Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Capitolo 4

    «Svegliati, dormigliona!».
    Improvvisamente il confortante e morbido tepore delle mie lenzuola e della trapunta mi venne strappato, e rimasi in preda al freddo. Mi raggomitolai su me stessa, aggrappandomi con tutte le mie forze al mio cuscino e agli ultimi brandelli di incoscienza.
    «Ti butto giù dal letto, sai?».
    Riconobbi la voce di Bea nello stesso momento in cui desiderai stritolarla. Rimasi immobile e con gli occhi chiusi, stringendo il mio cuscino come se potesse farmi scampare alla sua furia.
    «D’accordo, l’hai voluto tu».
    Le sue dita cominciarono a solleticarmi i fianchi e io presi a contorcermi e a ridere, così forte da lacrimare, supplicandola di smettere. A quel punto fu chiaro a Bea che ero completamente sveglia, anche perché per sfuggire al suo dannatissimo solletico mi ero fiondata fuori dal letto.
    «Tu!», le puntai contro un dito e la incenerii con lo sguardo. «Dimmi cosa ci fai a casa mia di domenica mattina, e a quest’orario indecente, per giunta!».
    «Mancano sei giorni al mio compleanno, sono le nove e dobbiamo andare al centro commerciale per prendermi il vestito adatto», mi spiegò, per niente intimorita.
    «E ovviamente venire un paio d’ore dopo per consentirmi di dormire le mie sante otto ore era proprio impossibile», borbottai, uscendo dalla mia stanza e andando in bagno, e Bea mi seguì come un cagnolino fino alla porta.
    «Devo fare pipì, almeno in bagno ce l’ho un po’ di privacy?» berciai burbera e assonnata e sbattei la porta senza nemmeno aspettare una risposta.
    «Sai che di prima mattina sei perfino più simpatica del solito?», domandò Bea da dietro la porta
    «Ma davvero? Tu resti la rompipalle di sempre, invece».
    «Tanto lo so che mi ami anche per questo», replicò leziosa, prima di cambiare improvvisamente tono: «sbrigati, non ho tutta la mattinata libera e devo ancora decidere cosa metterai».
    Ringhiai contrariata e mi infilai nel box della doccia. Dopo essermi lavata, mi pulii i denti e uscii dal bagno, diretta in camera mia.
    La mia deliziosa amica, che quel giorno aveva scelto un paio di jeans a righe bianche, un accollato vestito blu che le arrivava fin sopra alle ginocchia e stivali texani maschili, stava trafficando nel mio armadio, alla ricerca di qualcosa da farmi mettere.
    Io mi buttai sul letto disfatto e seppellii la mia testa sotto il cuscino. «Ma esci con Didi, no? Io non ne ho voglia».
    «Didi sarà tornato alle quattro di stamattina, come minimo. Ha più bisogno di dormire di te».
    Ecco cosa succedeva a vivere a stretto contatto con gli amici: niente privacy e programmi puntualmente cambiati.
    Squillò il telefono fisso della cucina.
    «Vado io», si offrii Bea, «tu intanto vestiti. E mettiti qualcosa di guardabile, per carità».
    Mi trascinai vicino all’armadio mentre lei spariva nel corridoio e ovviamente scelsi ciò che Bea avrebbe evitato come la peste, perché troppo poco appariscente: un paio di calze pesanti, comuni jeans chiari e un maglione a collo alto. Li indossai prima che la mia amica avesse il tempo di vederli a portata di mano e cedere all’impulso di gettarli in una tritatutto. Tornò mentre tentavo di infilarmi i grossi calzini di pelo dal verso giusto. Mi ero preparata alla sua possibile sfuriata, invece lei restò a guardarmi, seria in modo preoccupante, con il cordless premuto contro il petto da una mano e le labbra contratte.
    «È tuo padre, vuole parlarti», sussurrò.
    Dentro di me desiderai fuggire via come un coniglio. «Digli che sto dormendo», sibilai.
    «Non posso dirgli che stai dormendo, gli ho già detto che sei sveglia!».
    Mi alzai dalla sedia girevole e presi il cordless, portandomelo subito all’orecchio. «Buongiorno, papà», salutai educata e con il cuore già in subbuglio.
    «Buongiorno, Elsa. Hai passato una buona notte?». La sua voce autorevole mi riempì la testa, asettica e distante come se fosse registrata.
    «Perfetta, grazie», risposi nello stesso tono. «A cosa devo questa telefonata?».
    «Io, tuo fratello e Annika pranziamo fuori, oggi, insieme ad alcune persone molto importanti», m’informò.
    «Mi fa piacere. E io cosa c’entro?». Non potei far a meno di piazzare in quella domanda un po’ d’astio, solo un vago riflesso di tutto il rancore che nutrivo verso la mia famiglia.
