise. Sfilò il cellulare dalla tasca e compose un numero a memoria.
    David sparì in cucina, io e Gustav ci sedemmo sul divano e attendemmo che qualcuno dall'altra parte del telefono di Georg rispondesse.
    «Ehi, Tom, sono Georg», lo sentii dire. «Come... Ah. Certo. No, siamo tutti qui», si voltò verso di noi, sottolineando la parola tutti. «Tua madre come sta?», una lunga pausa. «Capisco. E Bill?».
    Mi sentivo in ginocchio sui ceci. La velocità con cui facevo tamburellare il mio piede sul pavimento mi procurava dolore all'intera gamba.
    «Pensavamo di fare un salto», continuò Georg. Dopo meno di un minuto mi guardò, come se Tom stesse parlando di me. «Sì. Te la passo».
    Perché voleva parlare con me? Non avevamo tacitamente deciso di ignorarci?
    Presi il telefono ostentando calma e tranquillità. Il cuore in realtà mi batteva come un maledetto tamburo africano. «Pronto?».
    «Ehi», disse. I rumori di sottofondo andavano allontanandosi, segno che si stava isolando per parlare.
    «Come ve la passate?», domandai.
    «Splendidamente. Mia madre non sa se essere spaventata o incazzata come una iena, ma sta producendo ettolitri di caffè e tisane disgustose da offrire agli agenti che popolano la cucina. La sua macchina è diventata un campo di battaglia navale e la polizia circonda la casa. Lì?».
    «Meravigliosamente. David è sconvolto, Benjamin è alla centrale per farvi controllare notte e giorno dalle forze dell'ordine, e dallo studio mancano le vostre foto, gli album, i vestiti e perfino le posate. Francamente non so che scopo abbia avuto rubare certi oggetti».
    «Quelle pazze archivieranno quella roba nel materiale da masturbazione o lo metteranno in qualche teca di vetro per adorarci».
    Sorrisi appena. «O per qualche rito voodoo. La maggior parte dei vestiti che manca è tua».
    «Hai sbirciato nei miei cassetti?», domandò con tono furbo. Dalla voce potevo sentire che sorrideva.
    «L'ha fatto Georg».
    «E scommetto che tu guardavi».
    Mi morsi un sorriso, chiedendomi come facesse a scherzare in un momento del genere. «No, caro. Non sei al centro del mondo, lo sai?».
    «Sono al centro del tuo, però».
    «L'importante è esserne convinti». Io ne ero quasi convinta.
    Ridacchiammo insieme, poi ci fu una piccola pausa, in cui nessuno sapeva più cosa dire. In realtà le cose di cui parlare erano fin troppe.
    «Bill come sta?», azzardai.
    «Come vuoi che stia?», sospirò. «Si sente impotente e arrabbiato, proprio come me. Non sappiamo che altro fare».
    «E il vostro avvocato?». Il loro avvocato e mio padre erano la stessa persona, lo sapevo, ma volevo prendere il più possibile le distanze dalla mia spocchiosa famiglia aristocratica.
    «Aaron per ora si sta attivando con la polizia, ma non può fare molto, in mancanza di qualcuno a cui far causa».
    «Una bella notizia dopo l'altra, insomma», commentai sarcastica.
    «Oh, ne sta appena arrivando una».
    «Un'altra bella notizia?».
    «Già. La poliziotta che speravo di lavorarmi è un cesso».
    «Almeno saprai dove dirigere i conati di vomito», commentai. «E perché avresti dovuto lavorartela?», chiesi. Forse nella mia domanda c'era fin troppo interesse.
    «Per accelerare le indagini, che domande».
    «Penso che il vostro cognome sia una motivazione sufficiente ad accelerare le indagini», commentai.
    «Adesso però devo rientrare», affermò, dopo una breve pausa.
    «D'accordo». Cercai di non mostrarmi troppo delusa. Parlargli mi faceva sentire bene.
    «Ehm... grazie. Mi ha fatto bene sentirti», disse a voce bassa, come se si vergognasse.
