Love for music;

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  1. Monique;
     
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    *__________*
    E' bello vedere che c'è qualcuno che segue ancora! Posto, anche se con ritardo abnorme. Il capitolo è lunghissimo, vi avviso, anche abbastanza importante.

    Capitolo 5

    Interrogatori di terzo grado, telefonate ad ore improbabili del giorno – e della notte –, inseguimenti e pedinamenti anche fino al bagno e sguardi coordinati da sorrisetti furbi da parte di un Didi e una Bea saccenti e machiavellici. Ecco tutto ciò che mi piombò sulle spalle quando raccontai a grandi linee cosa era successo durante il pranzo di mio padre e dopo.
    I miei amici avevano preteso che raccontassi tutto nei dettagli quella stessa sera e li accontentai per evitare alla mia testa di assumere la stessa conformazione di un’anguria matura. Ciò che non avevo previsto, però, era la loro reazione al mio riassunto del dialogo con Tom. Non comprendevo l’interesse esagerato che entrambi dimostravano. Era normale che dopo tre settimane e mezza di convivenza forzata fossimo riusciti a non sbranarci a vicenda, almeno per una volta, no?
    Loro invece continuavano allegramente a ricamarci sopra, anche a distanza di cinque giorni.
    Ogni volta che Didi tornava a casa, la sera, occupava il tempo necessario a cambiarsi per andare a lavorare al Mabou facendomi domande su domande riguardo alla mia giornata lavorativa e i miei rapporti con i ragazzi.
    «Didi, basta, santo cielo!», sbottai la sera del venerdì. Ero sdraiata sul nostro divano blu, intenta a vedere la puntata di una fiction appena cominciata e sgranocchiare patatine da una maxibusta, ed avevo voglia di smaltire il nervosismo accumulato in quella giornata delirante. Tom mi aveva fatta impazzire sugli accordi di un pezzo di canzone ancora senza titolo e Gustav aveva fatto la sua discreta parte, sostenendo di non trovare il ritmo giusto con la batteria. Georg non aveva accordato bene il suo basso, come al solito, e Bill parlava ininterrottamente dispensando consigli su argomenti che non conosceva.
    Quei ragazzi erano un biglietto di sola andata per un centro d’igiene mentale, e io ci sarei finita molto presto, ne ero sicura.
    «Ma io voglio sapere!», sbucò fuori dalla porta del corridoio, vestito di tutto punto.
    «Vuoi sapere cose che ti ho già detto», misi in bocca una patatina e cominciai a masticarla senza staccare gli occhi dalla televisione, «io e quel rifiuto umano abbiamo ripreso a ringhiarci a vicenda come sempre, quindi non ci sono possibilità di futuri sviluppi romantici in vista». Il solo pensiero mi faceva venire voglia di rotolare a terra dalle risate.
    Il mio amico sbuffò, insoddisfatto. Lo vidi andare in cucina – che era un ambiente unico con il piccolo salotto – e aprire il frigorifero per estrarne un cartone di latte aperto e berne fino a svuotarlo.
    «Sei noiosa e monotematica», disse quando ebbe finito.
    «Tu e Bea non fate altro che parlare dello stesso argomento da giorni e poi sarei io quella monotematica, che coraggio!», replicai velenosa, mentre il mio umore continuava a rannuvolarsi.
    Didi sospirò, appoggiandosi al ripiano della cucina.
    Oh, no. Non di nuovo. Non avevo voglia di affrontare discorsi seri!
    «Siamo preoccupati per te, per la verità».
    Tanto per cambiare.
    «Pensavo di essere io quella iperprotettiva», replicai con leggerezza alzando il volume dal telecomando.
    Didi me lo prese dalle mani e spense, piazzandosi davanti alla televisione.
    «Ehi, no!», strepitai, «hai bloccato proprio nel punto in cui lui stava per dirle che in realtà Adele è figlia sua!».
    «Non so chi sia questa Adele, né il lui di cui parli», disse, per niente turbato dalle mie proteste. «Tu non puoi andare avanti così».
    Qualcosa di sottile e molto affilato mi punse proprio sullo stomaco. «Non so di cosa tu stia parlando».
    «Sto parlando della tua intolleranza nei confronti del genere umano e della tua psicosi quando si tratta di fidarsi di qualcuno».
    «Di te mi fido», precisai guardandolo dall’basso in alto, «e tollero Bea. Non basta?».
    «Non raccontare stronzate anche a te stessa».
    Quello fu un colpo veramente basso.
    «Tu ti fidi di me e Bea quanto basta per tenerci buoni. Adesso sono comparse queste nuove presenze nella tua vita e ti stanno sconvolgendo tutti gli equilibri. Perché invece di chiuderti a riccio non dai loro una possibilità?».
    La violenza della risposta cercava di sfondare la barriera delle mie labbra come un ariete. Le chiusi ermeticamente ed evasi dal suo sguardo. «Farai tardi al locale», dissi seria.
    Mi ignorò. «Te lo dico io perché: hai una paura fottuta di essere delusa e abbandonata da chiunque, quindi sei indisponente verso tutti».
    Lo detestavo quando mi metteva di fronte alla verità in modo così brutale.
    «Non sono indisponente, sono solo… preventiva».
    «Preventiva verso la vita?».
    «Non verso la vita, Didi! Che c’è di così anormale nel mantenere distanze professionali da gente con cui lavoro? Non mi sembra tanto strano!».
    «Non mi sembrerebbe strano, se i Tokio Hotel fossero quattro vecchi noiosi e barbuti, invece degli appetitosi e simpatici bocconcini che sono», disse, e io alzai gli occhi al cielo.
    «Parli della luna storta permanente di Tom o della pignoleria isterica di Bill?», domandai, nel tentativo di distrarlo.
    «Soprattutto della pignoleria di Bill», rispose, un sorrisetto furbo a modellare le sue labbra piene e colorite, «Ma, a parte il letargo dei tuoi ormoni, questo tuo metodo non funziona». Stavo per replicare, ma alzò una mano e non mi lasciò il tempo di parlare. «Queste “distanze”, come le chiami tu, ti fanno tornare a casa più tesa di una corda di violino e non ti fanno dormire la notte, se non quella del sabato sera. Dimmi tu se è normale».
    Non seppi come rispondere, pur essendo consapevole che aveva ragione, maledettamente ragione. Nonostante le apparenze, trovavo la calma riflessività di Georg e i modi moderati di Gustav estremamente piacevoli. E Bill, nonostante gli irritanti atteggiamenti da primadonna e le pretese assurde da star viziata ed egocentrica, non riusciva a farsi odiare da nessuno con quel sorriso al miele. Tom, invece, riusciva a farsi odiare benissimo, ma lui era una storia a parte.
    «Hai perso le parole, vero?».
    «D’accordo», capitolai, «hai vinto tu. Hai ragione. Ma non è una cosa che posso controllare, okay? E poi a me sembra che non siano poi così ansiosi di conoscermi».
    «Se fossi meno concentrata su te stessa e sui muri che ti costruisci intorno, capiresti un paio di cose interessanti che ora ti sfuggono», mi disse sibillino. «Ciò che non afferri è che più ti affanni per togliere l’attenzione da te, più ti metti nelle condizioni di stare sotto i riflettori».
    Mi decisi ad infuriarmi. «Didi, mi hai stancata. Piantala di psicanalizzarmi, non ti porta da nessuna parte, e adesso dovresti già essere al Mabou».
    «Come vuoi. Ma poi non lamentarti nemmeno con te stessa se ti senti sola». Prese le chiavi da sopra al mobiletto vicino alla porta e uscì di casa senza salutare.
    «Io non mi sento sola!», urlai da dietro la porta. Spinsi con forza la busta di patatine a terra e ne feci rovesciare sul pavimento il contenuto. «Non mi sento sola», ripetei flebilmente. «Fanculo».

    «Aspetta, Georg, così non va bene. Prova farla con un semitono più in alto, poi vediamo come va».
    «Fa diesis, dici?».
    «Esatto. Tom, attacca, Bill, questa volta la facciamo con la voce. Gustav, per ora la batteria non serve; dai solo il tempo con le bacchette».
    Tom mi scoccò un’occhiata annoiata, che ignorai, e cominciò a suonare con gli altri compagni, dopo che Gustav ebbe battuto quattro volte le bacchette tra loro. Odiava che gli dessi degli ordini, soprattutto odiava che dovesse eseguirli e star zitto. Si era lamentato perfino con David dei miei metodi “dispotici”, ma gli era stato risposto che gli ci voleva proprio qualcuno che riuscisse a tenere a bada il suo ego spropositato.
