Love for music;

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  1. .Enigmatic
     
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    Eccomi qui; finalmente sono riuscita a trovare un buco per commentare questo bellissimo capitolo che ancora una volta ci hai regalato. Ribadisco che il tuo modo di scrivere spiazza. Sei così espressiva, così chiara e scorrevole... Insomma, impeccabile. Come ti ho già detto altre volte, riesci sempre a farmi immedesimare perfettamente in ogni tuoi personaggio, pur nelle loro diversità. Non sei per niente scontata in tutto ciò che scrivi; è sempre una sorpresa e mi piace tanto questa cosa.
    Passando al capitolo, inizio col dire che la scena iniziale della ceretta è stata esilarante. Mi sono fatta sane risate anche perchè so cosa vuol dire; a momenti mi mettevo ad urlare anche io, insieme a Elsa. Ho trovato molto buffo ed inspiegabilmente tenero il fatto che gliel'abbia fatta proprio Didi. Anche io voglio un amico del genere, continuerò a ribadirlo. Così simpatico, dolce, schietto e sincero. Penso che un amico gay sia un po' il sogno di ogni ragazza xD
    Per quanto riguarda la situazione di Elsa con Bea, ripeto il fatto che riesco a capire la prima. Forse una reazione del genere è abbastanza normale, nonostante un po' ingiusta, da una parte. D'altronde Bea è libera di fidanzarsi con chi vuole ma la paura di Elsa è più che giustificabile. Più tieni ad una persona, più hai paura di perderla nell'esatto momento in cui subentra nella sua vita qualcuno di nuovo e che quindi toglierà inevitabilmente degli spazi a te. Perchè fondamentalmente si è possessivi ed un po' egoisti; si vorrebbe quella persona tutta per sé, ma bisogna anche capire che non si può avere l'esclusiva e che ognuno ha bisogno dei propri spazi.
    Anche la “rivelazione” di Didi è stata dolce; del fatto che anche lui vorrebbe qualcuno accanto. Mi ha fatto tanta tenerezza ed ho compreso anche la sorpresa di Elsa. Forse l'ha un po' spaventata per lo stesso fatto di Bea o forse si è solamente abituata ad avere Didi tutto per sé.
    Ehm, ehm, ma vogliamo parlare del messaggio di Tom? Ma quanto mi è piaciuto? Per quanto buzzurro possa essere, non posso fare a meno di adorarlo. Non so perchè ma sono riuscita a trovare qualcosa di tenero ed affettuoso anche in quel messaggio così apparentemente scorbutico. Lo so, sono pazza.
    Arrivando all'ultima scena. Tu. Tu devi aver progettato la mia morte, confessa.
    Ti rendi conto di quello che hai osato scrivere? Innanzitutto la conversazione è stata perfetta e secondo me non poteva svolgersi diversamente, quindi i dialoghi sono sempre azzeccati. Era come se io fossi lì, mentre leggevo e ormai lo sai.
    Ma quando Tom la bacia? Ne vogliamo parlare? Devo descriverti ogni minimo movimento, salto mortale che ha fatto il mio povero cuoricino, già debole di suo? Accidenti, donnaccia, mi hai fatto perdere cinque anni di vita. È stato così inaspettato, così... Boh, bello. Mi sono messa ad esultare come una mongoloide, da sola, davanti al computer e mi sono vergognata di me stessa U.U
    L'hai descritto benissimo, davvero complimenti. Ho avuto veramente i brividi, nonostante fosse solo un bacio. Forse perchè anche le cose più semplici, tu sei in grado di trasformarle in qualcosa di grande, in qualcosa di toccante e profondo e questo perchè hai un talento pazzesco. Ora sono dannatamente curiosa di sapere come proseguirà la storia, o meglio, cosa accadrà nel prossimo capitolo e che cosa succederà fra Tom ed Elsa.
    Bravissima veramente, ormai sai cosa penso di te =)
    * Torna a spupazzarla su msn *
     
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  2. Monique;
     
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    Grazie mille. I tuoi commenti mi rendono sempre orgogliosa.
     
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  3. caro483
     
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    quando continui???
     
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  4. Monique;
     
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    Appena mi rimetto a scrivere... in questo momento non ne ho proprio il tempo...
     
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  5. Monique;
     
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    Eccomi, come sempre, con eoni ed eoni di ritardo.
    Che dire, capitolo parto, scritto in un momento particolarmente difficile della mia vita, ma spero che il risultato sia di vostro gradimento.
    Un bacione e buona lettura.

