Love for music;

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  1. Sarììn;
     
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  2. KLEINE ENGEL
     
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  3. sere96*
     
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    mi aggrego alle lettrici.... posta presto!
     
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  4. KLEINE ENGEL
     
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    uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuup ç_______ç
     
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  5. .Enigmatic
     
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    Ragazze, molto probabilmente Monique non ci sarà per tutta l'estate... Dobbiamo pazientare =)
     
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  6. Monique;
     
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    Sono viva! Scusate ragazze l'assenza prolungata, volevo solo farvi sapere che sto scrivendo, e ho scritto anche nel periodo in cui sono stata via, e che il capitolo arriverà a breve. Un bacio!
     
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  7. KLEINE ENGEL
     
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    Uuuuuu che belloooo *W* finalmenteee, non vedo l'ora **
     
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  8. Monique;
     
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    Eccomi finalmente, dopo TRE mesi!!! Se non di più.
    Oddio, che dire. E' stato un parto, ma penso che sia venuto fuori qualcosa di decente. Poichè è un capitolo introspettivo e parecchio importante, leggete con attenzione, per favore. E se volete, fatemi sapere cosa ne pensate :ossì:



    *si dilegua in un nuvola di fumo*


    Capitolo 9



    Pronta per la tua dose di veleno quotidiano?
    Domanda stupida.
    Era matematicamente impossibile che una come me arrivasse ad affrontare le situazioni preparata, posata e perfettamente razionale.
    Okay, ero razionale, nonostante non fosse un’opinione condivisa, ma non ero affatto preparata e posata.
    D’altronde, a che serviva?
    La sfiga nella mia vita faceva sì che niente andasse mai secondo i piani, quindi perché preparasi le battute da dire, le argomentazioni da esporre, gli atteggiamenti da tenere?
    Avrei improvvisato, in ogni caso le cose avrebbero seguito la legge di Murphy e se avessero potuto non andare per il verso giusto, l’avrebbero fatto senza scrupolo.
    Entrai senza suonare, come al solito, e mi tolsi il soprabito.
    «Buongiorno, bambini!».
    Il salotto non era riempito dal quartetto delle meraviglie al completo. E c’era un piccolo imprevisto.
    I ragazzi erano in stato semicomatoso.
    Guardai Tom, seduto sul divano, il suo computer portatile sul tavolino davanti a lui e la testa abbandonata sullo schienale, gli occhi chiusi. Georg invece l’aveva proprio fatta sporca: era disteso su un fianco, sullo stesso divano su cui era addormentato Tom, e poggiava la testa sulle sue ginocchia.
    Prima di lasciarmi toccare dalla tenerezza di quello spettacolo inconsueto, mi diressi in cucina per cercare l’altra metà della band.
    Gustav era di spalle, vicino alla macchinetta del caffè e pigiava alcuni pulsanti.
    «Cos’è successo stamattina?», chiesi, sperando di coglierlo di sorpresa.
    Si voltò, purtroppo sorridendo tranquillamente e facendo sfoggio di tutto il notevole autocontrollo di cui disponeva. Che invidia.
    «Buongiorno anche a te, Elsa. Sì, ho dormito bene, tu?».
    Ridacchiammo entrambi.
    «Scusami», dissi. «Sai che la socievolezza non è il mio forte».
    «Io sono l’asociale per eccellenza, quindi chi meglio di me può capirti? In ogni caso, quei due sono così pigri che fanno concorrenza ai ghiri, riuscirebbero ad addormentarsi anche dopo dieci ore di sonno. Caffè?».
    «Sì, grazie». Quella era la frase più lunga che ero riuscita ad estorcere a Gustav. Mi complimentai con me stessa.
    Lui si voltò, prese la tazza che era appena stata riempita dalla macchinetta e me la porse. «E poi oggi c’è la rimpatriata di Benjamin e David, servono energie».
    La presi, guardandolo confusa. «Tornano oggi?».
    «Tra un’oretta, per la precisione».
    Mi appoggiai al muro. I due produttori erano tornati dal loro viaggio negli States per far sì che la popolarità dei Tokio Hotel non scemasse, e avrebbero ricominciato a lavorare con noi. Ogni giorno, ogni mattina, fino a quando l’album non fosse stato terminato. Non più solo io e i ragazzi. Nessuna complicità…
    «Non minacceranno il tuo territorio, se è questo che temi», sentii dire da Gustav. «Rilassati».
    Non alzai lo sguardo su di lui e feci ruotare il caffè nel fondo di porcellana. «Non è il mio territorio».
    Sorseggiò il caffè e rispose con un furbissimo sorrisino sghembo, che feci bellamente finta di ignorare.
    «Bill?», domandai poi.
    «Ah, non ci crederai. È deciso a tenere il muso a Tom, così oggi verrà con la sua macchina. Tom non sa come resistere all’impulso di strozzarlo».
    Oh, no. Avevano litigato di nuovo.
    «Probabilmente come tutti resistono allo stesso impulso verso Tom».
    «Te compresa?».
    «Ovviamente».
    Ridacchiammo.
    «Sinceramente, Gustav», cominciai, «come fate a convivere insieme? Siete tutti così diversi. E quei due sono davvero insopportabili, però sembra quasi che...».
    «Che non possiamo fare a meno l’uno dell’altro», concluse lui per me.
    «Già».
    Gustav si sedette e si girò la tazza tra le mani, cercando con cura le parole da usare. «Vedi, è complicato. Ci conosciamo da dieci anni, lavoriamo insieme, dormiamo insieme nei tour... è quasi come essere in famiglia. Anche se Bill ha manie di perfezionismo esasperanti, Georg ti fa saltare i nervi per la sua pigrizia e Tom rischia ogni giorno la faccia per i suoi atteggiamenti, nessuno di noi può immaginare di esistere senza uno dei quattro». Mi guardò e mi concesse il raro dono di un sorriso aperto. «Tu sei insopportabile. Saccente, presuntuosa, ruvida. Ma pensi che il tuo amico Didi, tanto per fare un esempio, possa immaginare la sua vita senza di te?».
    Ci pensai su, affascinata dal lungo filo di pensieri che Gustav aveva appena dipanato davanti a me. E compresi che non solo aveva capito il profondo legame che mi univa a Didi, malgrado ci avesse visti insieme solo un paio di volte, ma aveva anche la preziosa capacità di vedere le cose nei loro dettagli minimi, di cogliere le sfaccettature. Sapevo che era sensibile, ma non fino a questo punto. Inoltre, aveva perfettamente ragione.
    «Attento, Gustav. Sono anche permalosa. Potrei non rivolgerti più la parola dopo quello che mi hai detto». Ricambiai il suo sorriso.
    «Ma sapresti che ho ragione. E, in ogni caso, nonostante il tuo brutto carattere... ti vogliamo bene tutti».
    Il mio cuore restò muto davanti a quella confessione.
    Ma per favore. Rischi ogni giorno che il maggiore dei Kaulitz ti metta le mani al collo, e Bill dopo l’ultima volta ti guarda come se l’avessi preso a bastonate, facendoti sentire pure in colpa, per giunta. Non credo che sia esattamente come giurarsi amore eterno.
    Odiavo quella stronza vocina. Aveva sempre ragione.
    «Tutti?», chiesi ad alta voce.
    Annuì. «Tutti, anche se in modi diversi».
    Riuscii a sorridere, e d’un tratto ebbi voglia di abbracciare quel ragazzo che stava seduto davanti a me, e che accettava di parlarmi come si parla ad una vecchia amica. Un’altra piccola parte di me, invece, si domandava in quali diversi modi si potesse volermi bene. E d’un tratto immaginai che succedeva molto più di quanto non si desse a vedere, tra loro, quando io non c’ero.
    «Sei... gentile», dissi.
    «E tu sei allergica alle carinerie. Come me. Quindi basta con le dichiarazioni d’amore».
    Prima che riuscissi a ridere, qualcuno entrò in cucina. «Infatti, perché c’è pubblico e io potrei vomitare». Tom si diresse alla macchinetta del caffè con il passo più ciondolante del solito, inserì la cialda e la azionò.
    Non riuscii a rispondere. Avevo in mente ancora il nostro scontro del sabato sera, ma non riuscivo a capire che significato aveva per Tom. Purtroppo sapevo che non esistevano macchine del tempo.
    «Finalmente sei uscito dal letargo», disse Gustav.
    «Ma quale letargo. Anche in sogno voglio legare Bill per gli alluci ad un treno». Prese il suo bicchierone di caffè e si voltò verso di noi. Mi lanciò un lungo sguardo. «E non solo lui».
    Mi fissai le unghie, evitando di guardarlo. Codarda, codarda, cantilenò la voce nella mia testa. «Non avevamo detto basta con le confessioni d’amore?».
    «Ti vedo e non resisto, lo sai».
    Gustav sbuffò, ma non ci interruppe: probabilmente i battibecchi tra me e Tom lo divertivano. Io, dal mio canto, non riuscivo a sopportare l’idea di non rispondere ad una provocazione, specie se del mio Kaulitz preferito.
    «Sono colpita», alzai gli occhi al cielo.
    «Magari», disse, dopo un sorso del suo caffè extrazuccherato. «Però con qualcosa di duro».
    «Come la tua testa?».
    «E dateci un taglio, voi. Vi sentivo dal salotto», Georg entrò stropicciandosi un occhio con la mano. «Perché non avete fatto il caffè per tutti?», sbadigliò, pigro, preparandosi anche lui il suo bravo caffè.
    Istantaneamente ricordai. Georg e Bea. Quei due nomi, accoppiati, erano come scolpiti nella mia testa. Uscivano insieme, rammentai. Sapevo che non dovevo, che era del tutto irrazionale e ingiusto, ma ero... gelosa marcia. E spaventata.