    Chiusi gli occhi e la stanza venne riempita da una melodia sferzante e dura, molto ritmica, anche senza l’ausilio della batteria, grazie alla chitarra elettrica. Non l’avrei mai, mai ammesso ad alta voce, ma Tom non era malaccio, come chitarrista. Certo, era presuntuoso e irascibile come un toro, guardava tutti dall’alto in basso e non mostrava mai il lato più umano di sé, preferendo la facciata da duro insensibile, però possedeva quel misto vincente di tecnica e fascino che riusciva ad attrarre, se non lo si conosceva. Aprii gli occhi e lo studiai, approfittando della sua concentrazione sulla musica. Aveva gli occhi chiusi, le ciglia scure abbassate su due guance lisce e colorite. Le labbra piene, traforate ad un lato da quel luccichio metallico, si schiudevano sporadicamente per essere mordicchiate dai denti.
    Sospirai. In quel momento, non portava nessuna maschera addosso. C’era solo lui, insieme alla sua simbiosi con la sua chitarra ed era chiaro che sentiva ciò che suonava. Io lo sapevo, perchè avvertivo un lieve turbamento, il classico turbamento che prendeva posto dentro di me quando a colpirmi dritta al cuore era l’intreccio della musica e della passione. Se solo fosse apparso sempre così, ammaliante e vero più che mai, invece di comportarsi da menefreghista come al solito, sarebbe andato a genio a molte più persone.
    Spostai lo sguardo su suo fratello, che cantava leggendo da un foglio di carta scritto e pasticciato. Bill era molto diverso da Tom, riflettei imbronciando le labbra. Nonostante l’età, riusciva ancora a guardare il mondo con la curiosità e la vivacità di un bambino, mostrava espressamente cosa provava, quando si trovava nel suo ambiente privato; era un’abitudine che in un’altra persona avrei trovato insopportabile. Eppure, Bill non mi risultava mai odioso o antipatico, anche se mi ci mettevo d’impegno. Potevo trovarlo irritante e insopportabile, ma alla fin fine mi faceva sempre sorridere.
    La canzone finì dopo due minuti e Bill sollevò le palpebre, che scoprirono due iridi già fisse su di me. Mi sorprese a fissarlo e le sue labbra si stesero in un sorriso sereno.
    Sorrideva sempre, Bill, anche quando non era necessario. Doveva essere uno strazio tirar fuori un sorriso convincente anche quando non voleva.
    «Va bene, capo?», mi chiese Georg.
    «Va benissimo!», s’intromise una voce allegra e baritonale dietro di me. Mi voltai, girando sullo sgabello, e vidi Jost appoggiato allo stipite della porta aperta, la maniglia ancora stretta in mano. «Si sentiva tutto dal corridoio. Davvero, complimenti, ragazzi».
    Sorrisi soddisfatta e sperimentai per la prima volta cosa significasse sentirsi realizzati sul lavoro. Almeno sei canzoni erano approntate ed avevamo parecchie idee per comporne altre.
    «David, dopo devi aiutarmi a controllare qualche testo», affermò Bill in tono pratico e ricevette in risposta un assenso da parte del manager. «Ora, però, ho fame. Pausa?», fece un ampio sorriso, guardando verso di me.
    Guardai l’orologio: era mezzogiorno passato. «Si può fare». Ero affamata anche io, ma la prospettiva della mela conservata in un involto nella mia borsa non era affatto invitante. Mi arresi all’idea di mangiare qualcosa di gustoso solo quando fossi tornata a casa. «Andate pure a mangiare, io resto qui… a rivedere qualcosa».
    «No, cara Elsa, tu vieni con noi», mi disse Georg in tono perentorio.
    Gli lanciai uno sguardo divertito. «Cosa?».
    «Che razza di persone saremmo se ti lasciassimo qua da sola a sbocconcellare una di quelle cose che ti porti tu?».
    «Ti informo che sono frutti e che fanno bene alla salute».
    «Ma fanno schifo! Adesso vieni con noi e mangi qualcosa di decente», s’impuntò Bill. Mi afferrò per un polso e mi attirò verso di sé, issandomi in piedi con la sua poca forza.
    Mangiare con i miei colleghi? La sola idea mi terrorizzava.
    Ad un tratto vidi Gustav materializzarsi al mio fianco e avvicinarsi un po’ troppo per i miei gusti.
    «Non provare nemmeno a pensarci», mi disse, «adesso vieni e ti rifocilli per bene con noi, sound editor o meno, chiaro? È questione di umanità».
    Esitai ancora qualche secondo, interrogandomi su come avesse fatto a capire, il polso ancora stretto nella presa calda di Bill. «Ma…».
    «Ehi, Elsa!».
    Voltai il capo verso la direzione da cui proveniva la voce di Tom, che mi chiamava già dal corridoio, voltato appena verso di me con il busto.
    «Che vuoi?», berciai.
    «Vieni a mangiare», mi ordinò con un cenno del capo e riprese a camminare verso la cucina.
    Mi liberai dalla presa di Bill con uno strattone irritato. «Certo, adesso magari mi metto anche ad abbaiare e ti seguo scodinzolando, vero?!», strepitai, dirigendomi a passo di carica verso la cucina. «E poi mangio anche dalla ciotola!».
    David alzò gli occhi al cielo, lo vidi con la coda dell’occhio, e potevo giurare che Gustav e Georg, dietro di me, se la stessero ridendo sotto i baffi.
    Ci spostammo tutti nella cucina, un ambiente che non avevo mai visto, comunicante con il salotto tramite un piccola apertura nel muro. Era piccolo e ben organizzato, ma c’era un disordine che nemmeno io e Didi messi insieme avremmo potuto creare: cartoni di pizze vuoti e abbandonati sul tavolo, bottiglie di birra sui mobili, bevande lasciate aperte sui ripiani in acciaio, briciole a terra e sulle sedie.
    «Che sfacelo», commentai a bassa voce.
    «Già, si chiama uragano Tokio Hotel», mi appoggiò David, girando intorno al tavolo. Con mia enorme sorpresa, vidi che cominciava a ripiegare i cartoni vuoti delle pizze, in silenzio, mentre Georg si sistemava sul divano del salotto nel solito modo scomposto, seguito da Tom che accendeva la televisione appesa al muro.
    Non seppi dove andò Bill, che si era dileguato, né Gustav, che vidi scomparire in un’altra stanza. Tutto ciò che feci fu apprestarmi ad aiutare David, che tentava in qualche modo di riordinare la cucina disastrata. Afferrai la scopa che avevo intravisto nel piccolo spazio tra ripiano e muro e cominciai a spostare le sedie per spazzare il pavimento.
    «Non c’è bisogno, Elsa, stia comoda», disse David a voce bassa.
    Lo ignorai e continuai imperterrita a pulire. «Facciamo che ci diamo del tu e si risolve la faccenda. E poi, non potrei starmene a guardarti sfacchinare mentre quei quattro se ne stanno in panciolle».
    «A proposito di quei quattro», gettò qualche bottiglia di vetro nella spazzatura, «vedo che riesci a gestirli bene».
    Scrollai le spalle. «È il mio lavoro».
    «Il tuo lavoro è aiutarli nella creazione dell’album, non fare da tata», ridacchiò passando uno straccio bagnato sul tavolo. «Quei quattro sanno essere travolgenti, ma tu riesci in qualche modo a tenerli a bada».
    Una sensazione diffusa di fastidio si irradiò dal centro del mio petto fino alle mani, manifestandosi sottoforma di formicolio. Odiavo sentirmi ricordare i miei meriti, mi metteva in imbarazzo. «Ci ho fatto il callo».
    David stava per replicare, ma venne troncato sul nascere da Georg, che entrò in cucina e si sedette al tavolo appena pulito. «Allora, si mangia qui?».
    In pochi secondi tutto l’ambiente della cucina venne riempito dai fantastici quattro. Tom si piazzò accanto a Georg e cominciò subito a stuzzicarlo infilandogli un tappo di bottiglia raccattato da qualche parte nella maglietta. Gustav si sedette a capotavola tamburellando le dita sul tavolo. Per quanto mi riguardava, non sapevo che fare, se non rimanere in disparte appoggiata al muro.
    «Oggi cucino io!», annunciò Bill – materializzatosi all’improvviso – battendo le mani. «È il mio turno!».
    «Il tuo turno?», domandai confusa.
    «Sì, ogni sabato fanno a turno per chi deve cucinare, mentre nei giorni settimanali si abbuffano di varie schifezze poco salutari», m’informò David.
    Avevo intuito qualcosa del genere nel tempo passato con loro, ma non mi ero mai soffermata a chiedermi quali fossero le regole vigenti in quella pseudo casa. Nei giorni settimanali io e i ragazzi ci fermavamo dal quarto d’ora alla mezzora per spiluccare qualcosa nella sala registrazioni e staccare un po’ dal lavoro, e il sabato non avevo idea di come facessero, poiché me ne andavo prima. Invece quella volta avevo deciso di trattenermi un po’ di più per non lasciare incompleto il lavoro.
    «Bene, allora oggi panini per tutti!», cinguettò ancora.
    Santo cielo, trovavo snervante quel suo buonumore costante, quella dannata iperattività. Lo invidiavo a morte.