    Capitolo 11

    Indifferenza. Totale, completa, sublime indifferenza.
    Subito dopo il bacio di Tom, nonostante fossi ancora frastornata e piuttosto confusa, avevo deciso di fare come se non fosse mai successo nulla.
    Almeno, questo era ciò che mostravo.
    Tom e Bill avevano continuato per tutto il pomeriggio e anche per tutta la giornata lavorativa seguente a lanciarsi occhiate di fuoco sotto gli sguardi di David e Natalie – che era venuta a far loro visita – e a scrutare me, che sguazzavo apparentemente beata nella mia indifferenza.
    Tuttavia non ero stupida. Nonostante l'incredulità, nonostante l'assurdità di quella situazione, avevo capito di essere il motivo della competizione e dei litigi continui tra i Kaulitz.
    Assurdo che io – proprio io! - che non volevo complicazioni fin dall'inizio, che non volevo nessun tipo di legame che andasse oltre quello lavorativo, fossi finita al centro delle attenzioni dei due gemelli dei Tokio Hotel. Impensabile.
    E tu che da piccola sognavi di mungere le vacche di tua nonna!, mi ricordò sghignazzando la vocina.
    Crollai affranta sul divano di casa mia, massaggiandomi le tempie. Erano le due passate di pomeriggio, ed ero appena tornata. Didi sarebbe rincasato a momenti, ma proprio in quel breve lasso di tempo, il mio cervello sarebbe bollito.
    Bill aveva una cotta per me. Tom aveva una... un interesse verso di me.
    Il solo pensarlo mi faceva accapponare la pelle.
    In più, non avevo ancora sentito Bea. Sapere che c'era quella situazione irrisolta mi appesantiva ancora di più.
    E in questo meraviglioso quadretto hai dimenticato di contare la tua micidiale cantonata per il gemello cazzuto.
    Quella non era un problema. Non avevo nessuna intenzione di prendere in considerazione i miei sentimenti per Tom. Certo, al solo pensiero qualcosa di sottile e affilato mi pungeva il cuore, come una sorta di bucatura di spillo, ma non potevo cambiare lo stato delle cose.
    La rockstar e la ragazza comune, figurarsi! Ci saremmo visti un'ora sì e tre mesi no, e in quell'ora ci saremmo solo scannati a vicenda. E chi mi assicurava che Tom non volesse solo togliersi un prurito?
    No, dovevo solo terminare quel dannato album e tanti saluti.
    E davvero tu accetteresti di non vederli più?, mi domandò la vocina. Parli come se con loro non stessi bene.
    In quel momento la serratura della porta di casa scattò ed entrò un Didi sorridente, saltellante ed intirizzito.
    «Sono tornato!», annunciò. Si tolse il soprabito e i guanti, saltellando sui piedi e li appese all'appendiabiti. «Fa freddissimo, ma non c'è vento e c'è il sole!»
    Gli sorrisi, grata che avesse interrotto il mio flusso di pensieri. «Eccoti! Come sta Ferdinand?».
    Alzò le spalle e si tuffò accanto a me, facendomi rimbalzare sul cuscino del divano. «Come al solito. Ultimamente è più mansueto perché ha assunto un'altra ragazza che mi sostituisca quando io non ho la forza di alzarmi, la mattina».
    Mi strinsi le ginocchia al petto, fissandolo curiosa. «Oh. E che tipo è?».
    Abbassò le ciglia bionde e sorrise. «È carina. Bionda, come tutte le ragazze tedesche, non molto alta... Mediamente simpatica. Nella norma, insomma».
    «E già del tutto pazza di te, presumo», dedussi. Sapevo che era così, Didi faceva sempre un certo effetto sulle ragazze. Era solare, allegro, ma, soprattutto, molto sensibile. Riusciva a capire i sentimenti delle ragazze, perché li provava lui per primo, ma questo particolare sfuggiva alla maggioranza. Chi aveva contatti con lui per la prima volta vedeva un ragazzo che faceva particolare attenzione all'abbigliamento, leggermente effeminato, ma tutto sommato non pensava subito che fosse gay.
    No, non subito. Solo dopo un paio di giorni, sentii sghignazzare.
    «Non ha speranze», mi disse, noncurante.
    «Certo che non ne ha. Tu sei solo mio». Sfarfallai le ciglia nella sua direzione e mi restituì uno sguardo perplesso.
    «Come mai così affettuosa? È dai tempi della scuola che non sei così gentile».
    Scrollai le spalle, ostentando indifferenza. «Non posso?».
    «Ma certo», mi pizzicò un fianco con le dita.
    «Non osare!», molleggiai sul divano, proteggendomi con le braccia. «Solo perché sono carina e affettuosa non ti devi approfittare».
    «Oh, non sia mai che la piccola Sissi si conceda un po' di sano relax psicologico», mi punzecchiò. «Comunque, stasera al Mabou c'è una band molto carina. Mischiano rock e musica sinfonica, so che ti piacerebbe. Vieni?».
    Qualcosa di pesante più o meno quanto un mattone mi piombò sullo stomaco. «Anche se questi tizi non fossero la brutta copia dei Muse, come invece mi aspetto, verrei. Ma mi hanno già incastrata».
    Didi mi guardò assottigliando gli occhi, ma non mi pose nessuna domanda.
    Strano. Lui era fin troppo curioso, il fatto che non mi chiedesse dove dovessi andare mi metteva addosso una strana agitazione.
    «Dove vai?», domandò infine, molto, molto in ritardo.
    «All'Apples. Ho una cena di lavoro con i ragazzi», risposi guardinga.
    Si distese e sorrise, come sollevato. «Oh. Cose del genere non capitano tutti i giorni».
    «A me capitavano una volta ogni tre giorni, qualche tempo fa».
    Agitò una mano con noncuranza. «Solo perché sei una riccona con una famiglia facoltosa». Prima che potessi rispondere, riprese a parlare. «In ogni caso, hai pensato all'accompagnatore?».
    Accompagnatore? Perché mi sentivo già presa dal panico?
    «Accompagnatore?», domandai educatamente.
    «Sì. In posti così non si può andare da soli, specie se è una... cena di lavoro. Che figura ci fai?».
    «Ti ricordo che è, per l'appunto, solo una cena di lavoro, non una gara a chi è più figo».
    Fece l'espressione di chi la sa lunga e mi sentii subito irritata. C'era qualcosa che non sapevo.
    Tanto per cambiare, no?
    «E poi, anche se fosse, non posso mica noleggiare un ragazzo e chiedergli di accompagnarmi».
    Didi rise di gusto, addirittura piegandosi in due. A volte il suo modo di fare plateale ed esagerato mi lasciava di sasso.
    Lo fissai, sconcertata. «Didi?»
    «Davvero ti poni questo problema?», domandò fra le risa. «Al bar del Mabou c'è la fila per te, e tu ti chiedi con chi andare?».
    Incrociai le braccia sul petto, guardando altrove imbronciata. «La fila sarebbero i due ragazzi che saluto a malapena quando andiamo al locale?».
    «Proprio loro. Ti sbavano dietro peggio di cani, anche se non dai loro nemmeno la possibilità di farsi conoscere».
    «Non è vero. Anzi, sicuramente hanno altro da fare che “sbavare dietro” a me. E poi, ho anche provato ad uscire con Erich...», feci rapidamente il calcolo, «tra Natale e Capodanno dell'anno scorso».
    «Quindi, dato che siamo a febbraio... ieri, direi», mi derise.
    «Non eravamo compatibili, tutto qui. E mi sembrava molto da stronza uscire anche con Dominik dopo Erich, quindi ho lasciato perdere».
    Mugolò pensieroso. «Beh, loro sono comunque da considerare. E di Sven che mi dici? Si è fatto sentire?».
    Mi oscurai all'improvviso.
    Quella con Sven era stata l'unica mia storia seria. Ci eravamo conosciuti nell'ambiente facoltoso che frequentavamo entrambi quando avevamo diciassette anni, eravamo sempre stati amici. Perfino quando ero andata via di casa scelse di restarmi vicino, in barba al disappunto della sua famiglia. A vent'anni avevamo entrambi imboccato strade diverse. Lui quella dell'architetto, io quella della musicista, ma c'era sempre stato qualcosa tra noi. Qualcosa di sottile, che ci divertivamo a tenere nascosto e far finta che non ci fosse. Lui era aveva un carattere forte, io ero testarda e volitiva. Nonostante fossimo un mix esplosivo e spesso litigassimo per le più piccole sciocchezze, stavamo bene in compagnia.
    Poi fece la prima mossa, stanco di quel giochino, e ci mettemmo insieme. Durammo due anni, poi lui mi lasciò per trasferirsi a Nizza, per via del suo lavoro.