    Non dovevo sorridere come un'ebete. Non dovevo.
    «Prego». Il mio tono melenso però mi suggeriva che stavo esattamente sorridendo come un'ebete.
    «Allora ciao».
    Attesi che ricambiasse il saluto e chiusi la chiamata.
    Solo in quel momento mi ricordai del mondo intorno a me. Sia Georg che Gustav stavano sorridendo furbescamente, seduti ai lati del divano con me.
    «Beh?», domandai.
    «Stavamo per prendere i popcorn», disse Gustav. «”E perché avresti dovuto lavorartela?”», mi scimmiottò. «Una battuta degna di un vero film romantico».
    «Fottiti, Gustav».

    I gemelli rimasero a Magdeburgo per tutta la settimana successiva. Sei giorni in cui non ebbi loro notizie. Andavo ogni giorno allo studio di registrazione con la segretissima speranza di avvistare la loro macchina, ma era sempre una delusione. In compenso Benzner e Roth, altri due produttori, avevano preso a collaborare con noi al perfezionamento delle tracce. Tuttavia lavoravamo e basta, senza concederci troppe pause. Non si parlava quasi mai di quello che stava succedendo a Magdeburgo, e né Bill né Tom si stavano facendo sentire. Si sentiva la loro mancanza allo studio.
    Cercavo di ripetermi che erano entrambi troppo occupati, che avevano bisogno di spazio, che era comprensibile che non stessero sempre attaccati al telefono. Non mi rendevo conto che più cercavo di non pensarci, più mi ossessionavo e volevo sapere.
    Una chiamata la potevano anche fare, no? La loro adorabile mammina non avrebbe protestato se uno dei suoi figli l'avesse lasciata sola per dieci minuti.
    Sei patetica, mi ripeteva la vocina continuamente. Se la Elsa di qualche mese fa ti vedesse ora, forse farebbe harakiri piuttosto che ridursi così.
    Non sapevo cosa mi stava succedendo. Sul contratto di lavoro non c'era scritto che avrei avuto simili effetti collaterali, e ogni volta che tornavo a casa, il pomeriggio, imprecavo e me la prendevo con chiunque e qualunque cosa mi capitasse a tiro.
    «Vaffanculo!», strepitai un giorno, calciando uno dei cassetti del freezer perché si chiudesse. Quando il rumore secco di plastica mi confermò che il cassettino era al suo posto, mi sentii soddisfatta.
    Era mezzogiorno, ero tornata prima come ogni sabato, ed ero sola in casa con Didi, che aveva il giorno libero. Nessuno voleva cucinare, o uscire per andare a fare spese, così, in mutande lui, e in pantaloncini e maglia io, avevamo ripiegato sulle schifezze.
    «Amore, non dovresti arrabbiarti così, o ti verranno le rughe prematuramente», mi disse gentilmente Didi, che se ne stava appollaiato sul pavimento, con il cucchiaio immerso nel vasetto di Nutella e la bocca sporca.
    «Pensa ai brufoli che ti verranno domani, dopo tutta quella Nutella», ringhiai, affogando la mia rabbia nel bicchiere di gelato appena tirato fuori, molto coerentemente.
    «Quelli se ne vanno con una buona pulizia del viso», mi rispose.
    «Sai, caro, dolce Didi», cominciai, sedendomi sul tavolo come d'abitudine. «Mi chiedo perché tu ti possa truccare, mettere perizomi, seminare per casa fruste e catene dal dubbio utilizzo, e perché tu possa mangiare tutto ciò che cazzo vuoi, non solo senza ingrassare, ma senza che io ti rompa le palle, mentre io non posso rompere il freezer in tutta libertà senza sentir parlare di rughe».
    Mi guardò dal basso con gli occhioni azzurri, sfilandosi lentamente il cucchiaio di Nutella dalla bocca. «Perché io ti voglio più bene e tengo alla salute della tua pelle. Tu invece non pensi mai a me», piagnucolò.