    «Che fantasia hai, Bill», commentò Tom.
    «Dobbiamo rassegnarci a mangiare panini traboccanti d’olio e delle salse più strane». Georg.
    «Ho, capito, devo fare il buon samaritano e andare in rosticceria», si offrì Gustav, facendo finta di alzarsi.
    Non potei fare a meno di ridere con gli altri, gustandomi la deliziosa espressione oltraggiata di Bill.
    «Siete degli ingrati!».
    Il tono lievemente stridulo e il suo faccino corrucciato sciolsero come raggi di sole sulla neve i miei propositi di non farmi intenerire. Mi trovai a tendere il viso in un’espressione indulgente senza nemmeno rendermene conto. «Lasciali stare, Biancaneve, ti aiuto io».
    «Okay, allora mi dichiaro a dieta», affermò Tom.
    Bill lo ignorò, puntando all’insù il suo nasino e mi prese sottobraccio, guidandomi nell’angolo cottura, ordinato e moderno.
    «Sanno essere davvero fastidiosi, qualche volta», affermò con decisione, prendendo dalla dispensa una confezione di pane a fette.
    Mi diressi al frigorifero e lo aprii, cercando qualcosa da poter mettere nei panini. Afferrai degli affettati sottovuoto e degli hamburger precotti e li posai accanto al pane.
    «Ah, devo chiederti una cosa», disse poi Bill con tranquillità.
    «Dimmi».
    «Riguarda domenica scorsa».
    Sospirai il più discretamente possibile e cominciai ad aprire le confezioni con un coltello. «Brutto spettacolo, vero?», buttai lì con casualità.
    «È davvero tuo padre, quello?».
    Mi pose quella domanda come l’avrebbe fatto un bambino incredulo. Inutile dire che mi prese totalmente in contropiede che lasciai cadere il coltello a terra. «Certo che è mio padre», risposi, chinandomi per raccoglierlo. «È solo che non abbiamo mai avuto un bel rapporto, tutto qui».
    «Posso essere indiscreto e chiederti perché?».
    Gli lanciai un’occhiata per capire se fosse serio o meno. Quando mi accertai che il suo interessamento era sincero, formulai nella mente una risposta diplomatica e corretta, abbastanza soddisfacente da non stuzzicare più la sua curiosità. «Avrebbe voluto che scegliessi la strada dell’avvocato, invece di quella della musicista».
    I suoi occhi si assottigliarono. «Anche mia madre avrebbe voluto che io e Tom diventassimo architetti, ma non per questo ci tratta come immondizia».
    «C’est la vie», scrollai le spalle.
    «E tua madre? Non è Annika, vero?».
    Che ragazzo impossibile! Sembrava unicamente concentrato sui capelli e sullo smalto delle sue unghie, ma sapeva osservare perfettamente e trarre le sue dannate conclusioni.
    Lasciai perdere il terzo panino che stavo preparando e mi appoggiai al mobile, apprestandomi a confessare con durezza una verità che lo avrebbe lasciato senza parole. Funzionavo così, io: se non potevo nascondere ciò che mi procurava dolore, lo usavo come un’arma.
    Incrociai le braccia e cominciai senza esitazione: «la mia madre biologica era malata di cancro ed ha dovuto scegliere tra la mia vita e la sua. Morì quando avevo pochi mesi».
    Come mi aspettavo, Bill ammutolì.
    «Mio padre non gliel’ha mai perdonato e scarica su di me la sua rabbia. Questo è tutto».
    Spostai lo sguardo dalla sua faccia attonita e terminai di preparare le fette di pane.
    «È terribile», soffiò dopo un po’. «E tu come fai a sopportarlo?».
    «Me ne sono andata da quella casa quando avevo diciannove anni», risposi semplicemente, «da allora ci saremo visti sì e no una decina di volte, e mai per scambiarci baci e abbracci. Occhio non vede, cuore non duole».
    Ormai i panini per tutti erano pronti, poggiati in sei diversi piattini. Ma sia io che Bill ci stavamo attardando, appoggiati al ripiano in acciaio, raccolti in un’intimità insolita e tutta nostra. E la cosa più strana era che non mi dispiaceva per niente, perché la presenza di Bill mi rasserenava e, cosa più preoccupante, mi spingeva a continuare a parlare. Era come se i miei argini si stessero crepando.
    «Sarò sempre e solo l’intralcio che non doveva esserci», sussurrai, sorridendo amaramente.
    Bill si mosse per fare qualcosa, ma sentimmo entrambi un rumore di passi e scattammo sull’attenti. La testa di Georg si affacciò sul profilo della porta.
    «Li state partorendo, questi panini?», chiese con un sorriso enigmatico.
    «No, sono pronti».
    Riuscii a portare quattro piatti in una volta, posandone due sugli avambracci e altri due nelle mani. Bill mi ringraziò e prese i due piatti restanti, seguendomi nella cucina luminosa.
    «Ecco le prelibatezze!», annunciò allegro, servendo prima se stesso e poi suo fratello. «Rifatevi la bocca e il palato».
    Alzai gli occhi al cielo e servii gli altri quattro, cominciando da David e finendo al principino Tom.
    «Da sound editor a cameriera? Hai fatto il salto della quaglia?».
    «Bisogna saper fare di tutto nella vita», gli risposi candidamente, appoggiandomi al muro per consumare la mia razione di cibo in tutta tranquillità.
    Le sue labbra piene si arricciarono ai lati. «Potrei anche interpretarla male, questa, lo sai?».
    Testa di cazzo.
    «Testa di cazzo», lo apostrofò Bill. «Allora, Elsa, oggi è il compleanno della tua amica».
    «Già», non mi ero dimenticata affatto la simpatica serata che ci aspettava in compagnia dei Tokio Hotel al Mabou. Già tremavo al pensiero di Bea e Didi insieme a gente del tutto diversa da loro.
    «Chissà com’è la nostra responsabilissima collega sotto gli effetti dell’alcol…», indagò Georg scoccandomi una delle sue verdissime occhiate, che ricambiai con un sorriso ammiccante.
    Guardai Tom – casualmente, ovvio – e vidi che era già a metà con il suo panino.
    «Sicuramente non è la santarellina che pensiamo noi», grugnì, ma c’era qualcosa nelle sue parole che mi irritò profondamente.
    «Riuscirei a farti il culo anche da ubriaca», lo aggredii incattivita.
    «Certo, tanto sai fare solo quello», mugugnò masticando.
    «Che vuoi dire?».
    «Che sai solo far scappare le persone da te».
    La mia mente fu piena di anatemi poco carini da dedicargli, ma mi trattenni. Soprattutto, non mi feci toccare dalla sua cattiveria. «Se le persone sono come te, meglio così».
    «Ci risiamo», s’intromise Gustav. «Un cane e un gatto andrebbero più d’accordo».
    «Già, immagino che bell’esistenza piena di amici devi condurre con il tuo caratteraccio».
    «Non sono affari tuoi».
    «Coda di paglia?».
    C’era una volta un Kaulitz che spinse la sua sound editor a strozzarlo con le sue stesse mani…
    «Come si spengono?», supplicò Georg, tenendosi la testa tra le mani.
    Il caro, buon Gustav intervenne per gettare acqua sul fuoco del nostro battibecco. «Comunque», ci distrasse, «Didi non ci ha detto dove lavora».
    Ingoiai l’ultimo morso del mio panino. «In un locale fuori Amburgo, si chiama Mabou. Non so se -».
    «Il Mabou?», mi interruppe Bill, «certo che lo conosciamo! Ci siamo stati qualche tempo fa ed è stato molto bello».
    Come suonava falsa e costruita, quella risposta. Non seppi spiegarmi perché, ma c’era qualcosa nel modo in cui Bill me l’aveva porta di profondamente stonato. Sarebbe stato il responso perfetto se si fosse trovato di fronte ad una telecamera o ad un pubblico, e non davanti ad una persona fatta di carne e sangue come lui. Era comprensibile, dopotutto: di sicuro, Bill aveva imparato ad essere sempre diplomatico, a controllare se stesso e le sue reazioni, ma evidentemente non si era reso conto che negli anni quel modo di fare l’aveva completamente assorbito. Prenderne atto mi fece sentire triste ed impotente.
    «Sei sicuro?», gli domandai di proposito, guardandolo accigliata.
    Reagì proprio come i bambini: mi guardò perplesso, probabilmente chiedendosi se ciò che mi aveva detto non corrispondesse a ciò che volevo sentirmi dire.
    «Sì, credo di sì». Tentennò vistosamente, ma mascherò la sua reazione insicura dietro un sorriso ben congegnato.
    Che tristezza.
    «E come ci organizziamo?», chiese Gustav in tono pratico, dopo avermi lanciato un’occhiata strana.
    «Possiamo andarci con la tua macchina, Tom», propose Georg.