    I Tokio Hotel erano una parentesi della mia vita. Una parentesi che avevo imparato a guardare con affetto, che cresceva pian piano, ma pur sempre una parentesi. Bea e Didi erano tutto il resto. E vedevo che non solo la mia vita si stava intrecciando con quella di quei quattro ragazzi, ma anche quella dei miei amici. Proprio ciò che avevo sempre temuto. E se fosse cambiato qualcosa? Se me l’avessero portata via? Se anche Didi cominciasse a cercare la compagnia di uno di loro? E se Bea fosse rimasta ferita da Georg? Dopo tutto ciò che aveva passato, dopo i violentissimi colpi che aveva subito, era così strano che si fosse concessa di rischiare così tanto...
    «Perché toccava a Bill oggi prepararlo, e invece ha dato forfait». La risposta giunta in ritardo di Tom mi strappò a quei pensieri e li diresse in un’altra direzione: Bill. Già. Magari gli era successo qualcosa con la macchina...
    «Probabilmente ha preso in pieno qualche cartello stradale, conoscendolo», Gustav diede voce al mio pensiero.
    Tom fece finta di nascondere la sua preoccupazione, ma tutti sapevamo che avrebbe dato un rene per suo fratello. La sua mascella era contratta.
    Poi vedemmo dalla finestra in cucina una BMW grigia entrare e parcheggiare sulla ghiaia.
    «Oh, eccolo», dissi.
    Dopo il pranzo avvenuto il giorno prima e le mie parole violente, poco pensate ma non per questo meno vere, Bill non aveva fatto altro che rivolgermi sguardi feriti, ed ogni mio tentativo di conversare con lui era fallito. Il pensiero di dover passare un’intera giornata con lui e suo fratello fece crescere la tensione, che a sua volta fece crescere il mio bisogno di una sigaretta. Non avevo ancora fumato.
    «Aspettiamo l’arrivo di David e Benji prima di cominciare?», proposi. «Tanto siete tutti catatonici, o quasi». La proposta venne accettata di buon grado, intanto Bill entrava dalla porta nel salone. Immaginai che si stesse liberando dei numerosi strati di sciarpe e vestiti sotto cui si seppelliva di solito.
    «Ciao a tutti», salutò a voce alta. «Dove siete?».
    «In cucina!», rispose Gustav.
    Quando entrò, evitò accuratamente di guardarmi. Perfetto, era passato dal farmi sentire in colpa per aver urtato la sua sensibilità all’evitarmi spudoratamente.
    Sei nociva, gioia. Ecco perché le zanzare non ti pungono mai.
    Sbuffai, irritata, e Bill scambiò la mia impazienza per delusione: mi lanciò un’occhiata altezzosa.
    «Chi ha fatto il caffè?», chiese.
    «Dovevi farlo tu. E invece per dare sfogo alla tua indole drammatica sei venuto in ritardo», rispose Georg con un’occhiataccia.
    «Me ne sono dimenticato!», si difese lui, portandosi automaticamente le mani al petto. «E non è colpa mia se ho un fratello coglione!».
    «Scusa, chi sarebbe il coglione?», saltò su Tom, e Bill aprì subito la bocca per replicare con qualche frase stupida, ma Georg li interruppe entrambi: «Okay, basta. Però, Bill, ora il caffè te lo fai da solo. È il minimo».
    Lo vidi sbuffare pesantemente, scambiarsi un’occhiata di fuoco con il suo consanguineo e dirigersi alla macchinetta.
    Sorridendo sotto i baffi, estrassi il mio pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e ne sfilai una. Cercai l’accendino, ma l’avevo dimenticato, e mi sentii ancora più nervosa.
    «Sigaretta?», propose Tom. Mi stava guardando e sicuramente aveva notato che non avevo da accendere.
    Gli lanciai un’occhiata scettica e incredula.
    «Dopo il caffè è obbligatoria», continuò, come a giustificarsi.
    Non mi giungeva nuova quella cortesia inaspettata, ed era una cosa... insolita. Accettai quasi senza accorgermene ed uscimmo in veranda. S’infilò una sigaretta tra le dita e la accese con l’accendino che poi mi lanciò. Lo presi al volo e dopo aver acceso la mia glielo restituii.
    «Allora», cominciò dopo il primo tiro. «Ho saputo che ieri Bill ha fatto una piccola gita».
    Sbuffai fumo, e mi sentii molto meglio. «Un giorno nel mondo della comune plebaglia...», dissi con tono enfatico. «Non sa tenersi proprio niente per sé, vero? Spiffera tutto a tutti».
    «Solo le cose più importanti».
    Sorrisi leggermente. «Quindi ti ha detto anche che abbiamo avuto un leggero attrito...».
    «Leggero attrito? L’hai strigliato per bene, il suo umore era tra il semimorto e il defunto quando è tornato», disse sorridendo.
    Già immaginavo Bill che piagnucolava con il fratello, dicendogli quanto fossi cattiva ed insensibile a prendere a bastonate il suo animo fragile.
    «Non aspettatevi delle scuse», dissi, guardinga.
    Aspirò ancora e scosse appena la testa, le labbra contratte prima di soffiare via il fumo. «No, in realtà hai fatto bene. Gli serviva qualcuno che non provasse una specie di strano istinto protettivo verso di lui».
    Sull’ultima parte, Tom aveva ragione. Avevo notato che Bill godeva di una sorta di favore universale, probabilmente a causa del suo comportamento al limite dell’infantile e al suo faccino delicato. Parlare con Bill di massimi sistemi era come pensare di infliggere volontariamente dolore ad un bambino. Inconcepibile.
    «Crede ancora all’amore a prima vista, al destino inciso nella pietra e stronzate del genere», continuò Tom.
    Ero a metà della mia sigaretta. «Non c’è niente di male nel coraggio di credere che i rapporti tra le persone possano andare oltre il razionale».
    Mi guardò curioso, un sopracciglio alzato. «Parla come mangi».
    Fissai la ghiaia bagnata, spostandola con i piedi. M’imbarazzava moltissimo ciò che stavo per ammettere. Erano pensieri che tenevo solo per me, e parlarne con Tom mi creava una certa difficoltà. Era una parte di me molto fragile. «Voglio dire, è ammirevole che nonostante tutto lui riesca ancora a... che so, sperare, credere... non è da tutti».
    Tom mi fissava scettico, appena incerto. Poi increspò le labbra e tornò a guardare avanti, fumando ancora. Probabilmente stava elaborando ciò che gli avevo appena detto, e sicuramente non l’avrebbe capito.
    Il suo silenzio mi snervava. «Che stai pensando?», non mi trattenni dal chiedere.
    Alzò le spalle e attese qualche secondo prima di rispondere. Magari era in difficoltà anche lui. «Mi ero fatto un’idea diversa del tuo concetto di...», fece una smorfia, «amore».
    Tom che sprecava il suo preziosissimo tempo a farsi idee su ciò che potevo pensare io? Questa era nuova.
    Ignorò la mia espressione sorpresa e continuò: «sì, pensavo fossi una che non crede in queste cose. Con i piedi per terra, ecco. Una frase come “l’amore non esiste” sarebbe stata più nei tuoi standard».
    Non potevo credere alla direzione che stava prendendo il discorso. Ero lì a discutere di massimi sistemi con Tom Kaulitz. Assurdo.
    «Dire che l’amore non esiste significa sparare un’enorme cazzata. Sarebbe più giusto ammettere che non c’è spazio per l’amore in questo mondo».
    Ecco, l’avevo detto. Avevo scoperto il mio nervo dolente.
    «Che significa?».
    Presi un grosso respiro. L’istinto mi stava dicendo di troncare lì quella conversazione, che mi stavo spingendo troppo oltre il limite di ciò che mi era consentito rivelare di me stessa. Ma poi mi tornò in mente il fiume di parole di Didi, che mi accusava di essere troppo chiusa nel mio guscio impenetrabile, e scelsi di rischiare. Sperai solo di non pentirmene.
    Tanto sai che te ne pentirai.
    «Bill ti ha detto che mia madre è morta?».
    Annuì.
    «Mio padre amava mia madre più di se stesso. Io non ne so molto, ma quando vivevo ancora da lui mio fratello, nei suoi sparuti momenti di benevolenza, mi raccontava che era un tipo di amore raro, il loro. Avevano una vita sola, ma in due. Non so bene come spiegarlo. Era un rapporto solido e maturo, serio. Ebbene, mio padre ha perso mia madre. È stato come se gli fosse mancata la terra sotto i piedi. E da allora odia me».
    «E questo che significa?».
    «Significa che l’amore non dura. Esiste, ma non dura. O finisce, come la maggior parte delle giovani coppie di oggi, o ti viene portato via». Come l’amore che mia madre aveva per me. Come era successo a Bea...
    «Stai facendo di un filo d’erba un fascio», obbiettò, la sigaretta quasi finita.
    Risposi con un’alzata di spalle. «Traggo le mie conclusioni in base a ciò che vedo intorno a me».
    «Che panorama desolante».
    Ridacchiammo entrambi.
    «Era a questo che pensavi sabato, quando sei venuta qui?».
    Alt.
    Cosa dovevo dirgli? Che ero andata in crisi a causa di uno stupido album di fotografie? Che in realtà avevo sempre voluto conoscere mia madre ed essere accettata da mio padre? Che trovavo profondamente ingiusta la stessa ingiustizia della vita? Come potevo spiegargli tutto questo senza una meritata risata in faccia o una smorfia disgustata?
    «Qualcosa del genere», risposi evasiva. «Mi dispiace per quella scenata».
    «Mi stai chiedendo scusa, Elsa?».
    Lo guardai e vidi che sorrideva. L’atmosfera si era sensibilmente alleggerita, io stessa mi sentivo più sollevata. Come se qualcosa dentro di me si fosse sbloccato. Non fu difficile sorridergli di rimando.
    «Sì, Kaulitz. Segnati questa data, perché non succederà più».
    Ancora sorridente, annuì, in quel suo particolare modo ciondolante. «Scusa anche tu per ciò che ti ho detto».
    Amaramente, gli sorrisi: tutto quello che mi aveva detto era vero.