    «Perché ci pensano abbondantemente tutti i tuoi amichetti, senza contare l'esercito di creme di cui ti cospargi. E che occupano anche il mio armadietto, vorrei precisare».
    «L'obiettivo è cominciare a fartele usare. Vedi che ti voglio sempre più bene io?».
    «Certo, certo», lo assecondai, masticando le praline di cioccolata.
    «Sul serio, sai? Dovresti curarti di più».
    «Non mi pare di non sapere cosa sia un mascara, o una spazzola. Possiamo chiudere l'argomento».
    «La solita simpaticona», brontolò. Ma poi sfoderò il tipico sorriso furbo e malizioso. «Capisco che ormai hai fatto colpo...».
    «Non so di cosa stai parlando».
    Che bugiarda, mi rimproverò la vocina bonariamente. Ti perdono solo perché non hai fatto la figura della pazza arrabbiandoti inutilmente. Stai recuperando in dignità.
    «No, non lo sai, certo», stava dicendo intanto Didi. «Sai, sono dell'opinione che dovresti chiamarlo...».
    «Chiamare chi?», domandai inutilmente.
    Didi si spazientì. Appoggiò ringhiando il vasetto sul pavimento e mi scoccò uno sguardo infuriato. Il risultato fu solo la mia risata: era completamente sporco di Nutella.
    Qualunque uomo omosessuale o donna etero, avrebbe avuto un'extrasistole se l'avesse visto seminudo sul pavimento e sporco di crema al cioccolato. Io ormai non riuscivo più a considerarlo come una persona di cui potermi innamorare. Era come un fratello.
    «Ti faccio ridere così tanto?», domandò offeso.
    «Da morire. Posso scattarti una foto? Se la vendessi diventerei ricca», risposi, ridacchiando sotto i baffi.
    «Stavo cercando di essere serio. Dovresti davvero chiamarlo».
    «Non ne vedo il motivo».
    «Io sì. Ti basta non vederlo una settimana per diventare ancora più schizzata. È anche mio interesse, dato che te la prendi con me, la maggior parte delle volte».
    Non sapevo se sorridere o essere attonita. Non avevo detto niente a Didi dello studio di registrazione e dell'assenza prolungata dei gemelli.
    «Me l'ha detto Bea», mi anticipò Didi cantilenando. «Non sei mica la mia unica fonte. Anzi, se dovessi fidarmi di te non saprei nemmeno la data delle nozze di Angelina Jolie».
    «È già sposata...», sussurrai incerta.
    «Non fa alcuna differenza. Ti decidi a chiamarlo o no?!». La sua voce diventò così stridula che feci una smorfia.
    «Non posso chiamarlo, Didi. Andiamo, che figura ci farei? Solo quella della pera cotta appiccicosa, e vorrei evitare di sentirmi ancora più patetica. Se non si sta facendo sentire avrà un motivo, no? È occupato, ha troppi pensieri, o semplicemente non gliene frega niente. È possibile che non gliene freghi niente, anzi, è sicuro. Quindi vorrei evitare certe figure di merda». M'infilai in bocca così tanto gelato alla stracciatella che mi fece male il palato. Lo ingoiai a fatica, sotto lo sguardo di rimprovero di Didi.
    «Non c'è niente di patetico nel voler sapere come se la passa la loro cara mammina. Ma se non lo vuoi sapere tu, lo vorrò sapere io». Detto questo, si alzò e marciò dritto verso la mia borsa. Obiettivo: il mio telefono.
    «No!!!». Mi lanciai al suo inseguimento, inciampando, e battendo inevitabilmente il mignolo del piede destro alla gamba della sedia. Imprecando come uno scaricatore di porto, lo rincorsi zoppicando per il nostro piccolo salotto. «Non osare, Didi!», strillai.
    Con il mio cellulare in una mano e un cucchiaio pieno di Nutella nell'altra, saltò sul divano e mi fronteggiò coraggiosamente come un vero cavaliere: «non ti avvicinare!».
    «Dammi il telefono!».
    «No!».
    «Dammelo, o darò fuoco all'adorato perizoma autografato da Tom Cruise!».