    «Ve lo potete scordare! Io non lascio la mia macchina in mezzo alla strada!».
    «Perché?», domandai.
    Georg diede una leggerissima gomitata al suo amico. «Perché è talmente vistosa, che una Ferrari a confronto passerebbe inosservata».
    «Disse l’uomo con tre Audi nel garage».
    Continuarono a battibeccare tra loro e lasciai completamente perdere l’idea di seguire i loro discorsi. Pensai a dove trovare la forza di affrontare quella serata e a come scacciare la preoccupazione.
    Non sapevo perché mi sentivo così ansiosa. Forse – forse – era la paura che qualcuno sconvolgesse i pochi, ma essenziali equilibri che tenevano in piedi la mia vita. E questi equilibri si basavano sulla musica, Didi e Bea. Non avevo nessun altro, se si escludevano le conoscenze superficiali che chiunque ha. Nutrivo la terribile paura di perderli e l’irrazionale istinto di proteggerli da qualsiasi delusione. E i Tokio Hotel rappresentavano una potenziale delusione. Sapevano essere travolgenti, deliziosamente adorabili, divertenti, e una sola settimana a contatto con loro bastava per farsi conquistare, ma dietro l’immagine di star, erano comuni, banali ragazzini. E se c’era una cosa che avevo imparato subito nella mia vita, era che i ragazzini erano quanto di più inaffidabile e pericoloso ci potesse essere, per le persone con il cuore già solcato da cicatrici. Non riuscivano a capire dove finisse la propria libertà e quando questa calpestasse quella altrui, ragionavano in relazione ai propri sentimenti senza curarsi delle conseguenze su quelli degli altri.
    «Pensierosa?».
    Sussultai appena.
    «Georg, la prossima volta, per favore, cerca di essere rumoroso come al solito».
    Mi regalò un sorriso furbo. «Lo sono stato, ma tu eri su un altro pianeta».
    «Come non detto». Mi resi conto di avere in mano solo il piatto pieno di briciole. Mi allontanai dal muro, lo poggiai sul tavolo, badando a non fare rumore, e ritornai dov’ero.
    «Ti fa male essere sempre un fascio di nervi», m’informò con calma.
    «Non riesco a farne a meno», confessai. «Però è stancante, è vero».
    Georg incrociò le braccia e i bicipiti e tutti i muscoli delle spalle si tesero. Non ero il tipo di ragazza che solitamente sbavava dietro ad ogni esemplare maschile ben piazzato, ma qualsiasi donna eterosessuale non sarebbe riuscita a restare indifferente ad un uomo come quello.
    «Non è necessario», stava dicendo intanto. «Non è nei nostri piani ridurti di nuovo il cuore in poltiglia».
    La mia mente rimase incastrata a quel “di nuovo”.
    Fissai Georg e lui capì al volo il mio smarrimento, perché scrollò le spalle con nonchalance.
    «Una persona che consuma la maggior parte delle sue energie a difendersi, anche da pericoli che non ci sono, non può non aver avuto il cuore spezzato».
    Cuore spezzato. Un modo banalmente romantico per dire che avevo sofferto fino a desiderare di voler morire.
    «Siete impossibili», sussurrai, «non dovevate essere spocchiosi, egocentrici e superficiali?».
    Mi fece l’occhiolino. «Di Tom, ce n’è uno solo».
    Riuscii a sorridere, per la prima volta da quando ero con loro, in modo completamente sincero e rilassato.
    «Eppure anche lui ha i suoi lati positivi», si affrettò ad aggiungere.
    Già, l’avevo notato. Ma non era necessario che Georg lo sapesse.
    «Davvero?», la mia voce traboccava un po’ troppo scetticismo.
    «Davvero. La sua è tutta apparenza».
    M’imbronciai. «È ovvio che la sua sia tutta una parte, del resto la recita pure male. Ma non deve aspettarsi un trattamento migliore da me solo perché non ha il coraggio di mostrarsi per come è. Non funziona così».
    Senza accorgermene, avevo alzato abbastanza la voce da richiamare l’attenzione degli altri. Avevo cinque paia d’occhi puntati su di me e mi sentii profondamente a disagio per l’ondata di attenzione che mi aveva investito all’improvviso.
    «Sento puzza di discorsi seri», disse David, sdrammatizzando la situazione con un sorriso. Bill lo imitò, accondiscendente e Tom mi guardava in un modo che non volli decifrare.

    Tornata a casa dopo esserci organizzati per la serata, non guardai nemmeno in faccia Didi per la troppa stanchezza: mi buttai a peso morto sul letto e mi concessi una bella dormita, seguita da una lunga doccia rilassante. Dopo essermi avvolta in un asciugamano, cominciai ad asciugare i capelli davanti allo specchio.
    Didi spuntò sulla soglia del nostro bagno e si appoggiò allo stipite, prendendo a fissarmi con un’insistenza snervante.
    «Beh?», feci, dopo tre minuti buoni.
    «Hai intenzione di tenermi il broncio ancora per molto?».
    «Non ti sto tenendo il broncio», lo contraddissi, continuando imperterrita ad asciugarmi i capelli.
    «Sì, lo stai facendo».
    «Invece no».
    «Ti rendi conto della tua regressione allo stato mentale di una dodicenne?».
    Spensi il phon, esausta, e lo poggiai nel lavandino. «Non ti sto tenendo il broncio, davvero. Solo che quello che mi hai detto ieri mi ha…», mi bloccai, non trovando la parola giusta.
    «Ferita», completò Didi per me. «Lo so».
    «Già», convenni, con un sospiro. «Ultimamente le cose vanno male».
    Non ero in vena di sfoghi, e Didi sicuramente lo capì dal mio modo di parlare asettico e distaccato, ma entrò ugualmente nel nostro bagno per sedersi sul bordo della vasca alle mie spalle.
    «Perché?», chiese, accavallando le gambe fasciate da pantaloni di pelle marrone, aderentissimi.
    Fissai l’immagine di me che mi restituiva lo specchio: non ne avevo idea. O meglio, ce l’avevo, ma non mi sentivo pronta per dirla ad alta voce. Quindi tentennai davanti allo specchio masticandomi le guance.
    «È un periodo», mi decisi a dire e scrollai le spalle. «Devo ritrovare i miei equilibri, quei quattro li hanno sconvolti tutti».
    «Quei quattro, o un certo individuo con la passione per le taglie forti?».
    Mi cadde il barattolino di crema nel lavandino. «Che c’entra Tom?».
    Ghignò e si coprì le labbra con una mano. «E chi parlava di Tom?».
    L’insulto rivolto a lui mi morì sulle labbra e boccheggiai come un’idiota. Mi aveva beccata in pieno, mai come allora sentii di odiarlo.
    «In ogni caso», riprese il discorso lui, più per compassione che per altro, «non posso darti torto, se ti senti attratta da lui. Cazzo, anche un bradipo eunuco si sentirebbe attratto da lui!».
    Ringraziai il cielo che il discorso avesse preso una piega meno pesante e risi. «Adesso è l’ormone a parlare».
    «Diavolo, sì!».
    Mi ritrovai a ridere con lui, ringraziando che funzionasse così, tra di noi: le litigate e i piccoli bisticci non duravano più di un giorno, perché bastava un niente per farci tornare a scherzare e ridere serenamente.
    Poi Didi si elevò in tutta la sua considerevole altezza e mi mise una mano sui capelli, arruffandomeli con le dita. «A che ora dobbiamo andare a prendere Bea?», chiese.
    Tasto dolente. «Dopo che i fantastici quattro ci hanno raggiunti, verso le dieci», risposi dura, subito pronta a cambiare argomento. «Mi presti il tuo bracciale con la nota e la chiave?».
    Mi guardò come se avessi un grosso brufolo purulento sulla fronte.
    «Quello nero», spiegai, paziente, «con la nota e la chiave di violino. Te lo regalai io».
    Gli angoli della sua bocca si modellarono in due riccioli. «Solo se mi presti il perizoma con il pompon applicato dietro che ho visto nel cassetto della tua biancheria», disse, sorridendo furbamente.
    «Non ho un perizoma con il pompon applicato dietro, nel cassetto della mia biancheria», dissi, confusa, il mascara che avevo preso dal beauty stretto tra le dita.
    «Oh, certo che ce l’hai. Quello rosa, di pizzo, con la coniglietta disegnata davanti…».
    Per poco non mi accecai. «Tu non dovresti sapere della sua esistenza!», esclamai arrabbiata. Anche io mi sarei dimenticata volentieri di quell’oggetto di dubbio gusto. Era il frutto di una delirante giornata con Bea a base di shopping e schifezze da mangiare, terminata con una ramanzina rivolta a me a causa del mio vizio inestinguibile, cioè quello di comprare sempre e non indossare mai.
    «Viviamo nella stessa casa, cara Sissi», disse Didi con la sua stupenda faccia da schiaffi.