    Circa tre quarti d’ora dopo, una macchina discreta, nera, parcheggiò nel vialetto di ghiaia dello studio di registrazione. Ci avvicinammo alle vetrate del salotto e vedemmo smontare entrambi i produttori, parlando tra loro. Benjamin era, come al solito, biondo, sorridente e carinissimo, vestito dei soliti colori chiari, mentre David era un cupo tributo allo stile urban: jeans strategicamente sbiaditi nei punti giusti, maglioncino di lana marrone, dal cui scollo spuntava una maglia nera, accollata.
    Possibile che non avessero freddo vestiti così, in pieno febbraio? Avevano qualche gene che li desensibilizzava al freddo?
    I ragazzi erano seriamente felici di rivederli, dopo quasi un mese che erano stati lontani, e parlottavano tra loro chiedendosi cosa avessero combinato durante il “tempo libero”. Roba da ragazzi, che mi sforzai di non ascoltare.
    Gustav aprì la porta per loro e li accolse con un sorriso. I saluti furono brevi e calorosi.
    «Ti trovo bene», mi disse Benji, quando fu il mio turno.
    Gli sorrisi. «Sono ancora viva».
    «Sapevo di averli lasciati in buone mani». David mi salutò stringendomi la mano.
    Ci sedemmo ignorando le deboli proteste offese di Bill, che sosteneva di non aver bisogno della babysitter. I convenevoli durarono poco, le battute furono poche e molto calibrate. Avevo il sospetto che la mia presenza, l’unica femminile, limitasse di parecchio gli argomenti di cui potevano parlare. Di nuovo, roba da ragazzi. Da una parte fui felice di essere tenuta fuori dalle loro questioni, e lusingata che si preoccupassero di non offendermi; una piccola parte di me, invece, vide quella cortesia come una mancanza di familiarità. Come se fossi un’estranea. Il risultato di quel conflitto fu un mutismo involontario che mi fece sorridere stentatamente due o tre volte e mi impedì di partecipare alla conversazione, limitandomi ad ascoltare, seduta sul divano con gli altri.
    A quanto pare, la combinazione Tokio Hotel/educazione dà come risultato un broncio malinconico combinato a delusione perché ti hanno escluso dal settore “persone familiari”. Se invece si comportano da Tokio Hotel, parolacce, manate e provocazioni annesse, il risultato è un’incazzatura da ciclo mestruale, con te stessa, per giunta, perché ti ci stai affezionando. È interessante, dovresti farti studiare.
    Ormai ero abituata a quel comizio di vocine che si facevano sentire costantemente nella mia testa, quindi non mi preoccupai più della mia psicopatia. Invece guardai Gustav, Bill e Georg, seduti sul divano affiancati da Benji, che stava raccontando loro dei nuovi progetti per l’America Latina. Poi il mio sguardo si spostò su David, appollaiato sul bracciolo della poltrona su cui era stravaccato Tom, che ascoltava sorridendo e annuendo, come al solito.
    Sentii qualcosa al centro petto non appena intervenne, probabilmente per dire una delle sue solite cose stupide. Era una sensazione strana. Qualcosa a metà tra un dolore pungente e un forte affetto, non piacevole, ma nemmeno così fastidioso.
    È una cotta, dolcezza. Questo spiega i brividini lungo la schiena che fai sempre finta di non sentire quando non sei troppo impegnata ad ignorare che pensi a lui.
    Cotta? Brividini? Pensavo a lui!?
    Certo, ma solo per immaginare di ucciderlo, possibilmente in maniera dolorosa.
    Nemmeno in Star Trek sarebbe potuta accadere una cosa del genere. Era impossibile che mi prendessi una… – era difficile perfino pensarlo – cotta per un ragazzino appena diciannovenne. Che pena…
    Proprio in quel momento Tom si accorse che lo stavo fissando.
    Non riuscii a distogliere lo sguardo immediatamente, come invece avrei fatto se fossi stata in condizioni normali. Non mi canzonò dicendo che sembravo una carpa lessa con lo sguardo da sarago, non mi prese in giro sventolandomi una mano davanti, facendo una battuta stupida e possibilmente umiliante, no. Si limitò a guardarmi a sua volta, incatenando i suoi occhi ai miei, finché un brandello di dignità non mi costrinse a ridare la mia attenzione a Benji. Non avevo seguito una parola di tutti i loro discorsi. Cercai di seguire con attenzione.
    «Cosa vuol dire?», stava chiedendo Georg a David. Chissà a cosa si riferiva.
    «Che per realizzare questo progetto dobbiamo andare dov’è installata la strumentazione adatta. Farcela arrivare dall’America costerebbe il doppio, e poi avete già una specie di casa lì, no?».
    «Stai dicendo che dobbiamo trasferirci a Los Angeles?», domandò Bill, gli occhi sgranati.
    Los Angeles?!
    «E Miami». Miami?! «Non dobbiamo passarci tutta la vita, solo fare delle capatine durante l’anno per rifinire le canzoni che volete includere questo nuovo sound. Elsa ovviamente verrà con noi per supervisionare la parte tecnica». Mi guardò, cercando nel mio sguardo un consenso. Non avevo capito niente.
    «Ehm… quanto dureranno queste… visite, più o meno?». Era una risposta patetica, ne ero consapevole, ma non ero riuscita a trovare di meglio.
    «Tutto il tempo che serve. Ovviamente mi metterò in contatto con l’Universal per far in modo che copra il più possibile le spese».
    «Quelli sono già incazzati a morte perché non potremo pubblicare l’album entro la primavera», fece notare Tom. «Se chiedessimo anche questo ci darebbero il benservito».
    «Devono aspettare, incassare e tacere», intervenne Benji. «Se vogliono un risultato eccezionale, è necessario del tempo. I fan sono nervosi, è vero, ma non moriranno per qualche mese in più di attesa».
    «Ma diminuiranno…», intervenne Georg.
    Nessuno gli rispose.
    Li guardai in faccia uno ad uno: tutto lo stress che cercavano di nascondere ora era ben visibile nelle espressioni corrucciate e pensose.
    «Martin in questo momento sta temporeggiando, vero?», chiese Gustav.
    «Sta sparando panzane a raffica su Twitter e siti affini per tenere buoni i fan».
    «Che stronzata», fece Bill schifato.
    Certo, la situazione era difficile. Ma non critica. Benjamin aveva ragione, i fan erano secondari. Tenere buoni quelli della Universal, quello era il vero problema. I ragazzi si impegnavano, non c’era nessun dubbio, ma non potevamo andare più veloci. Bill scriveva solo quando sentiva di voler trasmettere qualcosa, non su commissione, e per correggere e mettere a posto tutti gli arrangiamenti per trasformali in una canzone completa occorreva tempo. Al momento, avevamo pronti solo cinque pezzi e il resto era tutto da rivedere.
    David batté le mani una volta. «Così è come stanno le cose. Adesso dobbiamo regolarci di conseguenza». Il suo sguardo veleggiò su tutti e quattro i suoi pupilli.
    Vidi che Georg si passò una mano tra i capelli in disordine, sospirando.
    «Possiamo cominciare a vedere cosa abbiamo. Sette teste sono meglio di cinque», propose Benjamin.
    Io e i ragazzi ci guardammo, trasmettendoci con gli occhi tutta la nostra voglia di lavorare: il lunedì era sempre traumatico.
    Tuttavia, ci alzammo con la stessa grazia e prontezza di cinque zombie sotto sedativo, e con lo stesso entusiasmo, ci recammo nella stanza in cui di solito lavoravamo.
    David diede due pacche d’incoraggiamento sulla spalla di Tom. «Sono sicuro che avete un sacco di energie!».
    E che Dio ce la mandi buona...