    L'assurdità era che una volta tornato, dopo un anno, mi aveva cercata. Come se fosse possibile ritornare insieme dopo che si era realizzato, pensando prima di tutto a se stesso e lasciandomi ad Amburgo a soffrire come una bestia. Tanto tempo passato a chiedermi come avessi fatto a non capire di essere meno importante del suo lavoro non poteva essere cancellato con una telefonata, o un paio di pranzi offerti.
    «No», risposi a Didi. «L'ultima volta che mi ha chiamata è stato verso inizio gennaio. Giusto due giorni prima che cominciassi a lavorare per i ragazzi. Poi niente».
    Non che mi dispiacesse, ovviamente. L'avevo mandato a quel paese e non intendevo tornare indietro.
    «Però fa sempre un certo effetto su di te, vero?», domandò ancora Didi. Per una volta, perse il solito tono saccente: la sua era davvero una domanda.
    Potevo capire perché quel punto gli fosse così oscuro. Non parlavo mai di Sven, non mostravo mai che a volte mi mancava, non davo mai a vedere che, anche se non lo amavo più, ogni volta che ci pensavo qualcosa dentro mi faceva male. Avrebbe sempre fatto male.
    «Beh, sì...», risposi, evasiva. «È stato molto importante per me».
    Era stato l'unico importante per me, per la precisione. Purtroppo io costruivo i miei affetti solo se costretta a stare costantemente a stretto contatto con le persone. Mai mi prendevo la briga di cercarle o di mostrare che ero in qualche modo interessata o legata a qualcuno, non facevo mai un passo in avanti. Sven l'aveva capito e aveva avuto la pazienza e la costanza di cercarmi, di non arrendersi, anche se capitava che avessi la luna storta e non lo consideravo, o lo trattavo male.
    Però, in qualche modo, percepivo che le cose stavano cambiando. Io ero ancora più sfuggente e chiusa di quando ruppi con lui, ma, man mano che passavano i giorni, la mia corazza si indeboliva sempre di più. E, sì, era anche merito di quei quattro matti che frequentavo ogni giorno e a cui mi stavo pian piano affezionando.
    «Quindi?», Didi mi riportò alla realtà.
    «Mi sembra così squallido farmi accompagnare ad una cena di lavoro... e se poi fossi l'unica? Se facessi una figuraccia?».
    Il mio amico esalò un verso esasperato, alzando gli occhi al cielo. «Elsa, quante storie inutili! Partendo dal presupposto che non sarà così, male che vada lo fai conoscere ai ragazzi».
    Mi morsi le labbra. C'era anche un altro particolare che non avevo valutato.
    Già, bambola. Come la metti con i Kaulitz se ti fai vedere con il tuo ex? Si accorgerebbero subito che non siete solo amici.
    «Uffa!». Mi presi il capo tra le mani e mi acciambellai su me stessa, lamentandomi con voce stridula. «Mi scoppia la testa!».
    Sentii la mano di Didi darmi pacche lievi sulla spalla. «Suvvia, è solo una cena».
    Mugolai, querula. Non era solo una cena, era tutto un maledetto progetto per farmi impazzire! Qualcuno lassù doveva avercela con me.
    «Voglio morire», decretai.
    «Oh, non così presto», mi rassicurò. «Quindi, chiami Sven o no?».
    «No». Piuttosto che assemblare il mostro a tre teste Bill, Tom e Sven mi sarei presentata in pigiama, con le pantofole a forma di coniglio e un peluche sottobraccio. «E nemmeno capisco perché sia così importante che abbia una compagnia».
    «Perché te lo dico io. Segui i consigli del tuo vecchio».
    Mi prese il telefono dalla borsa e si risedette al mio fianco. Tentai di fermarlo, ma sfuggì alla mia presa e resistette perfino alle mie unghie. Cercò in rubrica il numero di Sven e premette il tasto verde, sotto il mio sguardo pieno di orrore.
    «Cosa fai?!», sibilai.
    Mi schiaffò il cellulare in mano e me la portò all'orecchio. «Sta squillando» disse perentorio.
    Oh, mio Dio.
    Uno squillo.
    Non rispondere.
    Due.
    Ti prego, ti prego, fa' che non risponda!
    Tre.
    «Pronto?».
    La vocina nella mia testa sghignazzava perfidamente.
    «Ehm... Sven? Sono Elsa», balbettai impacciata, mentre Didi se la rideva sotto i baffi accanto a me.
    «Elsa, che bella sorpresa!». Sentii il sorriso nella sua voce. Non era mai cambiata: bassa, leggermente ruvida, da giovane uomo. Vi ero così abituata che ogni volta che ci sentivamo era come se non ci fossimo mai persi di vista.
    «Sì, infatti... », risposi, incerta. «Come stai?».
    «Non ho da lamentarmi. Sono sempre pieno di cose da fare».
    Sorrisi. «Lavori ancora troppo?».
    «Come sempre. Sono stacanovista, lo sai», ridacchiò, nervosamente.
    «Sì, ricordo...», dissi con una punta di nostalgia.
    «E tu come stai?», cambiò subito argomento. «Non ci incontriamo da molto tempo, non so nemmeno se ti sei realizzata nel tuo lavoro».
    «Beh, attualmente sto lavorando all'album di una famosa band musicale... non so se conosci i Tokio Hotel».
    «E chi non li conosce?», ridacchiò. «Però, devo confessare che mi aspettavo qualcosa di più da una del tuo calibro. Componi canti gregoriani per caso?».
    Se fosse stato mio padre a lanciarmi quella provocazione – anche se non l'avrebbe mai fatto –, probabilmente mi avrebbe ferita. Invece Sven, che mi aveva sempre bonariamente preso in giro per la mia passione, non riusciva ad offendermi. Anzi, risi, tranquilla. «Non dire così, sono bravi. Non saranno certo i Muse, o gli U2, o i Led Zeppelin, ma...».
    «Va bene, va bene», m'interruppe con il sorriso nella voce. «Hai vinto».
    «Proprio a questo proposito... ho una proposta da farti».
    «Immaginavo che questa chiamata avesse uno scopo. Ti ascolto», rispose Sven, formale come sempre. Qualcosa in lui riusciva sempre a tranquillizzarmi profondamente. Forse era la consapevolezza di conoscerlo così a fondo da prevederne le battute, i gesti, le parole. Avevo bisogno di una sicurezza in quel mare di confusione in cui annaspavo.
    «Stasera ho... una sorta di cena con loro e tutto lo “staff”, per così dire... all'Apples. E mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi».
    «Stasera?», domandò educatamente.
    Da una parte speravo e pregavo che rifiutasse. Dall'altra sapevo che, se l'avesse fatto, ne sarei rimasta molto delusa. La possibilità di essere respinta – perché sapevo che non mi sarei limitata a consideralo un semplice declino del mio invito, ma un rifiuto vero e proprio – mi costrinse a tenere un atteggiamento più fermo e apparentemente sicuro.
    «Sì», affermai.
    Didi accanto a me alzò gli occhi al cielo.
    «Ma certo», disse, dopo un po'. «All'Apples? Pensavo non tollerassi posti come quello».
    «Non ho potuto prendere parte alla decisione del luogo. Dovremo sopportare, temo». Senza volerlo anch'io mi ero adeguata al suo modo formale di comunicare. Non lo facevo volontariamente, era naturale. C'era sempre stata molta intesa tra noi.
    Rise, leggero ed equilibrato come un vero aristocratico. «Non sarà un problema per noi, ne sono sicuro. A che ora passo a prenderti?».
    Sorrisi. «Non lo so. Te lo farò sapere appena mi informo, va bene?».
    «Va bene. Allora a dopo, piccola Sissi».
    «Ciao».
    Perché all'improvviso mi sentivo così in ansia? Il cuore aveva preso a battermi forte.
    Ma non ti fai pena da sola? Sembri una quindicenne alla sua prima cotta.
    Ignorai la voce e fissai il telefonino perplessa, vagamente confusa.
    «Allora?», chiese Didi, curioso, sporgendosi verso di me. «Cos'è quella faccia da carpa lessa?».
    Alzai molto lentamente il mio sguardo smarrito su di lui. «Mi ha chiamata piccola Sissi», sussurrai. «E passerà a prendermi».
    Ghignò, gli occhi lievemente a mandorla scintillanti di furbizia. «E questo basta a lobotomizzarti?».
    Schioccai la lingua. «Devo chiamare uno dei ragazzi per sapere l'ora della cena», dissi, seria.
    «Oh», disse, platealmente. «Cerca di non confonderli con tutti i paroloni che hai sparato prima. Loro non sono freschi freschi di corsi di buone maniere come voi».
    «Ma smettila...». Gli lanciai sulla faccia uno dei cuscini del divano.
    Lo prese al volo e se lo schiacciò sulla pancia, appoggiandoci le braccia. «Solo perché abbiamo cose molto più importanti a cui pensare».
    Comincia pure a tremare, mi disse la vocina.
    «Cioè?», domandai cauta.
    «Cosa metterai, ovviamente!».
    Ecco, lo sapevo. Sospirai, ormai rassegnata, e mi feci trascinare nella mia camera senza opporre nessuna resistenza.