    «E questo ti autorizza a mettere le mani nella mia biancheria?».
    Il suo sorrisetto si accentuò. «Cercavo le coulotte con la torre di Pisa». Rise, e scappò nel corridoio per scansare il beauty che avevo lanciato verso di lui.

    Erano le dieci e un quarto. Le dieci e un quarto e quelle quattro teste di cartone non erano ancora arrivate.
    Era improbabile che si fossero persi, dato che vivevano ad Amburgo da un po’, ma, conoscendoli, non si poteva mai sapere.
    Camminavo per la cucina e il salotto come una tigre in gabbia, irrequieta e nervosa.
    Didi, invece, comodamente stravaccato sul divano, si rimirava le unghie ostentando la calma di un istruttore di yoga. Lo invidiavo a morte.
    «Elsa, datti una calmata. Non arriveranno prima se tracci un solco nel pavimento».
    Non gli risposi per decenza.
    «E poi, sicuramente Bea non sarà pronta prima delle dieci e mezza», ridacchiò divertito.
    Proprio in quel momento, il cellulare abbandonato sul tavolo vibrò e io lanciai un’occhiata saccente al mio amico: «questa è Bea pronta a urlarmi contro qualche centinaio di parolacce perché siamo in ritardo», dissi, aprendolo e portandomelo all’orecchio, mentre Didi si dileguava nel corridoio blaterando un “non voglio esserci”.
    «Bea, scusa, scusa, scusa, noi siamo pronti, ma stiamo ancora aspettando che quei cervelli sotto sale ci onorino della loro presenza!».
    «Avevo paura che non fosse il tuo numero, ma ora non ho più dubbi», mi rispose una voce, conosciutissima, che di certo non era quella di Bea.
    «Tom», dissi, estremamente seria ma segretamente stupita, «come hai avuto il mio numero?».
    «Non prendertela con me», si difese, «per averlo, Bill ha chiamato Peter Hoffman, che ha chiamato David, che gliel’ha passato. Voleva a tutti i costi che ti avvisassimo».
    Mi animai istantaneamente. «Non venite più?», chiesi, raggiante.
    «No, facciamo solo un po’ tardi».
    Quanto lo odiavo! Aveva il potere di farmi cambiare umore nello spazio di un secondo.
    «Ma non mi dire, Kaulitz, non se n’è accorto nessuno», dissi, sarcastica. «Posso chiedere almeno il perché, di grazia?».
    «A tuo rischio e pericolo. Bill ha dovuto stirare i capelli a Georg e poi si è sporcato la maglia di cera, quindi ha dovuto cambiarsi integralmente e non trovava qualcosa che gli andasse bene».
    Mi misi una mano tra i capelli. «Oh, mio Dio…», pigolai esausta.
    «E ora siamo imbottigliati nel traffico».
    I miei poveri nervi…
    «Ce la fate ad andare direttamente al Mabou? Vi raggiungiamo lì», proposi, con tutta la calma di cui disponevo.
    Ci fu una piccola pausa ad effetto. «Voi, raggiungerci lì? Ma stiamo scherzando?».
    Quella reazione mi colse totalmente impreparata. «No, perché?».
    «Di solito siamo noi che facciamo aspettare la gente, non il contrario».
    Scattai come una molla alle sue parole, ma cercai di calibrare il tono di voce per non passare per un’isterica. «Scendi da quel dannato piedistallo, Tom, e fatti un giro nel mondo reale, ogni tanto. Ne hai bisogno».
    «Vaffanculo! Devi smetterla di trattarmi come un bambino, chi credi di essere!?», mi tuonò contro.
    Si sentii un lieve brusio di sottofondo e delle voci, ma non seppi decifrare le parole e i timbri.
    «Credo di essere una persona con le palle strarotte del tuo atteggiamento del cazzo e delle persone come te, e se vedo che ti comporti come un lattante, io ti tratto da lattante! Ci vediamo al Mabou, ciao». Chiusi il telefono e lo infilai nella borsa.
    «Suppongo che non fosse Bea». Didi tornò dalla porta del corridoio, sgranocchiando qualcosa di cui non volevo conoscere l’identità.
    «No, infatti», ringhiai, «andiamo a prenderla e raggiungiamo quegl’imbecilli al locale».
    Mi avviai verso la porta, ma Didi mi chiamò per nome. Quando lo guardai, aveva lo sguardo di un genitore che rimproverava il figlio per una monelleria.
    «Finiscila».
    Lo ignorai e uscii.
    Poiché non era pronta – esattamente secondo le previsioni di Didi –, quando arrivammo sotto casa di Bea, fummo costretti ad aspettare altri buoni dieci minuti. Il mio amico continuava a cambiare stazione radio, io guardavo assorta oltre il finestrino.
    «Davvero pensi che stia esagerando?», chiesi con voce assente dopo un po’.
    «A cosa ti riferisci?».
    «Ai fantastici quattro», chiarii. «Magari è vero che c’è qualcosa di buono, in fondo…».
    «Tutti abbiamo qualcosa di buono da dare, devi saperlo vedere».
    Lo avrei preso in giro per quell’inaspettata perla di saggezza, ma quella volta mi fermai a rifletterci su qualche secondo. Ripensai agli sguardi preoccupati e sempre premurosi di Bill, a Gustav che parlava poco, ma sempre per buone ragioni, a Georg che aveva saputo vedermi dentro in un modo tanto discreto quanto efficace da lasciarmi disarmata. E a Tom, che, tutto sommato, era un compagno di alterchi molto valido.
    «Forse hai ragione», dissi.
    Pochi secondi dopo, sentii di nuovo la mano di Didi poggiata sulla mia testa. «Quanta confusione c’è nel tuo cervellino».
    Stavo per rispondere che odiavo quando dava sfogo al suo istinto materno, ma lo sportello posteriore si aprì per lasciar entrare una Bea con l’argento vivo addosso. La sua vivacità latente, per una volta, aveva preso il posto dello strato di sarcasmo e cinismo che la caratterizzava e sembrava davvero più bella. I suoi tratti regolari e armonici, anche se forse un po’ accentuati, apparivano più dolci, e guardarla significava essere inevitabilmente contagiati dal suo buonumore.
    «Ecco l’anima della festa!», esclamò, baciando calorosamente sulla guancia prima me, poi Didi. Le facemmo gli auguri e partimmo.
    «Dov’è il piatto forte?», chiese poi con entusiasmo.
    «Sarà servito in quattro meravigliose porzioni contornate da panna montata e mousse al cioccolato fondente direttamente al Mabou», dissi, con evidente sarcasmo.
    Didi mi diede un debole schiaffetto ammonitore sulla coscia. «Non illuderla così, sai che ci crede davvero».
    Risi e scoccai un’occhiata a Bea. «Davvero segui la loro carriera?», chiesi scettica.
    «Non li seguo attentamente, ma la mia rivista praticamente si nutre di fenomeni come il loro ed è impossibile non conoscerli», spiego in tono pratico.
    Fenomeni. Quindi, i Tokio Hotel per i giornaletti di gossip non erano altro che una meteora da spremere come un limone per ricavarne il più possibile?
    «Quei ragazzi non sono un fenomeno», mi trovai a dire, ancor prima che la mia mente potesse realizzare il concetto.
    Bea non si soffermò sul mio tono serio e riflessivo. «Beh, ora come ora la loro popolarità sta calando; dovrebbero darsi una mossa, se non vogliono ritrovarsi nel dimenticatoio».
    Ecco perché provavo profonda repulsione per tutte le impalcature e sovrastrutture costruite intorno agli artisti e alla loro musica. Appena dimostravano di essere umani e di non poter sfornare continuamente canzoni e hit di successo, venivano accantonati e sostituiti.
    «Non devono affatto darsi una mossa, ma prendersi i loro tempi», continuai, «forse hanno le caratteristiche di una meteora, ma sono ragazzi originali, amano ciò che fanno e ce la mettono sempre tutta. Io lo so, lo vedo».
    Bea e Didi si scambiarono uno sguardo ispirato nello specchietto retrovisore e io mi trovai ad essere ancora più convinta di ciò che avevo detto. Si poteva mettere in discussione tutto, di loro, tranne la passione.
    «Tranquilla, nessuno ti tocca i tuoi cuccioli», mi disse Bea con tono evidentemente ironico.
    «A proposito di cuccioli, credo che siano quei quattro che aspettano nel macchinone».
    Non mi ero accorta che eravamo giunti a destinazione.
    Il Mabou era un locale abbastanza popolare, che si collocava nella parte più in vista di una grande zona pedonale. La strada che circondava l’area era gremita di auto e la piazza brulicava di gente, e non solo in corrispondenza dell’ingresso del locale, che sgomitava tra una gelateria e una saracinesca chiusa. Una macchina grigia, marca Audi, era parcheggiata circa un isolato più avanti, in una traversa successiva ad un palazzo a tre piani. Più ci avvicinavamo, meglio riuscivo a identificare la testa di Bill, seduto dietro, i suoi rasta bianchi legati sulla nuca e qualcosa del profilo di Gustav.