    «Fosse per me, non c’entreresti nulla, ma devi esserci anche tu, purtroppo. Hanno espressamente chiesto la famiglia al completo».
    Crollai sul letto, il telefono ancora accostato all’orecchio e mi sentii il cuore strizzato in un pugno. Che accidenti se ne fregavano gli “illustri ospiti” se mancava qualcuno all’appello?
    «D’accordo», capitolai, tanto discutere con lui era inutile. «Per che ora devo venire?».
    «Per un’ora accettabile, suppongo. Non conosco i tuoi standard».
    Alzai gli occhi al cielo e soppressi l’istinto di rispondere a quella frecciatina implicita. «Okay».
    «E, Elsa?», mi richiamò.
    «Sì?».
    «Non abbigliarti da comune contadina come fai di solito, per favore. Cerca almeno di assomigliare ad una persona del nostro circolo».
    Strizzai forte gli occhi, sopprimendo un’altra rispostaccia. «D’accordo, ciao», e chiusi la comunicazione.
    Bea mi guardava preoccupata, appoggiata allo stipite della porta, in attesa che dicessi o facessi qualcosa.
    Rimasi immobile per qualche secondo, poi mi alzai e sbattei il cordless sul letto con tutta la forza che avevo. «Stronzo», sussurrai, immaginando che il telefono fosse proprio lui.
    «Che ha detto?», mi chiese Bea.
    «Ha detto che devo pranzare con loro e altri stupidi figli di papà che passano da quelle parti», ringhiai con i denti scoperti. «Capisci? Non si sono fatti vivi per tre mesi, nemmeno una telefonata per sapere se sono viva, adesso mi chiama e mi dice che devo stare con loro, e non solo! Mi chiede pure di “cercare di assomigliare” ad uno di loro. Preferirei prostituirmi, piuttosto che essere come lui e tutto il suo stupido mondo del cazzo!». Ero talmente furiosa che sferrai un calcio al letto.
    «Calmati», mi ammonì Bea, tranquilla. Mi venne incontro e mi circondò con le sue braccia. Probabilmente voleva abbracciarmi, invece io mi sentivo ingabbiata e repressa dalle sue mani che mi stringevano. Non volevo calmarmi. Volevo prendere a pugni tutto, me stessa per prima, perché la voce di mio padre, che mi aveva parlato come si parla alla più abietta delle persone, era la stessa che sentivo nella mia testa come un continuo ronzio, la stessa che mi ricordava quanto non fossi quello che lui voleva, quanto fossi inadeguata e insignificante.
    «Ascoltami», cominciò Bea dopo che ebbe appurato che mi ero acquietata. In realtà non mi ero calmata affatto, stavo solo crollando sotto tutto il dolore che quei pensieri mi provocavano. «Adesso usciamo, così ti distrai, e prendiamo anche un bel vestito per te. Quando tuo padre ti vedrà sarai così splendida che si rimangerà tutto ciò che ti ha detto».
    «Ho detto che non voglio fargli pensare di essere come lui. Preferisco rimanere come sono».
    «Certo, ma almeno terrà la bocca chiusa. No?». Mi fece l’occhiolino e mi sorrise per darmi coraggio.
    Le sorrisi di rimando, anche se farlo mi costava moltissimo. «Dai, andiamo».
    «E ringraziami perché ti do il consenso di uscire vestita così».
    Non replicai alla sua battuta, non ne avevo proprio la forza. Lasciai un biglietto per Didi, che abbandonai sul suo comodino e uscii da casa mia con Bea.
    Al centro commerciale, dopo aver girato due ore per negozi di abbigliamento, cosmetici e scarpe, Bea diede veramente il meglio di sé: scelse un estroso corpetto viola, rigido, decorato da una fantasia floreale di pizzo nero, che si chiudeva sulla schiena tramite dei laccetti argentati così sottili da sembrare piccoli fili di luce; una gonna di velluto color pece con delle sfumature prugna, terminante appena sotto le ginocchia, sobria abbastanza da mitigare l’effetto provocatore del corpetto, e stivali con tacchi alti e spessi.
    Il risultato finale era un frullato di vari stili, ma c’era da ammettere che faceva il suo effetto, specie grazie al contrasto cromatico con i capelli biondi e gli occhi chiari di Bea.
    Per quanto mi riguardava, non scelsi nulla di troppo appariscente: un semplice vestito ocra a maniche lunghe, poco scollato, sui cui contorni erano disegnati fiori blu di corallini e perline.
    Non si avvicinava nemmeno lontanamente al mio stile, ma per l’occasione era “adeguato”, come avrebbe detto la voce austera del mio adorabile paparino. La parte più difficile, comunque, erano le scarpe: decolleté beige, con un tacco di tredici centimetri, paurosamente sottile.