    Edited by Monique; - 17/9/2010, 14:45
     
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  9. .Enigmatic
     
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    Tu, donna, accidenti.
    Più o meno ti ho già detto su msn come ho preso questo capitolo, però direi che non basta assolutamente.
    Innanzitutto ho percepito ogni singola emozione, paura di Elsa, questo perchè sei maledettamente brava a descriverle, questo te l'ho già detto tantissime volte.
    Ho visto la prima scena nella mia testa come una foto nitida.
    Immginare Georg che riposa sulle gambe di Tom è spettacolare; pagherei per vederlo realmente.
    La successiva conversazione con Gustav l'ho adorata perchè, come tu stessa hai scritto, sono molto simili. Entrambi molto chiusi, riservati... E decisamente poco inclini alle manifestazioni d'affetto xD
    Il che non dev'essere per forza un male. Lo dice una che lo è per prima, come tu ormai sai =)
    Vogliamo parlare della chiacchierata con Tom? L'ho semplicemente adorata... Tutto quello che hai scritto è stato piacevole da leggere ed ho sorriso per tutto il tempo, immaginandomeli, perchè no, anche un pò impacciati, soprattutto lei.
    Il pezzo in cui lei capisce che si è presa una cotta per Tom è spettacolare. Con poche ma mirate parole hai perfettamente trasmesso tutto quanto a mio debole cuoricino che sembrava volesse scoppiare da un momento all'altro. Avevo le vertigini allo stomaco, come le chiamo, e i brividi lungo tutta la schiena perchè so perfettamente cosa vuol dire rendersi conto che ti piace una persona. E alla fine funziona sempre così: uno scambio di sguardi e "Addio Mondo".
    Mi piaciuto tanto il fatto che Tom abbia semplicemente ricambiato lo sguardo senza dire nulla o dare segno di presa in giro o fastidio. E' stato perfetto tutto quanto.
    Ed ora il famoso viaggio in America di cui mi parlavi!
    Dio, sono così impaziente di sapere cosa succederà! Anche se a grandi linee, un'idea me la sono fatta xD
    Sei bravissima, ma ormai non c'è bisogno che io te lo ripeta fino alla nausea =)
     
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  10. Monique;
     
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    *_*
    Tu. AMO i tuoi commenti. Grazie mille e sono contentissima che il risultato di questo lungo e sofferto travaglio ti sia piaciuto!
     
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  11. caro483
     
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    Quanto mi piace questa FF davvero!! Brava complimeti continua presto..Baci
     
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  12. Monique;
     
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    Grazie ^^
     
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  13. Monique;
     
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    Sono vivaaaaaaaaaaa!!!! Ecco il capitolo, e scusate l'assenza!