    Scandalizzato, mi puntò contro il cucchiaio come un re punta lo scettro contro il colpevole. «Ora io farò questa telefonata, e se mi ostacolerai, non solo ti riempirò di Nutella, ma riferirò a Tom tutto quanto!».
    «Vedremo!». Mi lanciai sul divano mentre lui cercava spasmodicamente il numero nella rubrica, e mi sporsi per rubargli il cellulare.
    Didi strillò, allontanò la mano che stringeva il telefono, e mi strisciò il cucchiaio stracolmo sulla faccia, per poi scappare via.
    Mi sentivo la guancia destra e il naso imbalsamati, segno che la quantità di Nutella sul mio viso era decisamente troppa.
    Lo guardai allibita, mentre lui mi fissava a sua volta mordendosi il labbro e valutando i danni.
    «Sei morto». Afferrai il cucchiaino e il bicchiere di gelato rimasto sul tavolo, consapevole che era quasi sciolto, e partii al suo inseguimento dentro casa.
    «Non puoi sporcarmi, ho il tuo telefono!», tentò di difendersi, saltando sulla poltrona.
    «Me lo riprenderò e poi ti ucciderò!». Mi lanciai addosso a lui, avvolgendo le braccia a doppia mandata intorno alla sua vita e lo costrinsi a scendere. Rovinammo sul pavimento con un tonfo inquietante, compreso il gelato, che sporcò il pavimento. Didi alzò un braccio per impedirmi di prendere il cellulare, ma la sua presa non era abbastanza forte: entrambi lo vedemmo volare nella cucina e atterrare pesantemente vicino al tavolo.
    Io e Didi ci guardammo meno di un secondo. Poi scattammo entrambi per riprenderlo. Cominciammo a correre, ma Didi scivolò sul gelato per terra e urlando qualcosa si aggrappò alla mia maglia.
    «Non te la darò vinta!».
    Per tutta risposta scivolai via dalla mia maglietta, rimanendo in reggiseno e pantaloncini, e riuscii finalmente ad afferrare il cellulare. Mi stavo voltando verso di lui per guardarlo vittoriosa, ma mi trovai Didi a due centimetri da me. Appena realizzai, un'impronta ramificata di Nutella campeggiava sul mio seno e sulla pancia.
    «Stronzo!», gridai, guardandomi. «Questo reggiseno è di Victoria's secret!».
    «Ops!», esclamò, fingendosi costernato. Mentre parlavo aveva di nuovo infilato la mano nel vasetto semivuoto di Nutella, e ci mise meno di due secondi a spiaccicarmela in faccia e sul collo.
    Sgranai gli occhi, e mi diressi al ripiano della cucina, mentre Didi ancora tentava strenuamente di rubarmi il telefono.
    «Cosa vorresti fare?», mi disse minaccioso.
    «Questo!», afferrai il cartone del latte aperto che lui stesso aveva lasciato sul ripiano e glielo rovesciai sulla testa.
    Emise un urletto stridulo in risposta. «Mi hai inzuppato i capelli di latte!».
    «Lo so», risposi, con un ghigno e una buona dose di soddisfazione.
    «Adesso ti do fuoco!».
    Spaventata, ma ridendo, sgusciai via dalla sua presa per riprendere a scappare. In quel momento suonò il citofono.
    «Questa è Bea che viene a salvarmi!», esclamai. Riuscii solo a premere il pulsante per aprire il portone, perché Didi mi afferrò da dietro e mi sollevò.
    «Non puoi sempre fare affidamento sugli altri, devi assumerti le tue responsabilità!».
    «Didi, devo andare ad aprire!», tentai di dire, mentre, sia per le risate, sia perché mi stringeva la pancia così forte, non riuscivo a respirare bene.
    «Ha le chiavi!».
    «Ma se ha suonato vuol dire che non ce le ha!».
    «Allora rimarrà fuori!». Didi riuscì a rovesciarmi a terra e prese a farmi il solletico.