    Anche Bea guardava attentamente all’interno dell’auto, assottigliando gli occhi azzurri in due riflessive mezzelune. «Cos’è quella palla che si muove?», chiese.
    Sospirai. «Non è una palla, è la testa di Bill che si agita in continuazione quando è in preda ad uno dei suoi attacchi di logorrea».
    Entrambi i miei amici risero e anche io mi lasciai sfuggire un sorriso indulgente.
    «Elsa, raggiungili e dì loro di seguirmi nel parcheggio per i dipendenti, se non vogliono lasciare la macchina fuori», consigliò Didi, «poi li faremo entrare dal retro».
    «Perché devo andarci io?».
    Invece di rispondermi, si allungò per aprirmi lo sportello. «Dai, altrimenti blocchiamo il traffico».
    «Come se non fosse già bloccato…», borbottai, uscendo. Mi trovai immersa nella confusione del sabato sera, smog e clacson di auto. L’aria gelida m’investii e mi strinsi nel mio cappotto bianco. Attraversai quell’isolato a passo sostenuto e poi bussai con due nocche al finestrino del guidatore, che si abbassò rivelandomi poco a poco il viso di Georg e quello imbronciato – tanto per cambiare – di Tom.
    «Buonasera!», li salutai, sorridendo.
    Tom mi rispose con un grugnito, Gustav ricambiò il saluto educato, seguito da Bill che si sporse oltre i due sedili di avanti per sorridermi e ricambiare.
    «Ce l’avete fatta», disse Georg.
    Mi riavviai i capelli all’indietro. «Scusate, c’era traffico», risposi, evitando accuratamente la parte in cui Bea ci faceva aspettare quasi un quarto d’ora, per non scatenare le ire di Tom. «Vi faccio entrare dal retro». Mi spostai verso lo sportello posteriore e lo aprii, infilandomi all’interno.
    Tom si voltò verso di me, guardandomi con un sopracciglio inarcato. «Ma tranquilla, Elsa, fai come se fosse la tua macchina». La sua voce grondava sarcasmo.
    Stavo per replicare, quando vidi Bill dargli uno schiaffetto con il dorso della mano sul braccio. «Stai zitto», gli ordinò, poi si rivolse a me: «wow, stai benissimo», disse guardando i semplici jeans abbinati ad un’altrettanto semplice camicia nera, peraltro nascosta da un cappotto bianco, di lana, lungo fino a metà coscia.
    Mi trattenni dallo sbuffare. Non aveva ancora capito che odiavo i complimenti?
    «Anche tu», ricambiai, allora, giusto per spostare l’attenzione da me, ma dovetti ammettere con me stessa che era vero. Bill indossava dei semplici jeans scuri, abbinati ad un cappello nero e ad una felpa dello stesso colore decorata sul petto da motivi bianchi. Non era appariscente, ma ormai riuscivo ad immaginare che qualunque fan provvista di occhio clinico avrebbe saputo riconoscerlo.
    Ma il mio complimento, evidentemente, non aveva sortito l’effetto di lusingarlo, perché mi guardava come se gli avessi detto che aveva dei bellissimi occhi azzurri. «Non dire idiozie, non è vero!», stridette. «Sembro Bridget Jones alla festa del circolo degli avvocati, sono quasi impresentabile, giuro che in tutta la mia vita non mi sono mai presentato in pubblico in modo così pietoso…», Bill continuò a blaterare e, dopo essermi fugacemente domandata come facesse una star internazionale del rock a conoscere Bridget Jones, mi pentii con tutta me stessa di avergli fatto quel dannato complimento e di non saper dire “grazie”.
    Lanciai un’occhiata esasperata a Gustav, che ricambiò con un’alzata di spalle e un sorriso indulgente.
    «A Georg è andata peggio. Pensa che gli ha urlato dietro per quasi un quarto d’ora», m’informò, e Bill guardò incuriosito verso di lui.
    «Ho fatto un’opera di bene!», si difese Georg.
    «Sporcandomi una maglia di ottanta euro con della cera per capelli?!».
    «No, impedendoti di dare sfogo al tuo egocentrismo soffocante che avrebbe portato tutti noi ad essere riconosciuti».
    Quel battibeccare continuo mi strappò un sorriso. «State tranquilli, Didi ci ha riservato il posto speciale del locale», assicurai loro. «Vi faccio lasciare la macchina nel parcheggio riservato ai dipendenti».
    «Che bella idea!», cinguettò Bill, mentre Georg metteva in moto. Lo guidai fino ad un garage sotterraneo, a cui si accedeva tramite un cancello grigio, sorvegliato. Appena la macchina si fermò di fronte alle grate, il guardiano si avvicinò e io mi sporsi oltre il finestrino abbassato.
    Appena mi vide, l’uomo mi sorrise. «Guarda un po’ chi si rivede! Ti eri data latitante?».
    «Scusa, Klaus, ho avuto da fare», spiegai sbrigativa all’uomo sulla quarantina con due occhi piccoli e neri, vestito in modo molto semplice. «Sono amici speciali, mi trovi un posticino per loro?», chiesi, sbattendo le ciglia e sciorinando un sorriso angelico.
    «Elsa, Elsa, non ti approfittare».
    «Per favore», insistetti, pigolando «è il compleanno di Bea, non puoi dirmi di no!». Stavo già scendendo dalla macchina, certa del suo cedimento imminente.
    Klaus, infatti, alzò gli occhi al cielo. «Sono troppo buono, l’ho sempre detto».
    «Grande!», esclamai, poi mi rivolsi ai ragazzi che guardavano la scena confusi. «Andiamo; Georg, pensa lui alla macchina».
    I quattro scesero dalla vettura lentamente, piuttosto confusi. Era evidente che non conoscevano scene come quella, abituati com’erano ad essere sempre ricevuti in pompa magna.
    Li guidai fino ad una porta in ferro battuto, che aprii con una chiave che estrassi dalla borsa; ci trovammo in un grande locale, grigio, illuminato unicamente da luci neon penzolanti dal soffitto, pieno di imballaggi disposti sul perimetro e nella zona centrale.
    «Mi sento un mafioso», osservò Georg.
    «Io sono emozionato!», cinguettò Bill, trotterellandomi accanto.
    «Cos’è questo posto? Il set di un thriller?», mi sentii chiedere da Gustav.
    «No, è il magazzino del Mabou, di cui solo i dipendenti hanno le chiavi. Da qui si accede direttamente all’interno, proprio accanto al bancone bar».
    «Che razza di modi…», mugugnò Tom, rimasto in silenzio fino ad allora e io mi ricordai repentinamente della sua esistenza sul pianeta Terra.
    «Oh, Tom, ci sei anche tu!».
    Mi fece un gesto molto poco cortese con la mano che ignorai, perché eravamo giunti in prossimità della porta che affacciava all’interno del locale. Si poteva già udire la musica, ma quando abbassai il maniglione antipanico e spinsi, fummo investiti dal sottofondo house che riempiva tutto l’ambiente.
    Il Mabou non era un locale immenso, ma nemmeno tanto piccolo. Di fronte al lungo bancone bar, disposto poco più avanti ad una parete di specchi, c’era la pista da ballo, animata dalle luci psichedeliche dei riflettori, quasi sempre piena di gente. Sulla parete concava a destra, era disposta una fila di alti divani bianchi a forma di cubo, su cui erano poggiati vari cuscini dai colori alterati dalle luci proiettate attraverso delle gocce di cristallo che pendevano dal soffitto. Di fronte a noi, c’era la consolle del DJ.
    «Ora statemi vicino!», dissi ai quattro dietro di me.
    Salutai i baristi di turno, conoscenze molto superficiali, e guidai i ragazzi verso una scalinata che conduceva ad una sorta di soppalco, dove erano sistemati dei divani zebrati e dei tavolini. Quella era l’area solitamente riservata agli ospiti importanti, e che Didi aveva riservato unicamente per noi.
    Bea e Didi erano già accomodati sui divani, con due drink in mano e delle terrine piene di stuzzichini sul tavolo. Il look di Didi – pantaloni di pelle marrone da cui sporgevano boxer arancioni e camicia color fango con degli schizzi verde acido – appariva ancora più particolare con quelle luci.
    «Eccoci!», esclamai per attirare la loro attenzione.
    «Ehi!», esclamò Bea, guardando i quattro dietro di me con i suoi occhi cerulei ed indagatori. Mi voltai anche io per guardarli e non potei non notare la cappa di imbarazzo che aleggiava su di loro, su Bill in particolare. Immaginai che non dovesse far loro piacere essere presentati anche in privato come la notizia più succulenta, quindi cercai di metterli a mio agio il più possibile.
    «Bea, loro sono Gustav, Tom, Bill e Georg», li presentai, indicandoli uno ad uno. «Ragazzi, lei è Bea, l’hanno sguinzagliata da un manicomio qualche anno fa».