    Quando il citofono suonò, erano le otto e mezza precise. Sven era sempre molto puntuale.
    Io mi stavo guardando allo specchio della mia stanza, agitata.
    Forse ero troppo elegante. Didi aveva scelto per me un tubino nero a maniche lunghe, che terminava poco più su del ginocchio e ornato da un nastrino rosso sotto il seno. Mi aveva anche legato i capelli in un'acconciatura sobria.
    Com'era strano rivedermi in quelle vesti. Non indossavo niente di così elegante dall'ultimo congresso del circolo di avvocati a cui avevo partecipato con mio padre e mio fratello.
    «Sven è arrivato», mi avvisò Didi, entrando nella mia stanza. «Ti aspetta giù».
    Mi voltai verso di lui, che mi squadrava dall'alto in basso. Quando incontrò il mio sguardo, sorrise. «Che bella gnocca! Che hai fatto alla mia migliore amica?».
    Mi sforzai di non arrossire e di non innervosirmi per quel complimento, ma non potevo fare uno sforzo così grande e rispondergli con una frase al vetriolo contemporaneamente. Rimasi zitta.
    «Seriamente, sai? Se fossi etero avrei fatto un pensierino su di te già dai tempi del Gymnasium».
    «Va bene, ora puoi smetterla», dissi frettolosamente, afferrando la pochette rossa dalla scrivania. Era così piccola che a stento ci entravano le chiavi e il cellulare.
    In salotto, mi infilai i tutta fretta il soprabito lungo, nero, e mi controllai ancora una volta allo specchio. Vedevo una ragazza elegante, non solo nell'abbigliamento, ma anche nella semplice postura e nel modo di afferrare la piccola borsetta. Prima di intravedere me stessa in quegli occhi grandi ed espressivi, l'immagine di Didi si riflesse nel vetro, le sue mani che massaggiavano le mie spalle contratte.
    «Stai tranquilla, Elsa», mi disse.
    Presi un grosso respiro e annuii. «Effettivamente, non ha senso tutta questa ansia», mentii. In realtà ce l'aveva eccome.
    Non convinsi nemmeno Didi, che si limitò a sorridere bonariamente. «Diciamo che sei in grado di fronteggiare qualsiasi situazione. E ora vai, non far aspettare il tuo accompagnatore».
    Annuii ancora e uscii di casa. Il ticchettio delle scarpe alte rimbombava nel pianerottolo.
    Quando arrivai in strada, trovai Sven appoggiato alla sua Mercedes proprio di fronte al portone di casa mia.
    Il mio cuore perse un battito.
    Non era passato molto tempo dall'ultima volta che ci eravamo visti, ma mi faceva sempre un certo effetto. Ovviamente non era cambiato. Era alto, proporzionato. I capelli biondo cenere erano più corti rispetto a come li ricordavo, ma sempre in ordine. La pelle non era liscia e luminosa – lo vedevo dalla luce del lampione che lo investiva, neanche fosse stato un'apparizione –, ma ruvida abbastanza da donargli fascino.
    Gli sorrisi e gli andai incontro. «Buonasera», salutai, appena gli fui vicino.
    Mi squadrò con gli occhi verdi e ricambiò il sorriso. «Ciao», mi baciò sulla guancia con una confidenza e una familiarità che mai mi sarei aspettata. «Pronta?».
    «Certo».
    “...che no”. È mai stata pronta per qualcosa?
    Mi accompagnò allo sportello del passeggero e me lo aprì galantemente. Ringraziai e montai in macchina. Mentre Sven rifece il giro per entrare, cercai senza risultati di mettere a tacere quella stronza vocina che abitava il mio cervello.
    «Allora», esordì lui. «Abbiamo venti minuti. Comincia pure».
    «A fare cosa?», domandai.
    «A raccontare. Scommetto che ci sono stati molti cambiamenti nella tua vita».
    Ehm...
    «Beh, sì... ma niente di significativo».
    «Tuo padre?», mi lanciò un'occhiata. «Non vedo da molto anche lui. È in buona salute?».
    «Ottima. Sempre tagliente, intollerante e disinteressato a tutto ciò che concerne me, ovvio».
    Sorrise in maniera triste, rassegnata. Lui poteva capire il mio dolore, tutto. Gliene avevo parlato così tante volte che per un tempo era stato anche suo. «Mi dispiace tanto», disse.
    «Ormai ci sono abituata. E poi, figurati, ci vediamo una volta ogni tre mesi, se non di più».
    «Occhio non vede, cuore non duole».
    Eh, mica tanto. «Beh, sì. Ma posso dire che ormai la mia vita è un'altra e lui non ne fa parte». Almeno, mi sarebbe piaciuto che fosse così. «Accidenti, che discorsi deprimenti. Raccontami di te».
    «Ho aperto un mio studio a Berlino dopo essere tornato da Nizza. Te l'avevo detto, ricordi?».
    Annuii.
    «Adesso sto lavorando al progetto del nuovo KaDeWe ad Amburgo. È un'opportunità molto importante».
    Wow, aveva fatto davvero grandi passi avanti. «E a che punto sei?».
    «Oh, ancora all'inizio, ma verrà fuori qualcosa di bello», disse convinto.
    «Certo che sarà così», affermai. Lo conoscevo bene: si impegnava a fondo per ottenere ciò che voleva e non mollava finché non otteneva i risultati prestabiliti.
    Sorrise e cominciò a parlare dei particolari minimi del suo progetto con termini che erano arabo per me – ma lo ascoltai volentieri. A Sven piaceva tanto parlare di sé. Forse anche per questo eravamo stati così bene insieme. A lui piaceva parlare, io preferivo ascoltare.
    Riscoprimmo la familiare intesa che c'era sempre stata tra noi, e non sapevo se preoccuparmene o no. Non sapevo se Sven fosse intenzionato o meno a riprovarci con me, non sapevo nemmeno più cosa provare.
    Ad un certo punto mi accorsi che aveva smesso di parlare. Lo guardai preoccupata, chiedendomi se si fosse accorto che avevo smesso di seguirlo per pensare: sorrideva appena, guardando la strada.
    «Scusami», dissi, mortificata.
    «Taciturna fuori e logorroica dentro», osservò.
    «Sono mortificata», mi scusai ancora.
    «No, tranquilla. È bello vedere che non sei cambiata così tanto».
    «Lo sono», lo contraddissi, seria. Era anche merito suo se la mia diffidenza verso il genere umano si era acuita così tanto. Mi ero sentita tradita nel profondo da una delle persone più importanti della mia vita.
    Lo sentii sospirare. «Elsa, potrò sembrarti noioso, o ripetitivo, ma... per Nizza...».