    Risi e strillai fino a piangere, senza potermi difendere. Quando il mio migliore amico mi lasciò, puntando a ciò che rimaneva del vasetto di Nutella, sgusciai via senza esitare.
    «Vieni qui, miscredente!», disse, afferrandomi la mano.
    «Didi, devo aprire!», mi ressi alla maniglia della porta, mentre lui cercava di tirarmi via, e riuscii solo ad abbassarla.
    «Assisteranno alla tua morte!», gridò lui. «Bea, tu sarai mia complice!».
    Mentre Didi mi teneva ferma e io ridevo, la porta si aprì con una strana lentezza.
    L'idea che non fosse Bea non mi aveva nemmeno sfiorata.
    Ebbi la matematica certezza che non c'era Bea dietro quella porta, quando vidi Tom osservare con stupore e divertimento me e Didi completamente zuppi e sporchi.
    «Se si tratta dell'omicidio di Elsa, mi offro volontario, anche se non mi chiamo Bea».
    Oh, merda.
    Rimasi impalata, mezza nuda e piena di Nutella e latte, a fissare Tom come se avessi appena avuto una rivelazione mistica.
    «Oh, ciao!», disse Didi, che ebbe molta più presenza di spirito di me. Mi mollò e sfoderò uno dei suoi sorrisi modello lampada abbronzante. «Non pensavamo fossi tu».
    «L'avevo intuito».
    «Vieni, entra. Purtroppo c'è un po' di confusione...».
    «Sì, si è sentita tutta. Ho trovato il piano seguendo le urla». Entrò, guardandosi intorno.
    Didi rise, candido e a suo agio come un pesce nell'acqua, come se non fosse stato zuppo e vestito solo di un paio di imbarazzanti boxer brillantinati. «Ti offrirei qualcosa, ma non siamo nelle condizioni adatte, come vedi».
    «Ho scelto un brutto momento, posso andare via, se volete».
    «No!», dissi, senza nemmeno pensarci.
    Mi guardò, facendo scorrere gli occhi dal mio viso al cioccolato ai miei piedi nudi. Sperai che i capelli mi coprissero il petto, ma nonostante si fossero sciolti nella lotta contro Didi, si erano bagnati di latte, quindi potevo dire addio all'effetto cortina.
    Stranamente, però, non mi sentivo a disagio. Non sentivo nemmeno freddo – merito della fissazione di Didi di avere il riscaldamento sempre al massimo – e in quel momento avevo anche un motivo in meno per sentirne.
    Ci credo, con quel fusto in giro anche un pinguino avrebbe caldo, disse la vocina, sbucata da qualche anfratto remoto nella mia mente.
    «Ehm», Didi s'intromise, guardandoci entrambi con la solita espressione furba e cospiratrice. «Allora io vado a darmi una ripulita. Elsa, fai gli onori di casa. Per quanto possibile». Salutò Tom con la sua dolce manina e sparì dietro una porta del corridoio, sicuramente quella del bagno.
    Ritornai a guardare Tom, ridacchiando. «Quando siete tornati?».
    «Tre ore fa», disse, accomodandosi sulla sedia in cui ero inciampata poco prima.
    «Siete spariti», osservai, cominciando a ripulire il disastro sul ripiano della cucina.
    «Abbiamo avuto una settimana infernale. Siamo stati costantemente tallonati dalla polizia, nemmeno fossimo noi i criminali. Non riuscivamo neanche a dormire».
    Sorrisi appena. «C'entrano gli ettolitri di caffè di vostra madre, per caso?», cercai di distrarlo.
    «Sicuramente. Nemmeno lo sa fare, un caffè decente. Ormai tutta la polizia tedesca lo sa. Forse gli agenti hanno lasciato casa proprio per non sorbirsi quella brodaglia».
    Risi. «Quindi non si è saputo niente delle stalkers».
    «No, solo che sono quattro ragazze. Avevano il volto coperto. Le poche immagini delle telecamere non hanno rivelato di più. Ma per tutta questa settimana sono sparite, ci hanno solo lasciato l'ansia e la paura di uscire».