    La mia amica ridacchiò e si alzò stringendo la mano a tutti loro, che le fecero gli auguri, subito seguita da Didi che li baciò tutti su entrambe le guance; sprecò perfino un complimento sentito per i bicipiti di Georg – che non mancò di apprezzare esattamente come avevo fatto io la prima volta.
    Ci accomodammo tutti sui divanetti, io stretta tra Bill e Gustav. Non potei fare a meno di notare che l’atteggiamento della diva, da spigliato e spontaneo di poco prima, si era ridotto ad un imbarazzo muto che lo faceva assomigliare ad un cucciolo di uomo.
    «Ehi», lo richiamai, mentre tutti gli altri erano occupati nei loro chiacchiericci, «che è successo alla tua logorroica mania di protagonismo?».
    Forse aveva un gran bisogno di parlare, perché non si fece particolari problemi nel farlo. «Sono un po’ nervoso».
    «E come mai?», chiesi, con tutta la delicatezza possibile. Sapevo quanto potesse suonare fastidiosa una domanda già di per sé indiscreta, se posta nel modo sbagliato.
    «Di solito siamo sempre circondati da gente che conosciamo, abbiamo guardie del corpo e sappiamo cosa fare, invece ora mi sento così…».
    «Sperduto?», offrii, notando il suo tentennamento.
    I suoi occhi appena truccati si abbassarono. «Sì».
    Non riuscivo ad immaginare nemmeno lontanamente come si sentisse, non avendolo mai vissuto sulla mia pelle. Tuttavia, provai a calarmi nei suoi panni e cercai le parole più adatte per tirarlo su. «Rilassati, pensa che qui non siamo davanti alle telecamere e nessuno ti giudica. Puoi essere te stesso, con noi».
    Mi sorrise, e fu un sorriso particolare, a labbra chiuse. Non era uno dei più felici che gli avessi mai visto fare, ma almeno era sincero.
    «Bea mi ha guardato come un pezzo di torta alla crema», disse, come volendo cambiare argomento.
    «Partendo dal presupposto che la crema non le piace, ha guardato tutti voi così. Sembra una ragazza particolare, all’inizio, ma è davvero una bella persona».
    Si guardò le mani giunte, i gomiti poggiati sulle ginocchia. «Dev’esserlo per forza, per essere tua amica».
    E quella frase al miele? Da dove gli era uscita?
    Mi trovai spiazzata e senza parole, incapace, come al solito, di gestire un pensiero carino verso di me.
    «Ragazzi, scusate se interrompo l’idillio, però dovreste ordinare», ci interruppe Bea. Bill ridacchiò, io sentii quell’interruzione come un pizzicotto fastidioso che mi riportava alla realtà.
    «Amica mia, che delicatezza», la presi in giro. «Chi ha l’onere di andare a prendere da bere, stasera?».
    «Io», rispose Didi, alzando una mano. «Stasera mi tocca». E si alzò, aspettando che ognuno di noi lo informasse sulle ordinazioni. Io ordinai un Bloody Mary, Bea un Long Island e i ragazzi quattro diversi cocktail che non avevo mai sentito nominare. L’ordinazione di Tom sembrò per lo più un grugnito, così scontroso e burbero che non riuscii nemmeno a capire cosa avesse detto.
    «Cosa prende al capo indiano?», domandai sottovoce a Gustav, mentre Bea e Georg erano impegnati in una conversazione che non stavo ad ascoltare. Dallo sguardo ammiccante e soddisfatto di lei, però, intuii che i toni sconfinassero per lo più nel flirt.
    «Questa non l’avevo mai sentita», ridacchiò Gustav, appoggiandosi allo schienale. «Lui e Bill hanno avuto una piccola discussione e quando succede il loro malumore riesce ad ammorbare anche l’aria. Non far caso a loro, è il modo migliore di divertirsi».
    «Oh», mi sentii sinceramente dispiaciuta. «Qual è il motivo?».
    Sguardo furbo ed enigmatico sorriso storto da parte sua. «Tu».
    La mia mascella non cedette come una tapparella rotta per dispensa divina. «Io!?».
    Annuì saggiamente. «Proprio tu».
    Non ero sicura di voler sapere il perché. La curiosità mi spingeva a porre quella domanda, ma una morsa all’altezza dello stomaco mi suggeriva che probabilmente era meglio tenere la bocca chiusa.
    Fortunatamente, a distogliermi dal quesito esistenziale, fu Didi, che comparve sulle scale, investito dalle lame di luci colorate continuamente in movimento. «Ecco i drink, gente, sbizzarritevi».
    Appena il terzo drink fu poggiato sul tavolino basso, Tom si allungò prima degli altri e lo prese, urtando involontariamente la mano del fratello.
    «Stai attento!», lo rimproverò Bill.
    «Questo è per Bea», Didi lo passò direttamente a lei, essendo più vicina, «e questo è alla piccola Sissi», me lo cedette.
    Oh, no.
    «Piccola Sissi?», Georg mi guardava perplesso e divertito. «Che storia è questa?».
    «È il soprannome che mi ha dato mia madre», spiegai senza troppe cerimonie, bevendo di tanto in tanto. «Ogni tanto qualcuno mi chiama ancora così». E quel qualcuno poteva essere solo Didi, o, al massimo, Bea, quando era in vena di tenerezze – praticamente una volta ogni due anni. Quel nomignolo era una delle pochissime cose che Aaron mi aveva rivelato di mia madre: per gli ultimi mesi della sua vita, i primissimi della mia, io non ero Elsa, ma la piccola Sissi. Contro ogni previsione, quando mi sentivo chiamare in quel modo non mi si aprivano vecchie ferite, anzi, riuscivo a sopportare abbastanza volentieri.
    Bill sembrò approvare, perché applaudì velocemente, sorridendo. «È molto dolce».
    «È squallido», sentenziò invece una voce dura e baritonale. «E non ti si addice per niente».
    Cercai una taglientissima risposta da rifilare a quel buzzurro, ma Didi fu più veloce di me: «è vero che forse non è il più indicato a lei, ma per noi, Elsa rimane Sissi», intervenne con la sua solita diplomazia.
    «Tom è l’ultima persona in grado di dire cosa si addice ad Elsa, comunque», fu il commento al vetriolo di Bill, che mi stupì, perché indirizzato al suo stesso fratello.
    «Tu sei un giudice supremo ed imparziale, invece, vero?».
    «Sarei più imparziale di te, poco ma sicuro».
    «Dipende dagli argomenti».
    Non mi piaceva la piega che stava prendendo la loro conversazione. Inoltre, sapere che il motivo di tanto astio ero io mi preoccupava il doppio.
    Bea si alzò in piedi, ergendosi nel suo metro e settantadue e si puntellò i fianchi con le mani. «Non osate rovinarmi il compleanno, ragazzini!», li rimproverò, e a Didi scappò una risata nasale. «Giro di ballo?», propose poi con entusiasmo.
    Sia io che gli altri, a parte Bill, avevamo finito i nostri drink, ma solo io e Didi ci alzammo. Vidi che i quattro rimanevano seduti e statici come soprammobili e mi appuntai che la prossima volta avrei dovuto portare un defibrillatore tascabile.
    La prossima volta?, strillò la mia parte razionale, indignata, non ci sarà una prossima volta!
    «Gustav, vuoi farmi l’onore di questo ballo?», chiesi con un sorriso allegro, ben consapevole di star andando contro tutte le convenzioni.
    Fummo interrotti dalla scena di Bea che, molto meno educatamente di me, trascinava un Georg abbastanza reticente per scale, diretta nella pista affollata. Didi la seguì senza aspettare noi: lui cercava solo compagni del suo sesso, e, bello com’era, non faticava mai a trovarne.
    Riportai lo sguardo su Gustav, che alzò le mani a mo’ di scusa. «Mi dispiace, sono costretto a declinare. Un tronco sarebbe più aggraziato di me», ammise.
    Bill appoggiò il suo bicchiere ormai vuoto sul tavolino e si alzò. «Vengo io, è lo stesso?».
    «Bill, tu non sai ballare!», strepitò Tom. Nella sua voce colsi rabbia, indignazione e se non l’avessi conosciuto, avrei detto che era geloso di Bill.
    «E allora? Ci vuole la licenza per divertirsi?», replicò, il sopracciglio inarcato. Poi guardò me, e ahimè, si vedeva lontano un miglio che non sapeva come destreggiarsi con inviti, ragazze e balli a ritmo di musica. Specie se le tre cose erano correlate.
    Decisi di toglierlo dall’impaccio. «Andiamo», mi avviai verso la scalinata, accertandomi con la coda dell’occhio che mi seguisse.