    «Non tornare sull'argomento, Sven. È morto e sepolto, ormai».
    «Non è vero. Se non ne vuoi sentire nemmeno parlare vuol dire che ti fa male ancora».
    «E allora? Puoi biasimarmi?», mi ritirai subito sulla difensiva. D'un tratto mi sentivo di nuovo rigida e tesa.
    «No, certo. Ma sei stata tu a voler tranciare del tutto la nostra relazione. Io avevo proposto delle vie intermedie».
    Risi senza ironia. «Ah, e quali? Il sentirci solo per telefono, o in chat? O pretendere che venissi con te, lasciando qui tutta la mia vita? Ma per favore. Era ridicola solo l'idea».
    «Almeno io ci ho provato», si difese, stringendo il volante.
    «Ammesso che tu ci abbia provato, anche se con soluzioni assurde, mi hai parlato del tuo trasferimento solo dopo aver accettato il lavoro a Nizza. Non mi hai consultata, non hai chiesto cosa ne pensassi, hai agito di testa tua senza comprendere me nella tua decisione. Questa era una motivazione più che sufficiente a rompere con te».
    Era un argomento rivangato migliaia di volte, specie con lui, ma ancora mi faceva male. Nonostante questo, il mio tono era basso e posato, il mio sguardo fermo sulla strada.
    «Mi sono scusato migliaia di volte. Ho agito d'impulso, è vero, ma non è stato facile nemmeno per me lasciarti andare».
    Che rabbia. Mi sentii furiosa, con lui e con me stessa. «Siamo arrivati», dissi come se fosse stata una sentenza, appena, subito dopo, avvistai l'Apples.
    Il respiro di Sven era grave e lento, il mio corto e silenzioso.
    Quando parcheggiò, non scese subito dall'auto. Rimase a guardarmi, nonostante la poca luce che entrava dai vetri della macchina.
    «Vorrei che tu capissi che non avevo scelta», disse. «Se non fossi andato là non avrei mai realizzato il mio sogno. Tu per realizzare il tuo hai potuto restare qua».
    «Appunto. Tu hai scelto, e hai scelto per te stesso. Se ti ha reso felice ugualmente, hai fatto più che bene». Evidentemente non ero così importante.
    «Ho reso infelice te», mormorò.
    Comodo piangere sul latte versato, disse velenosa la vocina. Come darle torto? Magari non riusciva a trovare nessun'altra che stesse con lui e ripiegava su di me. Non sarei mai scesa ad un simile compromesso.
    «Non pensarci più, Sven. Ormai è acqua passata. Non parliamone più, okay? Non voglio rovinare la serata».
    A malincuore, annuì. Scese dall'auto e venne ad aprirmi lo sportello, come un vero galantuomo.
    Poi, entrammo nell'Apples.
    Era un locale elegantissimo, arredato sui toni dell'ocra e illuminato da riposanti luci soffuse. Ogni tavolo era da quattro o da otto, e su ognuno era stata accesa una candela. Le sedie erano foderate con velluto rosso, e al centro della sala c'era una grande pianta, tra le cui fronde era nascosto un piccolo faretto. Addossati alle vetrine alla nostra destra e sinistra, c'erano delle bacheche che ricordavo contenere menù o dolci, ma che in quel momento erano vuote.
    Con mia grande sorpresa, tutto il locale era vuoto.
    «Buonasera», salutò Sven, esitante.
    Un elegante cameriere ci venne incontro, composto. «Buonasera, signori. Purtroppo, stasera il locale è chiuso al pubblico», disse con fare professionale.
    Mi aggrottai, ma non ebbi il tempo di parlare: un elegantissimo David in giacca e cravatta comparve quasi magicamente, e ci raggiunse con un gran sorriso. «Va tutto bene, aspettavamo...», si accorse di Sven, «loro», disse, incerto.
    Il cameriere fece un breve cenno con il capo e chiese di lasciargli i cappotti. Mentre consegnavo il mio, mi sentivo stranamente imbarazzata e a disagio.
    «Ciao, Elsa», mi salutò David, baciandomi le guance. «Se mi posso permettere, stai benissimo».
    Mi sforzai di sorridere educatamente, e non mi fu nemmeno difficile: dovevo aver conservato la parte di me diplomatica e aristocratica. «Grazie. David, questo è Sven, un mio amico. Sven, David».
    Si strinsero la mano. Poi David batté le mani una volta, in un gesto automatico che compiva quando c'erano spiegazioni da dare. «Abbiamo chiesto che il locale venisse chiuso al pubblico per questioni di privacy. Se si sapesse che i ragazzi sono qui non riusciremmo più a cenare».
    «Capisco», dissi.
    Mentre David ci faceva strada verso la sala più interna, Sven accostò la bocca al mio orecchio. «Aspettavo solo il momento in cui ti saresti tolta il cappotto. Sei bellissima», sussurrò.
    Non so descrivere come mi sentii. Era un misto tra fastidio e disagio, ma mi sentivo anche lusingata da quell'attenzione tutta per me. «Grazie».
    Quando accedemmo alla saletta interna, avvistai gli altri.
    Rimasi quasi pietrificata.
    Tra tutti gli sguardi davanti a me, ce n'era uno, azzurro e affilato, che conoscevo molto bene.
    «Ehi, Elsa!», mi salutò Bea, seduta accanto a Georg. Tra le tante cose che mi sconvolgevano, c'era il suo sorriso. Mi guardava e sorrideva come se non fosse mai successo niente tra noi. Come se avessimo continuato a sentirci, come se non fosse avvenuta quella rottura nel nostro rapporto.
    Forse è così, zucchero. Forse il dramma lo stai facendo solo tu.
    «Ti sei mangiata la lingua?», mi prese in giro.
    Ti vuoi riprendere?!, mi rimproverò la vocina.
    Mi schiarii la voce. «Buonasera a tutti».
    «Ce l'ha fatta. Cominciavo a temere di dover inserire il gettone». Accanto a Georg, c'era seduto Tom, che mi fissava. Era stato tagliente come al solito e la cosa mi sorprese. Non sapevo cosa aspettarmi da lui, come comportarmi.
    Poi, Sven diede due studiati colpi di tosse. Lo presentai agli altri, che si alzarono per stringergli la mano e presentarsi a loro volta. Bea e Sven si salutarono come due vecchi amici, ma Tom quasi gli stritolò la mano, e Bill gliela porse con sufficienza.
    Li guardai con gli occhi della mia interiorità terrorizzata.
    Sven, Bill, Tom, Bea.
    Altro che mostri a più teste. Era una dannata bomba nucleare, quella che avevo assemblato.
     