    Capitolo 10

    Era una tortura. Uno strazio. Una tragedia che non avevo voluto io.
    Ero spaventata, terrorizzata, e la fissavo come la vittima fissa il suo carnefice prima di essere spietatamente uccisa.
    Era lì, sulla mia pelle, e non c'era modo di strapparla via senza dolore.
    «E dai, non sto per ucciderti!», minimizzò Didi.
    E strappò con forza la striscia di ceretta dalla mia gamba.
    «Ahia!!!», strillai così forte che ebbi l'impressione che i vetri della finestra del bagno tremassero.
    «Quante storie per un po' di cera!».
    Fissai il mio migliore amico con rabbia, stringendo al petto la mia povera gamba, pronta ad insultarlo in tutte le lingue che conoscevo.
    Captò il fiume torrenziale di anatemi che stava per fuoriuscire dalla mia bocca e alzò le mani, gli occhioni azzurri spalancati. «Guarda che ti sto facendo un favore!»
    «Spiegami come puoi chiamare “favore” questa specie di tortura cinese legalizzata!», mi inalberai.
    «Ma l'hai voluto tu!»
    «Già, perché ho deciso di sottopormi a questo martirio?», feci finta di pensarci, sempre con la gamba stretta al petto. «Ah, già! Mi hai obbligata!».
    «L'ho fatto per te! La ceretta lascia le gambe lisce, evita la formazione di peli sottopelle e...».
    «Risparmiati la lezione di estetica, grazie».
    «E tu serra la tua boccuccia di rose. Ho quasi finito». Strattonò la mia gamba destra – l'altra era stata già abbondantemente punita – e applicò con metodicità della cera sul lato interno della coscia, con mio sommo orrore.
    Strizzai forte gli occhi, strinsi i denti ed ebbi per l'ennesima volta la sensazione di mille spilli che mi trapassavano la pelle.
    «Ecco fatto», disse Didi, traboccando di soddisfazione. «Ora abbiamo entrambi le gambe lisce e setose come il culetto di un neonato!».
    Più parlava, più la mia espressione si inaspriva. Spostai la gamba dalle sue ginocchia – io ero appollaiata su uno sgabello, lui seduto sull'angolo della vasca – e provai ad andarmene.
    «Ferma lì!».
    Incassai la testa nelle spalle, come se potessi scomparire.
    «Devi mettere la crema idratante!».
    «Vaffanculo!», e marciai diretta fuori dal bagno.
    Lo sentii ridere e borbottare qualcosa riguardo al mio essere deliziosa, e sorrisi, mio malgrado.
    Con una maglietta consumata – un residuato bellico dei miei quattordici anni –, slip gialli e le gambe a pois come la pelle di un pollo, andai in cucina a preparami la cena – posticipata dall'improvviso entusiasmo della ceretta.
    Stavo già spiluccando dei würstel cotti in padella comodamente stravaccata sul divano, quando Didi arrivò in cucina. Si era coperto con un maglione di pile rosa, troppo grande per la sua taglia, abbinato ad un paio di pantaloni dello stesso colore. Poco male, almeno aveva nascosto quegli orrendi boxer quadrettati, i più sobri che avesse. Fortuna che si era risparmiato le pantofole a forma di coniglio.
    «Ne hai fatto qualcuno per me, vero?», chiese.
    Annuii, non staccando gli occhi dalla televisione, dove stavano dando una stupida fiction. Dopo qualche istante, Didi mi spostò le gambe per sedersi e se le appoggiò in grembo con una mano, mentre con l'altra reggeva il piatto con la sua cena.
    «Ha scoperto che Marta in realtà è la sua sorella illegittima?», domandò, indicando la televisione con la forchetta.
    «Sì, e ora lui le sta dicendo di essersi innamorato di lei nonostante questo».
    «E tu hai sentito Bea, per caso?», chiese a bruciapelo, intingendo un würstel nella maionese.
    Lo shock di quella domanda improvvisa mi bloccò qualsiasi tentativo di cambiare argomento, e rimasi in silenzio.
    L'avevo vista l'ultima domenica, il giorno in cui avevo scoperto che frequentava Georg, sapevo che aveva visto Didi il lunedì precedente perché lui era passato dalla redazione nel pomeriggio, ma quel giorno era giovedì, e non ci eravamo sentite nemmeno per telefono. Mi aveva mandato qualche messaggio, ma non avevo risposto. C'era qualcosa che mi bloccava, che mi impediva di fare come se nulla fosse.
    «Perché ti comporti così con lei?», chiese ancora Didi, comprensivo.
    «Così come?», fui fredda e veloce nel ribattere, e mi ero irrigidita. Non staccavo gli occhi dallo schermo della televisione.
    «La ignori; non se lo merita, lo sai».
    «Senti, non farmi la predica. È uno dei miei periodi misantropi, passerà», lo liquidai.
    Che bugiarda. Perché per una santa volta non mandi a fanculo carapaci, orgogli e pregiudizi e non dici la verità?
    Ma non avevo nessuna voglia di parlarne...
    Almeno prova. Che hai da perdere?
    Vacillai, e il sopracciglio scettico di Didi mi convinse del tutto.
    «Non so perché mi sto comportando così. Non ho voglia di sentirla, né di vederla. Ho una specie di blocco», confessai, tormentando con la forchetta un pezzo smembrato del mio würstel.
    «Tu lo sai che non ci mollerebbe mai, vero? Voglio dire, sta solo conoscendo Georg un po' di più, e...».
    «Cosa c'entra Georg?». Per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad essere completamente sincera. Ammettere che era Georg il motivo del mio scombussolamento mi costava ancora troppo.
    «C'entra soprattutto lui. Se non fosse saltata fuori la storia che stanno uscendo insieme, tu e Bea sareste ancora culo e mutande come al solito».
    «Culo e mutande?», mi aggrottai. «Mi ero fermata al rapporto del culo con le camicie».
    «Ahimè, il tuo culo ha avuto rapporti solo con quelle, che tristezza», sospirò fintamente addolorato. «Comunque, siccome a contatto con i culi più delle camicie ci sono le mutande, mi prendo una licenza poetica».
    Lo adoravo. «Quindi?».
    «Quindi la profonda conoscenza dei meandri della tua mente psicopatica mi porta a dire che preferisci allontanarti da Bea volontariamente, piuttosto che rimanere ferita».
    Realizzai che aveva ragione nel momento stesso in cui finì di parlare. Fece breccia nella mia ormai debole corazza con la forza di un ariete, e mi sentii nuda, debole e smascherata, senza nemmeno sapere che avevo qualcosa da nascondere.
    «È che mi chiedo come faccia a lasciarsi andare dopo tutto quello che ha passato... per via di Robert», sussurrai.
    Didi abbassò lo sguardo, un velo di malinconia scese ad oscurare l'atmosfera rilassata di poco prima.
    Ci fu un lungo silenzio. Nessuno di noi rievocava mai volontariamente quei ricordi dolorosissimi.
    «Sono passati due anni, ormai», rifletté ad alta voce Didi.
    Ripensai a quello che era accaduto la notte di Natale, due anni prima. Io, Didi e Bea eravamo a casa dei genitori di Robert, il ragazzo di Bea, e aspettavamo che tornasse a casa con il dolce della cena. Lei non l'aveva accompagnato solo per aiutare in cucina.