    Sospirai, cercando qualcosa di appropriato da dire. Quando scoprii che non c'era nulla che avessi potuto tirare fuori per farlo sentire meglio, optai per il silenzio. Avrei lasciato che si sfogasse.
    «Le odio. Non sai quanto. Posso tollerare che siano fissate con noi, siamo abituati ad essere seguiti ovunque. Ma la nostra famiglia... non riesco ad accettarlo».
    Smisi di pulire il ripiano e il latte caduto sul pavimento e mi fermai a guardarlo, sperando che il mio sguardo gli dicesse che lo comprendevo. O che ci provavo, almeno.
    Mi guardò ancora dalla testa ai piedi – una figura umana priva di colore uniforme, mezza nuda e unta di crema alla nocciola e latte – e gli scappò un sorriso. «Ma, esattamente, cos'è successo qui?», domandò guardandosi intorno ancora una volta.
    Mi legai debolmente i capelli con un elastico di fortuna e mi diressi al lavandino. «Io e Didi abbiamo scoperto di esserci sempre amati e avremmo approfondito la cosa, anche con l'aiuto della Nutella, se tu non ci avessi interrotti».
    «A quanto ho capito, voleva un complice per il tuo omicidio. Che modo strano ha di amarti».
    Mi ripulii il viso con un panno bagnato, e cercai di fare il possibile per il collo. «Il nostro è un amore violento e passionale. Tu sei insensibile e non lo capisci».
    «Meno male. O le mie amanti sarebbero tutte sottoterra».
    Mi sentii punzecchiata e infastidita. Continuai a pulirmi nervosamente, dandogli le spalle. «Quindi una sveltina, consumata magari in un cesso pubblico con una ragazza sconosciuta, rimorchiata in uno di quegli squallidi locali in cui siete accolti come dei in terra per te è amore. Interessante».
    «Quanti dettagli. Mi fai supporre che la tua mente ci abbia rimuginato parecchio».
    Mollai stizzita il panno nel lavandino e mi voltai per fronteggiarlo. «Sei sempre il solito pallone gonfiato. Cosa ti tiene giù? Avresti già dovuto volare per quante arie ti dai».
    Assottigliò gli occhi, restituendomi lo stesso sguardo ostile. «E tu come hai fatto a non morire? Con tutto il veleno che hai in corpo potresti uccidere una mandria di scorpioni».
    «Lo riservo per le occasioni speciali», risposi.
    Si alzò, e io mi schiacciai istintivamente contro il ripiano, continuando a sfidarlo con lo sguardo.
    «E io sarei una tua occasione speciale? Mi dai ragione da sola».
    «Smettila di considerarti al centro del mio universo, Kaulitz. Non sei nessuno», ringhiai.
    «Perché ti sei innervosita?», domandò a voce bassa, avvicinandosi.
    «Non mi sono innervosita».
    «Invece sì», appoggiò le mani ai lati dei miei fianchi, contro il ripiano della cucina, e mi sovrastò con la sua altezza, guardandomi fisso con quegli occhi irriverenti.
    L'avevo già vista quella scena. La sera del compleanno di Bea, al Mabou. L'allarme che ululava nella mia testa, accompagnato dagli avvertimenti della vocina, era identico.
    «Allontanati, Tom».
    «Ti sei innervosita quando ho parlato delle mie amanti».
    Era crudele rinfacciarmelo con tanta cattiveria. «Le tue amanti, ma non farmi ridere. Scoparti ragazzine acefale con la predisposizione alla sola apertura di gambe non fa di te un uomo».
    Mi guardò duramente, congelandomi con uno sguardo d'odio. «Elsa, sto cercando di non arrabbiarmi. Se continui ad insultarmi però non ci riesco».
    «Non è uno sforzo che ti è richiesto», sibilai, sporgendomi verso di lui. Non avevo paura di un ragazzino appena ventenne.
    «Ma come fai a comportarti sempre così!?», disse a denti stretti. «Non mi posso avvicinare senza che mi aggredisci, o mi insulti. Che problema hai?!».