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  6. ‚nothing
     
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    Bomba nucleare? xD
    Complimenti, molto bello questo capitolo! (:
     
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  7. Monique;
     
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    Grazie mille ^^
     
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  8. salamandra940
     
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    da un po' non passavo di qui.

    Trovo che tu stia realizzando una FF davvero di buon gusto, delicata ma non troppo, anche a tratti eccentrica, ma non troppo, scorrevolissima nella lettura, gradevole in toto.

    Mi spiace non essermi fatta sentire per così tantto tempo
     
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  9. Monique;
     
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    Oh, gioia, sono contenta di ritrovarti! Grazie mille per i tuoi complimenti.
    Ora posto la seconda parte del capitolo 11. Buona lettura!






    «E poi com'è finita?», domandò Sven a Gustav, sorridendo interessato.
    «Con l'aiuto di Tom ho riportato Georg in camera. Pensa che era così ubriaco che cantava a squarciagola versi misti delle canzoni degli Oasis credendosi uno dei Gallagher».
    Tutti ridemmo e Tom cominciò a imitare Georg in pieno delirio canoro, incrementando ancora di più le risate. Ad occhi esterni potevamo sembrare una tavolata di rilassati amici a cui piaceva passare il tempo insieme. In realtà io ero tesa e nervosa, e anche i gemelli lo erano, per quanto tentassero di nasconderlo.
    Avevamo appena terminato di mangiare la frutta e tutta la sera era stata... un inferno. Almeno per me.
    Da quando ci eravamo seduti Sven e Bea avevano subito cominciato a disquisire del più e del meno, ma lei non si era scucita troppo: Bea era perfettamente cosciente del male che Sven mi aveva procurato e non voleva concedergli troppa confidenza.
    Nonostante ciò, mi ero sentita tradita.
    Perché Bea era con Georg? Perché era venuta? Lei non faceva parte di quel mondo. Faceva parte del mio, solo del mio, e la stavo perdendo.
    E Didi... Didi. Lui sapeva che sarebbe venuta. Per questo non era stato così sorpreso quando aveva saputo della cena e mi aveva costretta a chiamare Sven. Non era una cena di lavoro, lui e Bea lo sapevano da prima di me. La cazzata della cena di lavoro me l'ero bevuta solo io.
    Solo ripensandoci, mi passava ogni allegria. Mi trattenni dal sospirare, sconfortata.
    Mi alzai lentamente e Sven fece lo stesso, seguendo perfettamente il galateo.
    «Dove andate?», chiese Bill con nervosismo.
    «Io non lo so. È educazione fare lo stesso, quando una signora si alza», rispose Sven.
    Mentre mi vergognavo come una ladra e desideravo una pala con cui scavarmi la fossa – o con cui colpire Sven in testa -, Nathalie ridacchiò. «Che invidia, Elsa. Questi pigroni nemmeno sanno cosa sia la galanteria».
    Guardai Sven, supplicandolo con lo sguardo di evitarmi altre figuracce. «Vado solo a fumare», dissi.
    «Hai ancora quell'orrendo vizio?», mi domandò lui con disappunto, fraintendendo la mia occhiata.
    «Ma non mi dire, Sven», si intromise Tom, tagliente. Tremai. «Tu non fumi?».
    «No. Lo trovo disgustoso».
    «Già. E io che credevo fumassi costosi sigari cubani...».
    Annaspai, nel panico. «No, lui è molto attento alla salute. Io vado. Sven, mi accompagni?», chiesi, sperando di allontanarlo dai gemelli, da Tom in particolare. Se Bill aveva abbastanza buonsenso da rimanere in silenzio, Tom preferiva fare il bastardo fino in fondo. Durante la serata, lui e Sven si erano scambiati non poche frecciatine e avevo l'impressione che avessero deciso di starsi reciprocamente sulle palle.
    Sven fece una smorfia appena disgustata. «No, grazie».
    «Ti accompagneremmo noi, ma abbiamo fumato un quarto d'ora fa», disse David, comprendendo nel gruppo anche Gustav e Benjamin.
    Bill si pulì la bocca con un tovagliolo e si alzò elegantemente dalla sedia. «Vengo io. Ne ho bisogno».
    Entrai nel panico. Sven e Tom, da soli?!
    Tentennai, indecisa.
    «Elsa, vai pure», mi disse Bea, strizzandomi l'occhio. «Non è sempre necessario che li sorvegli».
    Ridacchiai nervosamente. Con la coda dell'occhio colsi Tom stringere un pugno sulla tovaglia bianca. «Devo aver sviluppato una specie di istinto di protezione materno».
    «Materno?», s'intromise Georg, ghignando. «Non da cane da guardia?».
    «Non credo ci sia molta differenza».
    «Vogliamo andare o no?», berciò Bill, scocciato.
    «Sì», m'infilai nello spazio tra la mia sedia e quella di Sven e ci avviammo al piccolo cortile del ristorante.
    Ho come l'impressione che ti farà il culo a strisce, mi suggerì la vocina, mentre camminavamo in silenzio.
    Non dovevo darle ascolto. Non ero malata. Quella vocetta era solo l'espressione delle paure del mio subconscio. Fine.
    Uscimmo su un grande spazio recintato, rettangolare. Il colore delle pietre del pavimento era ocra come l'arredamento interno, e c'erano dei tavoli ammucchiati in un angolo, che venivano usati solo nel periodo estivo. Era vuoto, e deserto.
    «Bea è molto simpatica», esordì Bill, assolutamente a sproposito, accendendosi una sigaretta.
    Feci lo stesso, tentando di mascherare la mia rabbia. «Immagino che ormai siate intimi», sibilai. Nascondere certe emozioni, però, era difficile.
    «Georg ne parla molto bene. Ed è stata con noi un paio di volte».
    «Mi fa piacere», dissi a denti stretti, mentre ricevevo un colpo dopo l'altro.
    Anche Bill sembrava ribollire. «E sai una cosa? La trovo di gran lunga migliore di te».
    Normalmente avrei evitato volentieri il confronto – litigata, in realtà – che mi si prospettava davanti. Invece la rabbia che sentivo mi dava la carica necessaria ad affrontare chiunque.
    «Ah, davvero?», domandai, fissandolo negli occhi, «Questo mi fa ancora più piacere. Così andrai da lei a consumare i tuoi drammi».
    Bill boccheggiò, colto alla sprovvista, e la mia collera si smorzò immediatamente. Mi sentii vile e cattiva.
    «Io non recito parti, non... faccio nessun dramma», disse. «Io cercavo solo di attirare la tua attenzione. Con Bea non sarebbe necessario, perché lei sa vedere il valore delle persone e mette da parte i pregiudizi».
    «Stiamo parlando di Bea, giusto?». Per poco non mi misi a ridere. «Non la conosci affatto».
    «Può darsi, ma certe cose so capirle anch'io!», strillò. «Tu credi che io sia infantile ed egoista, tutti quanti lo credono e mi sono rotto i coglioni!»
    «Bill, abbassa la voce», dissi. Il piccolo cortile era lontano dal tavolo, ma mi disturbava l'idea che quella sfuriata diventasse di pubblico dominio.
    «Non dirmi cosa devo fare! Pensavo di essere davvero io quello con dei problemi, invece, sai cosa? Bea non si è fatta scrupoli ed è andata subito oltre la fama di Georg. Ha scelto di rischiare. Tu invece sei... così dannatamente cinica e insensibile che vedi le persone tutte uguali!».
    Rimasi senza parole.
    «E sai qual è la cosa peggiore? Mi sarebbe andato anche bene, l'avrei accettato, se tu fossi rimasta cinica e insensibile fino in fondo. Invece ti sei presa una scuffia per mio fratello, che ti ha sempre trattata di merda. E, come se non bastasse, ti sei presentata qui con il tuo amico perfetto, che è tutto il contrario di Tom, e che ci sbatte in faccia la sua superiorità con ogni più piccolo gesto. Come cazzo ragioni, Elsa? Al contrario?!». Terminata la filippica, aspirò con forza dalla sigaretta, evitando di guardarmi.
    La mia era caduta a terra. Mi sentivo arrabbiata, ferita, delusa, tutto allo stesso tempo. Ma non era a causa di Bill e delle sue parole. Lo odiavo perché mi aveva sbattuto in faccia la verità, ancora, ma la più grande fonte di delusione ero io stessa, che per proteggermi avevo solo fatto del male ai miei cari, ed avevo anche fallito.
    Prima di rispondere, contai fino a cinque e respirai profondamente. «Hai ragione», ammisi a fatica. «Sì, forse sono egoista, cinica, insensibile e tutto ciò che mi hai detto. È vero anche che ragiono al contrario. Ma, Bill, se c'è una cosa di cui sono pienamente convinta, è che...», mi bloccai. Quella era la parte più difficile, più impensabile e più assurda. Stavo per dire ciò che mai avrei pensato di dire ad un uomo, che mai avrei pensato di dire a Bill Kaulitz. Il solo pensiero mi faceva ridere.
    Bill mi guardava, in attesa, e trincerato in un atteggiamento difensivo. «Che?».
    Mi portai i capelli indietro, sorridendo dell'assurdità della situazione. Intanto, cercavo un modo carino ed indolore di esprimere il concetto. «Che se anche ricambiassi i tuoi... sentimenti, sarebbe impossibile per noi... essere più che buoni amici. Siamo troppo diversi».
    Mi aspettavo un'altra esplosione, o quantomeno una richiesta di spiegazioni. Invece Bill annuì, lo sguardo basso, aspirò ancora e pestò la sigaretta con un piede. Poi, mi passò accanto e tornò dentro.
    Era una caratteristica che i Kaulitz avevano in comune, quella di uscire silenziosamente di scena al momento giusto.
    Dopo aver meditato su questo pensiero, ne soggiunse un altro. Un pensiero ridicolo, surreale quanto tutta quella situazione.
    Mi appoggiai al muro e guardai il cielo buio, incredula, ridendo e piangendo insieme.
    Avevo appena dato il due di picche a Bill Kaulitz.