    Era uscito da parecchio, da quasi due ore, ma nessuno di noi si preoccupava seriamente.
    Poi arrivò la chiamata di un poliziotto sul cellulare di Bea: il suo ragazzo era morto in un incidente stradale, sul colpo. Non ricordavo precisamente dove, l'avevo rimosso, ma ricordavo che era successo in autostrada.
    «Non è stato facile», mormorò ancora Didi con un filo di voce, gli occhi persi nel vuoto. Sicuramente pensava ai pianti straziati di Bea, a quando si chiudeva nella stanza da letto sua e di Robert – nella casa in cui tutt'ora abitava da sola – e non ne usciva per giornate intere, nonostante io e Didi fossimo sempre lì. A quando si rifiutava di parlare, a volte anche di mangiare, e accettava la nostra compagnia solo in sparutissimi momenti.
    «Già». Non avevo la forza di dire altro. Ripensare a Bea ridotta in quelle condizioni era insostenibile.
    Poi Didi si rianimò. «Non è stato difficile per te accettare Robert, però».
    «Perché quando l'abbiamo conosciuta stava già con lui. Era compreso nel prezzo».
    «Appunto! Ora è diverso. Magari si sente pronta a rischiare, o forse vuole solo capire se lo è. Nessuno dice che sposerà Georg, con prole, eredità, villa con piscina, ricchi premi e cotillons».
    Mi fece sorridere, mentre fissavo il mio piatto vuoto. «Hai ragione, ma devi anche mettere in conto che Georg è più famoso della torta Sacher. Non è un ragazzo comune».
    I suoi occhi azzurri si accesero di malizia: «certo che non lo è, con quei bicipiti che cantano e quel...».
    «Didi, ti prego!», lo interruppi. Accettavo le descrizioni minuziose dei compagni occasionali del mio migliore amico e delle loro “prestazioni”, ma Georg proprio non ce lo vedevo nei panni del suo oggetto sessuale.
    «In ogni caso», si ricompose, schiarendosi la voce, «non mi sembra avere il classico atteggiamento di chi si crede una emanazione divina, anche se il suo culo dice tutt'altro».
    Aveva ragione.
    Ancora, mi spalleggiò la vocetta nella mia testa. Piccoli passi e saremmo diventate più amiche, me lo sentivo. Ormai ero del tutto abituata alla sua presenza.
    Didi intanto continuava: «il punto è che le siamo stati vicino sempre, soprattutto nei momenti peggiori. Ora dobbiamo starle accanto perché, se vorrà, dovrà imparare a farsi coinvolgere di nuovo. Non lo ammetterebbe mai, ma ha paura», sorrise intenerito, «è una cosa bellissima, se ci pensi».
    Mi decisi a mettere per terra il mio piatto vuoto, rimuginando sulle sue parole. Stranamente, mi sentivo molto più tranquilla, come se le parole di Didi avessero fatto da balsamo.
    Quando anche il suo piatto fu vuoto e io mi fui chiusa abbastanza a lungo nel mio silenzio, Didi sospirò di nuovo. Lo conoscevo bene quanto lui conosceva me, e colsi una nota di profonda amarezza in quel sospiro.
    «Cosa c'è?», chiesi dolcemente.
    «Niente. Pensavo che... piacerebbe anche a me incontrare qualcuno».
    «Oh...», il mio cuore si sciolse come neve al sole alla vista del capo chino di Didi, del suo piccolo broncio e delle ciglia bionde abbassate. Didi era una delle persone migliori che avessi mai conosciuto: altruista, comprensivo, solare, sapeva sempre cosa dire, era spigliato e sorridente. Ma era anche molto riservato: non parlava mai di se stesso, delle sue preoccupazioni. Non perché non volesse, ma perché preferiva lasciare spazio agli altri.
    «Non è una cosa di cui ti devi preoccupare», sussurrai teneramente. Se c'era una cosa capace di rendermi una gelatina, quella era la tristezza di Didi.
    «Lo so, non mi preoccupo, infatti. Ma certe volte ci penso, e... non so, mi piacerebbe tanto».
    Avrei tanto voluto consolarlo, ma non lo potevo capire fino in fondo. Era troppo diverso da me: fiducioso nel prossimo quel tanto che bastava a concedergli una possibilità. Era inutile fargli notare che era una persona meravigliosa, lo sapeva già, e anche rassicurarlo non avrebbe sortito nessun effetto.
    Così, posai anche il suo piatto per terra e lo abbracciai, cercando di trasmettergli che gli ero vicina con il cuore. Ricambiò spontaneamente l'abbraccio, sospirando ancora.
    Cercai con cura le parole da dire. «Forse non è il momento giusto», mormorai. Lo sentii mugolare di disapprovazione e sorrisi. «Se fossi in te, se fossi una persona bella come te, aspetterei quello giusto che possa davvero capirmi. Non mi accontenterei del primo che passa».
    «Ma non arriva mai questo qualcuno», piagnucolò. «Io lavoro in una discoteca la sera e in un negozio di mattina, ho un sacco di contatti con la gente, ma non riesco a creare un rapporto serio. È frustrante».
    Sospirai. Su quell'argomento potevo perfettamente comprenderlo. «Un discopub non è esattamente il luogo adatto per costruire relazioni impegnative. Ma, comunque vada, quando arriva il... il lui... senti qualcosa di diverso. Forse non lo realizzi subito, ma non lo lasci andare».
    Sollevò il viso dal mio petto per piantarmi i suoi occhioni azzurri in faccia. Mi scrutavano, vagamente malinconici ma anche interessati. «E tu come lo sai?».
    Bella domanda. Grazie a Dio la vocetta saccente che abitava il mio cervello non si fece sentire.
    «Lo so e basta», fu tutto quello che riuscii a tirare fuori.
    Didi mi abbagliò con uno dei suoi sorrisi modello lampada abbronzante e riappoggiò il capo. «Mi fido».
    L'ondata di affetto e di voglia di proteggerlo che provai in quel momento mi spinse a stringerlo di più. «Come sei magnanimo. Ora sì che la mia vita ha un senso».
    Lo sentii di nuovo ridere, con mio grande sollievo, la melensa colonna sonora dei titoli di coda della fiction in tv come sottofondo. E mi ripromisi di conservare per sempre la bellezza e la semplicità di quel momento così intimo.
    «Cos'è stato?», chiese dopo un po'.
    «Cosa?». Non avevo sentito niente.
    «Ti è squillato il telefono, credo».
    Feci spallucce e con molta calma mi alzai dal divano, dopo che mi fui districata dall'abbraccio da Boa Costrittore di Didi. Estrassi il telefono dalla borsa che avevo abbandonato sul tavolo e controllai il display. Un messaggio. Non riconobbi il numero del mittente.
    Ehilà, Miss Simpatia! Non allarmarti, non è un messaggio di cortesia. Volevo solo informarti che hai vinto una cena all'Apples Restaurant sabato sera. Ci saranno David, Benjamin, le due G, quella primadonna di mio fratello e ovviamente io, che partecipo come ospite d'onore. Ci sarà anche Natalie, che è il motivo principale della tua presenza. Sai, affinità femminile... quelle stronzate lì. Ti avviso adesso per farti preparare mentalmente, così non rifiuterai a priori quando David te lo proporrà, domani. Bill potrebbe restarci troppo male, sai com'è...
    Buona serata, Miss Cicuta!