    «Sei tu che mi rinfacci continuamente le tue presunte doti da grande uomo, come se fossi l'unico maschio sulla terra ad avere un cazzo e un bel sorrisetto, quando in realtà sei solo un ragazzino. Cosa vuoi dimostrare? O vuoi solo che ti sbavi anch'io dietro come tutte le troie che ti scopi?».
    Sbatté una mano sul marmo, e mi schiacciò contro il ripiano. Il mio cuore batteva così forte che temetti potesse sentirlo anche lui.
    «Sei proprio una stronza», sussurrò. Il suo sguardo si spostava sempre più spesso dai miei occhi alle mie labbra.
    «Vaffanculo», risposi, senza spostarmi di un millimetro.
    Non ebbi nemmeno il tempo di finire di parlare, che mi baciò. E senza nemmeno pensarci due volte, dischiusi le labbra e risposi.
    Non poteva succedere di nuovo. Nella mia testa c'era un coro inquietante di allarmi e tutto un comizio di vocine che mi stavano ordinando di smettere, che mi predicevano mastodontici guai, ma per quanto la mia mente macinasse avvertimenti, il mio corpo non l'ascoltava.
    Chiusi gli occhi e affondai le unghie nelle spalle grandi di Tom, che mi strinse con forza i fianchi nudi, mentre la sua lingua stuzzicava punti fin troppo sensibili sul mio collo.
    Ci fu un istante, un brevissimo istante, in cui mi chiesi quante se ne fosse portato a letto per capire così bene come e dove toccare una donna, ma una considerevole parte di me seguiva la logica schiacciante che non aveva senso interrompere qualcosa di così gradevole.
    Gli sfilai via la maglia e la gettai sul pavimento. Mi concessi un rapido sguardo confuso alle spalle larghe, ai pettorali e agli addominali definiti, prima che mi baciasse di nuovo, con forza e decisione.
    E ad ogni tocco delle sue mani, ad ogni bacio, il caos nella mia mente si affievoliva sempre di più, soppiantato dalla voglia crescente di essere sua.
    Le mani di Tom scorsero sulle mie gambe e mi sollevarono, per mettermi a sedere sul ripiano. Mi si sciolsero i capelli, e mentre gli stuzzicavo il lobo sinistro con la lingua e gli allacciavo le gambe dietro la schiena, si premette col bacino contro di me, armeggiando già con l'apertura dei miei shorts.
    «Elsa!!!», gridò Didi dal bagno.
    Sobbalzai e d'istinto allontanai Tom, guardando atterrita verso il corridoio, e contemporaneamente sperando che Didi non ne sbucasse e ci cogliesse in flagrante.
    «Rivestiti!», sibilai a Tom. «Cosa vuoi, Didi?», gridai. Quando scesi dal ripiano e Tom si fu coperto, e Didi comparve, con un grande asciugamano – rosa – legato in vita e tre bottigliette in mano.
    «Quale di queste è lo shampoo?», domandò, prima di posare gli occhi sull'aspetto sconvolto mio, e probabilmente anche di Tom, e mordersi le labbra.
    Non controllai l'espressione del marmocchio accanto a me, ma io sentii una fortissima voglia di avvelenare il mio migliore amico con il suo stesso shampoo.
    In quello stesso istante, si sentii la suoneria sconosciuta di un cellulare.
    Mi voltai verso Tom, che aveva le labbra turgide e arrossate, e lo vidi sospirare. «È mio», disse con voce non propriamente normale. Controllò il numero per due secondi sul display. «Devo... devo andare».
    Annuii, non propriamente cosciente di quello che stava avvenendo. Lo vidi salutare velocemente entrambi con un «ci vediamo» frettoloso e sparire dietro la porta d'ingresso.
    Tornai a guardare Didi, che aveva l'espressione più smarrita e confusa che gli avessi visto in faccia.
    «Ehm».
    «Non dire una parola», lo interruppi, affiancandolo, con l'intenzione di andare a chiudermi in camera. «E comunque lo shampoo è quello a destra».