    «Oh, eccoti», disse Sven, quando rientrai. «Stiamo scegliendo il dolce».
    Sorrisi, ostentando serenità, e mi riaccomodai. Ordinai un muffin strapieno di cioccolato. L'avrei volentieri accompagnato ad una bottiglia di Sambuca, per cercare di calmarmi, ma qualcosa – la vocina, che era stata zitta fino a quel momento per pura pietà – mi suggeriva che non era il caso.
    Con il cuore in subbuglio e con ancora le accuse di Bill nelle orecchie, osservai Tom, cercando di non farmi notare. Era nervoso, insolitamente serio e silenzioso. Bill invece tentava di esorcizzare il malumore parlando senza sosta con i produttori di un argomento che mi sfuggiva. Anche Bea e Georg erano coinvolti.
    Mi sentivo così in colpa e combattuta. Non avrei mai voluto che si creasse quella situazione. Avrei voluto parlare con Tom a quattrocchi, ma sicuramente avremmo finito per litigare.
    Avevo fatto un enorme sbaglio portando Sven con me. Didi non poteva sapere della mia situazione con i Kaulitz, quindi non era colpa sua. La responsabilità era solo mia.
    Ma come avrei potuto rimediare?
    «Elsa? Torna tra noi», mi richiamò una voce.
    Era quella di Sven. Era una delle ultime che avrei voluto sentire. «Sì?».
    «Sei molto pallida».
    Mi sforzai di sorridere. «Come al solito, no?».
    «Più del solito».
    Scrollai le spalle. «Non c'è da preoccuparsi, va tutto bene». A volte odiavo la sua apprensione.
    Proprio in quel momento incrociai lo sguardo di Tom. Era così severo. Non riuscii a capire cosa gli passasse per la testa in quel momento. Una parte di me – sempre quella vocetta rompipalle, per la precisione – ipotizzava che stesse immaginando di prendermi a schiaffi. Ipotesi molto plausibile.
    Nessuno dei due distolse lo sguardo. Il mio stomaco si stava attorcigliando, mi sentivo stupida e puerile, ma non riuscivo a fare a meno di friggermi il cervello guardandolo.
    Stare con Bill era semplicemente impensabile. Era come mischiare caviale e maionese. Ridicolo.
    I sentimenti per Tom, invece, quelli sì che mi spaventavano. Erano fuori controllo, non sapevo dove avrebbero potuto condurmi.
    Guardai Sven, che stava di nuovo conversando con David, e sembrava anche abbastanza coinvolto.
    E per lui cosa provavo?
    Guardandolo, avevo l'impressione di rileggere una dolorosa pagina del mio passato. Eppure era lì, accanto a me, e con ogni probabilità saremmo potuti tornare insieme se solo glielo avessi chiesto.
    Portai lo sguardo sul dolce al cioccolato che mi avevano appena messo davanti. E io cosa volevo?
    Sospirai.
    Sei un po' in ritardo per le turbe adolescenziali, Sissi. Ma meglio tardi che mai, no?
    Infilzai con forza il muffin al cioccolato con la piccola forchetta. Quella vocina impertinente aveva ragione da vendere. Non mi potevo permettere certi pensieri adolescenziali, ero grande, vaccinata, indipendente e... confusa.

    Dopo essere usciti dal ristorante, optammo per una passeggiata rilassante sulla riva dell'Alster. Eravamo tutti un po' preoccupati per la riconoscibilità dei ragazzi: era sabato sera ed era quasi mezzanotte. Tuttavia scegliemmo di rischiare. I gemelli si incappucciarono e coprirono con sciarpe grandi quanto lenzuoli. Georg si legò i capelli e sollevò il colletto del suo giubbotto. Gustav... si limitò ad essere Gustav. Era il più ordinario dei quattro, il più semplice, e la consideravo una grande qualità.
    Anche David si nascose con un berretto invernale.
    «Sembrano una banda mafiosa. Sono ancora più riconoscibili», mi disse Bea.
    Sven affiancava David, Gustav e Benjamin – erano molto in sintonia, con mia somma gioia – e Georg era davanti con Tom e Bill. Io ero involontariamente rimasta indietro; i mille pensieri che mi affollavano la testa rallentavano il mio passo.
    «Già», concordai distrattamente, fissando la riva del fiume.
    «Andiamo, non fare così».
    «Non sto facendo così», mi intestardii.
    Sospirò, continuando a tenere incollati a me i suoi fanali azzurri. «Non te l'ho detto perché non volevo farti agitare».
    «Non mi hai detto esattamente cosa? Che tu e Georg state insieme? Che saresti stata qui stasera con lui in veste di dolce metà? Perché nel caso sia tutto questo, stai tranquilla. Non mi interessa».
    «Veramente mi riferisco al...».
    «Non mi va di scherzare», la interruppi bruscamente. La conoscevo, prevedevo le sue reazioni, e se proprio voleva parlarmi, doveva mettere da parte cinismo e umorismo tagliente.
    «Elsa, non sono sparita io. Ho provato a chiamarti, a parlarti, ma ti sei volatilizzata. Ti ho lasciato messaggi, ho detto a Didi di farti trovare a casa, e ti sei tirata indietro completamente. Tutto questo melodramma è completamente inutile».
    Non risposi. Mi sentivo troppo ferita per replicare in qualsiasi modo.
    Continuò a parlare. «È... una bella cosa quella che mi sta succedendo. Io e Georg non stiamo ancora insieme insieme, ma lui non è il classico stronzo senza cervello».
    La guardai, quasi indignata. «Cos'è, hai cominciato a credere nel principe azzurro ora? Il prode Georg in calzamaglia che aspetta i tuoi tempi, che ti rispetta, che ti tocca solo con i fiori... che pagliacciata».
    «Tra me e te abbiamo sempre fatto a gara per chi è più diffidente verso il genere umano. A volte sono insopportabile anche più di te, è vero. Però questa volta ho voluto...».
    «Comportarti da perfetta incosciente», la interruppi.
    «Darmi un'occasione», mi corresse.
    Non trovai con che ribattere. Quella semplice frase, se possibile, mi fece stare ancora peggio. Realizzai quanto egoista, ingiusta e totalizzante fossi. Sapevo già di esserlo, ma in quel momento era una misura concreta, quantificabile.
    Bea stava solo cercando di superare un suo grande limite, e ci stava riuscendo. Io le mettevo solo i bastoni tra le ruote.
    Didi me l'aveva già detto, ma realizzarlo grazie a Bea mi fece tutt'altro effetto.
    Ripensai a Bill e alle sue parole, al dolore – o anche solo il fastidio – che involontariamente avevo inflitto a lui e suo fratello, lo sommai alla puerile pretesa di avere Bea tutta per me e mi sentii la più orribile delle persone. Mi sentii come un bambino che pretende di avere sua madre tutta per sé.
    Rimanemmo per un pezzo in silenzio, io e Bea. La fauna maschile davanti a noi era troppo presa e ci lasciava l'intimità e lo spazio necessari.
    Dopo una manciata di minuti, sospirai, sentendomi fragile, sbagliata, orrendamente vulnerabile. «Mi dispiace». Non osai guardarla, continuando a tenere ostinatamente lo sguardo sui miei piedi congelati. Tuttavia potei percepire ugualmente il suo sorriso e lo immaginai perfettamente: indulgente, comprensivo, quasi materno.
    «Ti assolvo, piccola Sissi», disse ironicamente.
    Mi sforzai di sorridere, di apprezzare la tenerezza, ma non mi sentivo affatto dell'umore adatto.
    Mi sentivo... a pezzi.
    «Voi due, laggiù», disse ad alta voce Georg, che si era voltato verso di noi. «Cosa sapete che noi non sappiamo?».
    Osservai il modo in cui Bea gli sorrise. Sicuramente erano solo le mie teorie da visionaria, però quel sorriso mi sembrò realmente diverso da quelli che Bea faceva a me o a Didi. Pensavo che non avrebbe mai sorriso a nessuno come sorrideva a noi. Avevo ragione, perché il sorriso di Bea in quel momento era più intimo, più spontaneo, più frivolo, forse.
    Ma sentiti, mi prese in giro la vocina, stai proprio cadendo in basso, zucchero. O forse sei sempre stata sul fondo e te ne stai accorgendo solo adesso?
    Certo, quella era una pessima serata per le rivelazioni. Le due precedenti mi avevano stesa come un tappeto, non avevo bisogno di altre verità rivelate. Così, la mia mente rifiutò quell'ipotesi con tutte le sue forze. Non volevo pensarci.
    Non ascoltai la risposta di Bea e mi lasciai attirare dalla mano di Sven nel gruppo, che si era fermato per aspettarci. Non mi importava di niente, in quel momento. Non mi importava dello sguardo di Tom che si era fermato un attimo sulla mia mano allacciata a quella di Sven, non mi importava dell'espressione afflitta di Bill, non mi importava nemmeno dell'ipotermia che mi stava mangiando le dita dei piedi. Mi sentivo in frantumi e volevo solo seppellirmi sotto il mio piumone, addormentarmi e non svegliarmi più.
     