    Era fin troppo facile capire da chi provenissero quelle perle di salace ironia, anche se l'illustre mittente non si era firmato esplicitamente.
    Nonostante le provocazioni sfacciate del messaggio di Tom, mi trovai a sorridere come un'ebete al cellulare, e lo stomaco mi si contrasse in modo poco ortodosso.
    «Ehi, Sissi, cos'hai visto?», chiese Didi dal divano.
    «Niente», risposi precipitosamente, mollando il telefono nella borsa.
    Certo, niente. È solo alle prese con centinaia di farfalline nello stomaco. Anche se, a giudicare dai movimenti tellurici, sembra uno stormo di cormorani in piena migrazione!
    «Taci!», sbottai alterata all'indirizzo della vocetta fastidiosa. E tanti saluti al rapporto di amicizia tra noi.
    «Ma che ho detto?!», si offese Didi.
    «Niente!», fu la mia risposta, prima di nascondere il naso nel mio libro preferito, abbandonato sopra alla televisione.

    Finalmente, pausa, sospirai, seduta sulla panchina del giardino dello studio, la sigaretta già accesa. Faceva ancora più freddo dei giorni precedenti, se possibile, anche se c'era il sole, e la neve si era quasi del tutto sciolta.
    I ragazzi e i produttori erano tutti dentro, e io mi godevo il mio momento di pausa del mezzogiorno in solitudine nel giardino. Gli alberi erano del tutto spogli, scossi dal vento freddo. Qualcosa, e sapevo esattamente cosa, mi portò ad identificarmi in loro: spoglia e in balia del vento, ma costretta a rimanere dov'ero. Il vento non mi portava in posti nuovi, mi scuoteva e basta.
    Era in momenti come quelli che pensavo a mio padre, anzi, che incolpavo mio padre di avermi fatta sentire così per gran parte della mia vita.
    Sospirai. Il senso di vuoto che provavo era sicuramente dovuto alla suggestione dell'invito che avevo ricevuto quella mattina. Tom mi aveva avvisata, certo, ma pensare che dovevo ritornare in uno di quei ristoranti di lusso, costretta in vesti che non mi appartenevano, mi portava alla mente vecchi ricordi. Presenze forzate in luoghi in cui c'era una regola di bon ton anche per sbattere le ciglia, la tensione di mio padre e mio fratello, che temevano anche solo che aprissi bocca.
    Perché dovevo essere così? Perché dovevo per forza rivedere il passato nel futuro? Non era giusto.
    Poi sentii dei passi sulla ghiaia avvicinarsi, e sorrisi, gli occhi chiusi. Chiunque fosse, avrebbe potuto distrarmi.
    «Sembri in contemplazione», disse la voce di Bill.
    Non mi aspettavo che mi si avvicinasse spontaneamente. Non doveva avercela con me?
    Voltai il capo appena in tempo per vedere che si rannicchiava anche lui sulla panchina e sorrisi.
    «È così. Dovresti farlo anche tu, ogni tanto. Gioverebbe alla tua logorrea».
    Rise. «Ma io lo faccio sempre. Da dove credi che vengano le idee per i testi? È che non mi so esprimere come vorrei».
    «Mhm», mugugnai. I testi di Bill non erano perfetti; molto spesso erano espressione dei sentimenti di un adolescente cresciuto per forza di cose, ma non si poteva dire che non fossero espressivi. «Io non la vedo così».
    «E come la vedi?», chiese curioso.
    Aspirai dalla sigaretta mezza consumata dal vento. «Penso che tu colga molti aspetti delle cose con una sensibilità maggiore degli altri. Ma parli tanto e pensi poco. Per questo certe volte sconfini nel banale».
    Sono sicura che fosse rimasto ferito dalla mia considerazione, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere. Calciò con i pesanti anfibi neri i sassolini della ghiaia, stringendosi nella sua felpa, e abbassò lo sguardo.
    «Vorrei avere anche io tutte le risposte che hai tu», mormorò. «Sembri così certa di tutto, certe volte».
    Il cuore mi si strinse in una morsa così forte che dovetti strizzare gli occhi per un momento. «Non è così».
    «Al pub, l'altra volta, sembrava avessi un manuale sulla vita». Il suo tono si fece più amaro e io passai subito sulla difensiva.
    «Sono stata un po' brusca», ammisi. «Ma rimango convinta di ciò che ho detto».
    Lo lasciai riflettere, intanto terminai la mia sigaretta. Più di una volta notai che voleva dire qualcosa, ma si trattenne sempre.
    Solo quando gettai il mozzicone a terra parlò. «Probabilmente è vero. Sono poco riflessivo», disse, pensieroso. «Mio fratello invece è il contrario. È un tipo che non parla moltissimo».
    Non mi spiegai il paragone con suo fratello. Lo ascoltai curiosa.
    «Io e Tom ci completiamo a vicenda», continuò, sempre meditabondo. «Ciò che non è lui, sono io»
    Già, lei infatti è masochista e preferisce la parte stronza del duo, mi ricordò la vocetta. Che vogliamo farci, alla stupidità non si comanda.
    Lo stomaco mi si contrasse di nuovo. Inoltre, fiutavo l'odore di discorsi spinosi.
    «Dovremmo rientrare», dissi precipitosamente, e mi alzai come se fossi stata seduta su un cactus.
    «Sai, non sono cieco, anche se tutti sono convinti che abbia gli occhi solo su me stesso», continuò, convinto, quasi arrabbiato. «Da qualche giorno... anche più di qualche giorno, sei cambiata».
    Rimasi di stucco e lo fissai, confusa. «Che vuoi dire?»
    «Che ti sei ammorbidita...».
    «Non è una buona cosa?», lo interruppi.
    «Ti sei ammorbidita molto verso Tom», terminò, scrutandomi con occhi insolitamente severi.
    «Che stronzata», ribattei. E poi, perché me lo diceva come se fosse un'accusa?
    «Non è una stronzata».
    Ma a lui non dovrebbe fregare niente, commentò la vocetta, perplessa almeno quanto me.
    «Invece sì», balbettai.
    Bill si rimise in piedi, sempre così inusualmente serio. «Era chiaro dall'inizio che avessi un debole per lui, ma non pensavo che ti saresti fatta mettere nel sacco».
    La mia mascella cadde a terra come una tapparella rotta e percepii chiaramente i miei occhi sgranarsi. È impossibile descrivere come mi sentii in quel momento.
    Cazzo, non avevo ancora realizzato del tutto che Tom mi... piacesse, come potevo lasciare che Bill me lo spiattellasse in faccia?
    «Tu... tu non sai cosa dici. E, in ogni caso, non sono affari tuoi».
    A questa frase, tacque, e fu come se si fosse ricordato allora di qualcosa.
    «Certo», mormorò, lo sguardo basso e i pugni stretti. «In fin dei conti, io sono solo il bambino egocentrico, lunatico e viziato che non può mai capire, giusto? Solo qualcuno da rimproverare, da prendere in giro, mai che ci sia nulla di buono in me!». Aveva alzato la voce e, avrei potuto giurarlo, aveva gli occhi leggermente acquosi.
    Io ero sconvolta. Non capivo il senso di quell'invettiva.
    «Ma che stai dicendo?».
    «Che mi sono stancato di essere solo il bambino coccoloso e viziato, che non lo sono più da un pezzo! Ma tanto nessuno lo capisce, tanto meno tu, che sei troppo occupata a non sembrare un essere umano!».
    Non aspettò che ribattessi – ero comunque troppo attonita per dire qualsiasi cosa -, girò i tacchi e marciò dentro, arrabbiato e scuro come un temporale estivo.
    Possibile che ti trovi tra i casini senza nemmeno sapere come ci sei finita?, mi disse la vocina.
    Ah, non lo so, le risposi. Sarà un talento naturale.