    Edited by Monique; - 17/6/2011, 16:12
     
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  13. Santana JJ
     
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    *_______* L'ho letta TUTTA d'un fiato e non ho potuto non adorarla fin da subito. Scrivi benissimo e mi piace molto il tuo stile.
    Ho sorriso davanti ai battibecchi tra i gemelli, tra i fantastici quattro, tra Elsa, Didi e Bea, ma, soprattutto, davanti a quelli tra Elsa e Tom.
    Mi sono emozionata davanti ai momenti strappalacrime e a quelli estremamente romantici (a mio parere, anche la scena violenta tra Elsa e Tom in discoteca, è stata estremamente romantica).
    Sarò banale o forse scontata nel dirlo, ma Elsa è IDENTICA a me. E' per questo che adoro il suo personaggio, mi ci rivedo totalmente.
    Mi piace molto il rapporto tra Elsa e Didi (sfido chiunque a non volere un migliore amico così).
    Odio fermamente la sua famiglia di pompati e snobbosi ipocriti ciarlatani (anche se a dirla tutta, i continui insulti sul modo di essere e di vestire da campagnola che Aaron rivolge ad Elsa, mi hanno fatto sorridere, perchè li ho trovati, anche se paradossalmente, davvero buffi -della serie che, mio padre, quando mi vede tagliare la carne, mi dà della bovara ed io, per evitare di incazzarmi e non peggiorare la situazione, mi ritrovo a ridergli in faccia. Ma questa è un'altra storia-).
    Mentre Bill, povero, mi fa un sacco tenerezza e mi dispiace che viva così male questo fantastico triangolo amoroso (e anche se mi duole per lui, tifo inevitabilmente per la coppia Elsa-Tom).
    Ma vogliamo parlare di Georg e Gustav, che si danno il cambio per assistere ed assolvere Elsa dalle sue regolari confessioni a cuore aperto (o quasi)? A dir poco fantastici.
    Inutile dire che tutti i particolari, tutte le tue descrizioni minuziose sui luoghi, le persone, le loro emozioni, i loro pensieri, sono scorrevolissime ed estremamente interessanti.
    Non c'è dubbio che io possa annoiarmi davanti a qualcosa scritto da te.
    Basta. In poche parole, dire che questa fanfic è stupenda, è un eufemismo. E non lo dico solo per carineria, sennò non mi sarei neanche sforzata di lasciare un commento (anche se a grandi linee), spero, costruttivo.
    Detto ciò, spero vermante che tu possa ripostare presto, perchè sono assolutamente impaziente di leggere il prossimo capitolo!

    Ps: beh, la scena finale del duello all'ultimo sangue con nutella, latte e gelato è stata a dir poco esilarante! E Didi alla fine che li ha interrotti sul più bello?! Ma Didi! NON SI FA. XD
     
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  14. Monique;
     
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    Hahahahahah grazie mille per il tuo commento, mi ha fatta sorridere mi ha molto lusingata.
    Fa sempre piacere.
    Spero che riuscirai a stare dietro ai miei lunghissimi tempi di postaggio, per scrivere tra i vari impegni (oggi ho finito gli esami di Stato) ci metto una vita.
    Grazie ancora, un bacio.
     
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  15. Santana JJ
     
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    CITAZIONE (Monique; @ 1/7/2011, 21:32) 
    Hahahahahah grazie mille per il tuo commento, mi ha fatta sorridere mi ha molto lusingata.
    Fa sempre piacere.
    Spero che riuscirai a stare dietro ai miei lunghissimi tempi di postaggio, per scrivere tra i vari impegni (oggi ho finito gli esami di Stato) ci metto una vita.
    Grazie ancora, un bacio.

    Ti capisco per quanto riguarda gli esami -io ne ho fatto uno proprio oggi, e ne devo dare ancora altri due prima di agosto-, ma non ti preoccupare. Scrivi troppo bene, perchè io possa abbandonare questa fanfic. Aspetterò quanto sarà necessario. (:
     
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218 replies since 23/6/2009, 12:26   5970 views
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