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  10. salamandra940
     
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    Pur avendoti persa di vista da oltre un anno forse, non mi sono dimenticata le emozioni che sei stata capace di trasmettere qui e altrove.

    Vedo che il tempo ti ha migliorata, o forse semplicemente sono cambiata anch'io, o siamo cambiate entrambe.

    Questo capitolo mi sta particolarmente piacendo perchè sento vibrare ogni personaggio, dal redivivo Sven, collocato in una posizione imbarazzante in mezzo a quel gruppo (che motivo reale aveva di accettare di stare lì, se da nessuna parte emerge la sua volontà reale di riconquistare la sua ex) alla rediviva Bea, apparentemente tranquilla nel suo ruolo.

    L'affermazione della protagonista

    CITAZIONE
    Guardandolo, avevo l'impressione di rileggere una dolorosa pagina del mio passato. Eppure era lì, accanto a me, e con ogni probabilità saremmo potuti tornare insieme se solo glielo avessi chiesto.

    mi sembra più una illusione che una percezione, ma questo potrebbe dipendere dal mio personale vissuto e quindi non importa.

    Bill e Tom non suscitano sorprese, sono sempre loro, con le loro specifiche debolezze già viste.

    Mi è piaciuto.

     
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  11. .Enigmatic
     
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    Ho la giornata piena e devo assolutamente studiare come un'invasata; appena finisco, stasera, leggo e ti lascio un commentone che neanche vorrai finire di leggere per la lunghezza.
     
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  12. Monique;
     
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    Grazie mille Eli, fa sempre piacere ritrovarti. Piccolo spoiler non spoilerato, ti ho pensata spesso!

    Okkei Sara, aspetto!
     
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  13. .Enigmatic
     
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    Oddio, che situazione.
    Allora, premetto che questi due capitoli sono davvero stupendi. Mi è piaciuta molto la conversazione sul divano di Elsa e Didi. Ripeterò fino allo sfinimento che Didi è l'amico ideale di ogni ragazza; pagherei per avere un amico gay come lui, giuro. Si vede quanto tenga a lei; è sempre pronto ad aiutarla, ma con ironia; è una cosa che mi piace ancora di più. Tu poi hai un modo di organizzare le varie situazioni, di impostare i dialoghi o dar vita a semplici sguardi e pensieri che lasciano intendere tutto alla perfezione. Te l'ho già detto che il tuo modo di scrivere arriva dritto al mio cuore; mi trasmette ogni singola emozione che tu voglia rendere concreta e con me ci riesci in modo sublime.
    Il fatto che Elsa abbia fatto finta di nulla, dopo il bacio con Tom, è comprensibile. Probabilmente nemmeno io avrei saputo che dire o fare e l'indifferenza è la miglior cosa, nonostante possa sembrare sbagliata, a qualcuno. Ciò che non capisco è il comportamento del chitarrista; innanzitutto mi chiedo come mai l'abbia baciata (vabbè, apparte il fatto che gli piaccia) e poi perchè non le abbia detto niente a riguardo, come giustificazione o qualsiasi cosa.
    I pensieri di Elsa sono così confusi per lei, ma credo così chiari per noi. È evidente che fra Tom e Bill, prediliga l'aspetto “tenebroso”, stronzo ed al contempo affascinante del primo; ovvio, io la vedo meglio con lui che con Bill, anche perchè condivido il suo pensiero: lei e Bill sono come la maionese ed il caviale; una cosa terribile. Il fatto che lei pensi questo mi rincuora, anche perchè lo sai che io sono una fan sfegatata della coppia Elsa/Tom.
    Questa nuova comparsa, questo così detto Sven, mi preoccupa un po'. Non credo Elsa possa pensare di tornare con lui; al contrario, penso possa essere un modo per far ingelosire Tom, in qualche modo, o per lo meno scoprire quali siano i suoi veri sentimenti. Già dalla serata al ristorante si può capire qualcosa: è evidente che a Tom questo Sven non piaccia. La frecciatina che gli ha lanciato, sul fatto dei sigari cubani, è stata tremenda ma comprensibile. Penso che lui sia geloso dell'ex fidanzato di Elsa e ne sono davvero soddisfatta.
    Quando Elsa è uscita in giardino con Bill, ho temuto il peggio, ma fortunatamente lei è stata chiara con lui e, nonostante lui mi faccia un po' pena in questa situazione, sono contenta che sia andata così.
    Inoltre, è stato un bene che Elsa si sia scusata con Bea. Alla fine, credo che la sua reazione sia stata un tantino esagerata, nonostante, da una parte, io la possa comprendere. Sono contenta che la situazione si sia più o meno appianata.
    Ora però sono davvero curiosa di sapere cosa succederà con questo Sven. Che stia alla larga da lei U.U E pretendo anche botte e sangue fra lui e Tom U.U
    No, vabbè... Il sangue non ce lo mettere.
    Beh, spero che Tom si svegli, che tratti diversamente Elsa e soprattutto che le chiarisca le idee sui suoi sentimenti.
    Che altro posso dire... Che adoro i tuoi capitoli lo sai; che adoro te come persona lo sai... Direi basta, donnaccia. Sei mostruosamente brava e attendo con impazienza il prossimo capitolo.
     
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  14. Monique;
     
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    AWWWWWWWWW *_____________*
    Commenti così sono uno sprone per continuare a scrivere. Grazie!
     
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  15. tokiettinaa
     
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    ciao! nuova lettrice.

    comincio con il dire che questa storia mi ha attratto da subito; la personalità della protagonista in parte mi rispecchia, quindi è stato uno dei motivi che mi ha spinto a leggere.
    che altro dire...c'è molta confusione. Elsa è gelosa della sua amica, ha paura che Georg gliela porti via, ma non vuole ammetterlo. Il rapporto che la protagonista ha con il padre mi ha colpito molto, sembra proprio vero...complimenti!
    continua presto un bacio♥♥
     
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218 replies since 23/6/2009, 12:26   5970 views
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