    Proprio mentre scendevamo, il classico tormentone da discoteca, No stress di Laurent Wolf, andò lentamente scemando, lasciando il posto ad una canzone lenta ed accattivante, dal ritmo ipnotico e sensuale. Riconobbi Sly dei Massive Attack già dalle prime note.
    «Mi piace questa canzone», osservai, quando giungemmo al centro della pista. Gli misi le braccia intorno al collo con una certa difficoltà, dato che era alto almeno venti centimetri più di me.
    «Io non la conosco», replicò lui, fingendosi più disinvolto di ciò che in realtà era. Lo capii dal modo in cui le mani si poggiarono sui miei fianchi, esageratamente leggere ed incerte.
    Fu con un movimento naturale ma poco fluido insieme che i nostri bacini scivolarono l’uno contro l’altro: ci ritrovammo così ad abbattere tutte le barriere fisiche che ci avevano sempre separati.
    Stai esagerando, mi avvertì la solita vocina antipatica.
    È solo un ballo, mi giustificai, domani sarà già tornato tutto come prima.
    «Hai due piedi sinistri», osservai, giusto per rompere l’imbarazzo che galleggiava sulle note di Sly.
    Ricevetti un sorriso consapevole in risposta. «Lo fai per sport o semplicemente ti diverti?».
    «A fare cosa?».
    «A demolire le persone».
    Non risposi immediatamente. Riflettei per una manciata di secondi, poi chiesi: «la cosa ti disturba?».
    Si schiacciò le labbra. «È il tuo modo di dirci che ci vuoi bene, quindi… no».
    Davvero era il mio modo di dimostrare affetto?
    Dal mio punto di vista, era solo una tecnica di difesa, di separazione dal resto del mondo, nulla di più. D’altra parte, se non avessi provato affezione per quei ragazzi troppo perfetti per essere veri, di certo non avrei sprecato fiato per difenderli di fronte ai miei amici.
    Feci scivolare una mano dalla nuca di Bill al suo petto, come a voler mettere qualcosa tra di noi. «Tu sei troppo attento».
    Scrollò le spalle, continuando a guardarmi negli occhi. «Sei la prima persona che me lo dice».
    Annuii a me stessa. «Certo. Ufficialmente sei immaturo, egocentrico e narcisista».
    Capii di averlo ferito appena ebbi smesso di parlare, e ne fui certa quando esaminai la sua espressione. Nello stesso momento, sentii qualcosa cadere con un tonfo all’altezza dello sterno.
    La musica terminò in quell’istante, fondendosi con un ritmo più sostenuto e rumoroso, dissolvendo l’atmosfera di poco prima.
    «Già». Bill mi sorrise in modo stentato e si congedò, lasciandomi al centro della pista, sola.
    Lo richiamai, ma fece finta di non sentire.
    Maledetta me e la mia lingua lunga!
    Mi diressi subito verso il nostro tavolo continuando ad imprecare contro me stessa: sentivo l’impellente bisogno di fumare. Trovai solo Gustav e Didi nella nostra area, intenti a chiacchierare, ma non chiesi notizie degli altri. Mi feci dare una sigaretta e riattraversai il locale costeggiando la pista, per poi infilare la scalinata che portava ai bagni pubblici e all’unico balcone del locale, a cui si accedeva tramite un corridoio stretto e abbastanza buio. Una volta fuori, inspirai, e l’aria pungente mi riempì i polmoni. Ora che non ero più immersa nella confusione, della musica ad altissimo volume era rimasto solo un vago rimbombare nelle orecchie.
    Mi appoggiai al parapetto, accedendomi la sigaretta.
    «Finito di civettare con mio fratello?».
    Mi spaventai seriamente, più del solito, e mi cadde la sigaretta oltre la balaustra. Mi voltai con il cuore che batteva all’impazzata: vidi Tom che fumava, appoggiato al muro, e un bicchiere mezzo pieno di un liquido ambrato sull’unico tavolino impolverato di fronte a lui.
    La luce del lampione di fronte a noi si rifletteva sulla sua pelle evidenziandone la patina di sudore.
    «Che ci fai qui?», domandai. Non avevo idea del perché, ma mi tremavano le gambe e mi sentivo leggermente agitata. Qualcosa in Tom – nel suo atteggiamento – m’inquietava.
    «Forse mi sono rotto le palle di vederti fare la gatta morta con mio fratello, che dici?».
    «Io non stavo affatto facendo la gatta morta», ringhiai, allibita, «e anche se fosse, non dovrebbe interessarti».
    «Non mi frega niente di te, infatti», alzò gli occhi furiosi su di me, come a voler sottolineare quello che stava dicendo, «ma non voglio che mio fratello si prenda una sbandata per una come te».
    C’erano così tante offese in ciò che aveva appena detto, che mi sentii come se fossi appena stata investita da un camion.
    «Una come me? Che accidenti sai tu di me?», chiesi arrabbiata, ad un passo dall’urlare.
    «Sei falsa ed egoista, questo basta».
    Fu come essere schiaffeggiata da un pugile e mi sentii furiosa, in preda ad una rabbia cieca. Forse per ciò che mi aveva detto, o forse per l’affronto di essere stata insultata proprio da lui, che era l’ultima persona in diritto di farlo.
    «No, forse mi stai confondendo con te», mi difesi.
    Mi si avvicinò in un baleno, con passo appena instabile, e mi schiacciò tra lui e il parapetto. Sentii di nuovo il battito accelerato del mio cuore e deglutii.
    «Mi sono rotto di sentirti sputare sentenze su qualcosa che non puoi capire», ringhiò, a pochi centimetri dal mio viso. Il suo alito sapeva fortemente d’alcool.
    «Hai bevuto troppo», feci un piccolo passo verso destra, con l’intento di avvicinarmi al vecchio tavolino, continuando a sostenere il suo sguardo.
    «Ah, ora avrei bevuto troppo», sibilò, «adesso ti manca anche il coraggio di ammettere la verità».
    «Di cosa parli?!».
    «Non stavi sparlando di me con Georg, oggi, vero?», mi urlò in faccia, «non ti sei divertita ad umiliarmi davanti a tutti, il primo giorno, vero? Non t’interessa nemmeno che mio fratello mi abbia dato dell’insensibile e dell’egoista! Non ti è mai fregato un cazzo di nessuno, ti basta sputare i tuoi pareri velenosi come capita per sentirti realizzata e per fare la grande! E poi io sarei quello falso ed egoista!». Batté una mano sul ferro della ringhiera con violenza, facendola vibrare.
    A quel punto non sapevo se ero più dominata dalla rabbia o dalla paura. Probabilmente da entrambe in uguale misura. Istintivamente, allungai un braccio, afferrai il bicchiere abbandonato sul tavolo e ne lanciai con forza il contenuto sul viso di Tom.
    Gli scappò un urlo strozzato e si portò le mani agli occhi; io ne approfittai per divincolarmi e scappare via. Non avevo idea di ciò che stava succedendo, tremavo tutta e volevo andare via. Non feci neanche tre metri, perché sentii delle dita che mi afferravano violentemente un braccio, stringendo fino a farmi male.
    Tom mi voltò verso di lui, afferrandomi anche l’altro braccio e sentii di nuovo quella voglia di prenderlo a cazzotti che lottava con l’istinto di fuggire.
    «Lasciami!», abbaiai, e se avessi avuto le braccia libere lo avrei picchiato.
    I suoi occhi annebbiati mi fissarono con la forza di un trapano a percussione. Passò sì e no un secondo, poi, mi attirò a sé e mi baciò.
    Fu un bacio violento, duro, quasi doloroso. Insinuò la lingua nella mia bocca prepotentemente e io mi trovai senza la forza e la possibilità di spingerlo via, imprigionata nelle sue mani. Mi spinse contro il muro del piccolo corridoio, impedendomi di fare nulla se non di acconsentire alla sua prepotenza.
    Mi liberò le braccia dopo qualche secondo, approfittando della mia arrendevolezza, e intrecciò le dita nei capelli sulla mia nuca, attirandomi verso di lui. Mi baciò in modo ancora più feroce, ancora più affamato.
    Di nuovo, ero divisa in due. Stavo baciando Tom con lo stesso trasporto che aveva lui, stavo cedendo quasi del tutto, ma un’altra parte di me era disgustata da quel modo di fare. Non so con quale forza, ma feci scivolare i palmi delle mie mani sul suo petto e lo spinsi via con tutta la forza che avevo.
    Vidi fuggevolmente che finiva contro l’altra parete del corridoio stretto, poi corsi di nuovo verso le scale con il battito anormale del cuore che rimbombava nelle orecchie.
    «Elsa!». La sua voce proveniva da lontano, non mi stava seguendo. Ed era roca, bassa, come se fosse quella di un malato.
    Mi voltai di scatto verso di lui, solo una sagoma i cui colori e forme si intravedevano a malapena a causa del buio. Era piegato su se stesso e si teneva una mano sullo stomaco. Mi guardò in un modo che non so descrivere, prima di vomitare una fontana di bile.
     
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