    Quando tornai dentro, Bill ovviamente tornò a non guardarmi e a non rivolgermi la parola. Non ero sicura che si fosse sentito qualcosa – la panchina era abbastanza distante dall'entrata – e non ero nemmeno così curiosa di scoprirlo. Ero ancora scombussolata, e sperai vivamente che il motivo della rabbia di Bill non fosse quello che immaginavo.
    Georg mi osservava di sottecchi in modo abbastanza evidente, mentre Gustav era più discreto. Bill si era piazzato sul divano e sembrava, oltre che incazzato, impegnato in una profonda contemplazione delle sue unghie. Tom stava da tutt'altra parte, seduto sul tavolo, e strimpellava qualcosa con la sua chitarra con un'aria che, più che assorta, sembrava impegnata per non esplodere. C'era qualcosa che non andava, che mi stavo perdendo da troppo tempo. Erano tutti così tesi...
    Mi schiarii la voce, in imbarazzo. «Ehm... dove sono David e Benji?», chiesi.
    Nessuno mi rispose subito. Anzi, Gustav parlò dopo una manciata abbondante di secondi.
    «Sono tornati un momento nella sala registrazioni».
    «A fare cosa?».
    «Tom ha sbagliato la parte di chitarra, come al solito. E sono andati a vedere se si può salvare qualcosa», rispose acremente Bill, con voce tagliente.
    Tom sollevò su di lui due occhi furenti e posò con molta cautela la chitarra sul tavolo. «Ora mi hai proprio rotto il cazzo».
    «Solo perché per una volta le cose non vanno come dici tu! Spari solo cazzate, alla fine, come sempre!», ribatté Bill, mentre Tom si alzava minaccioso.
    Georg lo trattenne da un braccio, mormorando qualcosa, così, con uno strattone si divincolò e marciò fuori sbattendo la porta.
    «Dovevi proprio fare così tante storie?», chiese Gustav, rivolto verso Bill.
    «Sì, perché mi sono rotto le palle di questa situazione! Ottiene sempre tutto ciò che vuole e poi sarei io l'egoista!».
    Il mio sopracciglio si inarcava man mano che passavano i secondi. «La volete piantare?! Ma che avete tutti quanti?», alzai la voce.
    Silenzio da parte degli imputati. Intanto sia David che Benjamin erano ritornati dalla stanzetta scura con due espressioni interrogative stampate in faccia. Dedussi che avevano sentito tutto il baccano dei gemelli.
    «Che succede qui?», domandò David.
    È quello che stiamo cercando di capire da mezz'ora. Meraviglioso, ora la vocetta parlava al plurale!
    Bill sbuffò, e già dal suo viso notavo quanto veleno avesse in corpo. Si alzò dal divano anche lui e sparì nel corridoio.
    «Oh, grazie della risposta», fece David, sarcastico.
    Io guardai fuori dalla finestra, nella direzione in cui era sparito Tom. Volevo rincorrerlo, parlargli, ma mi frenava la consapevolezza che sicuramente non ero abbastanza in confidenza con lui per andargli a parlare, tanto meno ero autorizzata a ficcare il naso nel rapporto con suo fratello.
    E poi, perché volevo seguirlo? Solo due settimane prima non me ne sarebbe fregato niente!
    Mentre Georg tentava di spiegare a David e Benjamin, Gustav mi si avvicinò. «Che ci fai ancora qui? Vagli dietro».
    Quasi inorridii. Non era mica una stupida fiction, e poi, perché mai avrei dovuto farlo? Erano cazzi loro. «Non vedo perché dovrei», risposi fredda, distogliendo lo sguardo. «Non sono cose che mi riguardano. Vacci tu, siete amici, no?».
    «Io andrei, se fossi la persona adatta. Ma ora probabilmente sta facendo a pugni con il suo orgoglio, esattamente come te».
    Lo fissai perplessa, per niente convinta dal suo contorto ragionamento. E rimanevo dell'idea che dovevo farmi gli affari miei, ma qualcosa smaniava anche dalla voglia di andare – non sapevo nemmeno dove si fosse cacciato.
    «E Bill?», domandai. Mi venne spontaneo preoccuparmi anche per lui.
    «Ci penso io».
    Ma vaffanculo allora!
    Sospirai – più che altro, ringhiai – e uscii di corsa. Non sapevo dove andare, il giardino era molto grande, ma lo trovai quasi subito. Fumava in piedi, teso, in corrispondenza di una piccola fossa in pietra nel fazzoletto di erba verde. Il profilo era rigido, la mascella contratta.
    Mi lanciò un'occhiata quando avvertì la mia presenza, e un angolo della sua bocca si sollevò impercettibilmente, in un ghigno impertinente ma discreto.
    «Non ci stai capendo un cazzo, vero?», disse, quando fui abbastanza vicina.
    Annuii. «Che intuito. L'hai capito dal fatto che vi vedo litigare senza nessun motivo apparente o dal fatto che casualmente ci sono sempre io in mezzo?».
    Mi fissò aggrottato, e vagamente allarmato. «Come puoi sapere che sei tu il motivo?».
    Ah, ero io il motivo? O mi stava accusando di presunzione?
    O c'è qualcosa che non sappiamo?, ipotizzò la vocina.
    «Mi riferivo al fatto che quando litigate sono sempre presente. O che ogni volta che vi vedo litigate, o sono io a litigare, non ci capisco più niente ormai...».
    Sembrò sorridere, ma era ancora molto rigido.
    Perché si ostinava a non parlare? Capivo che erano affari suoi e che non dovevo ficcanasare, ma se c'era la possibilità che fossi io il motivo di tutto quel casino, avevo il diritto di sapere. Forse dovevo provare a tirarglielo fuori con le pinze...
    «Prima ho litigato con Bill», buttai lì, giusto per vedere come reagiva.
    Non sembrò affatto sorpreso, anzi, sembrava che se lo aspettasse. «Beh, non è una novità nel panorama generale», commentò, aspirando dalla sigaretta.
    Mi decisi ad alterarmi e la rabbia, come al solito, mi portò a straparlare. «No, ma è stato sibillino e criptico, e Bill non è mai sibillino e criptico, lo sai bene. È molto trasparente. Questo mi porta a pensare che c'è qualcosa che non devo sapere, e mi andrebbe pure bene, se la cosa in questione non mi riguardasse, ma è da settimane che ho il sospetto di aver combinato qualcosa, e vorrei davvero sapere cosa posso aver fatto di così terribile da...». Mi interruppi. Non riuscii più a parlare.
    Ma non poteva essere per il motivo che credevo.
    Senza nemmeno che me ne rendessi conto, Tom mi aveva posato una mano fredda sul collo e mi aveva baciato.
    Tutto in me si bloccò, perfino il cuore, che perse un battito.
    No, Tom non mi stava baciando.
    Mentre ancora realizzavo, mosse con lentezza la bocca sulla mia, una volta, e poi un'altra ancora.
    Si separò da me e mi guardò, passandosi appena la lingua sulle labbra.
    Non seppi se dovevo dargli uno schiaffo, mettermi ad urlare o a ridere, ma non feci nulla di tutto questo.
    Lo fissai come una deficiente, ancora frastornata, chiedendomi cosa cazzo gli passasse per la testa senza la forza di urlarglielo dietro.
    Sorrise appena, strafottente come al solito. «Spero che questo ti schiarisca le idee».
    Gettò il mozzicone nella buca quadrata e rientrò.

    Edited by Monique; - 11/11/2010, 00:15
     
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  14. .Enigmatic
     
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    Valeee, scusa se in questi giorni non riesco a commentare. Volevo solo dirti che il capitolo l'ho letto ma che non ho mai il tempo materiale di lasciare un commento ben fatto, come dico io. Ti prometto che appena ci riesco commento! Per il momento ti dico che mi hai fatto morire.
     
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  15. caro483
     
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    o porca palettaaaa xD
     
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