    Verso mezzogiorno passato tornai a casa e cominciai a fissare il mio vestito, adagiato sul mio letto, e quegli strumenti di tortura cinese che facevano passare per scarpe.
    «Beh?», mi disse Bea, entrando in camera con due bicchieri di acqua e menta in sciroppo. Me ne diede uno e bevvi un sorso, continuando a guardare perplessa i vestiti.
    «Io non metterò mai questa roba», decisi pacata.

    «Ahia!».
    «Smettila e allacciati quel cinturino».
    «Ma se mi fanno male solo stando seduta, non oso immaginare…».
    «Elsa, allacciati quel cinturino».
    Smisi di protestare con un sonoro sbuffo, giusto per far sentire in colpa Bea – che comunque non si sarebbe mai sentita in colpa –, e mi chinai sul cinturino anteriore delle mie scarpe. Lo allacciai e mi sollevai appena a guardare i mostri che avevano fagocitato i miei piedi: li avrei odiati, lo sapevo.
    «Brava. Adesso alzati, lentamente».
    Le lanciai un’occhiata che avrebbe potuto incenerirla. «Potresti anche evitare quel tono, sai? Non mi aiuta».
    «Quale tono?».
    «Quello che si usa con i bambini dell’asilo».
    Bea si morse le labbra alzando gli occhi al cielo, probabilmente per evitare di ribattere. Io, a malincuore, seguii il suo consiglio e mi alzai, cercando un equilibrio su quei bastoncini per spiedini. Appena mossi un passo, un allucinante dolore s’irradiò con la velocità di un fulmine nella caviglia su cui stavo poggiando il peso.
    Ma perché, perché dovevo per forza mettere quei trampoli e rinunciare alle mie amatissime ballerine? Stavo per scoppiare in lacrime da un momento all’altro, ne ero sicura.
    «Voglio morire», decretai.
    «Per quello c’è tempo. Cammina un po’ per la stanza».
    Sbuffai pesantemente, offesa. «Ma come fai a parlarmi così? Non hai un briciolo di cuore», piagnucolai in direzione di Bea.
    «Perché sono sadica, cinica e refrattaria ai tuoi lamenti, ovvio».
    La ignorai e cominciai a passeggiare lentamente per la mia stanza, approfittandone per rimettere un po’ d’ordine sulla scrivania di fronte al letto e sul letto stesso, dove gli strati di indumenti erano una sorta di decorazione permanente del mio piumino.
    «Non te la cavi poi così male».
    Certo, volendo, non me la cavavo affatto male. Dopotutto, dai quattordici ai diciassette anni la mia scarpiera era stata piena di quei sandali e scarpine con tacchi vertiginosi. Poi i miei gusti erano drasticamente cambiati e avevo regalato tutto alla mia vicina quattordicenne, amante e spasimante di quel genere di scarpe. Com’è vero che in fondo noi esseri umani siamo tutti banalmente uguali.
    «Che succede qui?». La voce assonnata di Didi mi arrivò come un’ancora di salvezza e mi voltai istantaneamente verso di lui, che era in boxer – arancioni con motivi floreali verdi e rosa confetto, precisiamo – sulla soglia della mia stanza, intento a stropicciarsi un occhio.
    «Didi! Oh, sei la mia salvezza!». Schizzai verso di lui, correndo il rischio di rompermi una caviglia, e gli presi entrambe le mani, guardandolo implorante. «Ti prego, ti scongiuro, guardami, dimmi che sono ridicola e costringimi a cambiarmi!».
    Mi restituì uno sguardo assonnato e vagamente perplesso. «Perché?».
    «Pranzo in famiglia», spiegò brevemente Bea, e Didi comprese tutto al volo: lo capii dalla sua espressione.
    «Già, papà ha deciso di farmi un’improvvisata, con tanto di improvvisate, simpaticissime battutine».
    Si sforzò di essere serio nonostante il trauma del brusco risveglio. «Ah». Mi guardò per circa cinque secondi, squadrandomi da capo a piedi e poi curvò le labbra in una mezza piega soddisfatta: «stai benissimo così».
    «Non ci posso credere!», esclamai oltraggiata. In qualche vago modo speravo che Didi mi facesse guadagnare un po’ di tempo, o che me lo facesse perdere, a seconda dei punti di vista. L’ultima cosa che volevo era passare tre spaventosissime ore in compagnia del mio adorato paparino, il mio ingessatissimo fratellone, la mia simpatica matrigna e qualche tronfio, pelato, meschino, conservatore riccone.
    Mi esaminai allo specchio a muro collocato dietro la porta, spostando Didi con una manata poco gentile. Mi costrinsi ad ammettere che non stavo poi così male e scoprii che era il motivo per cui stavo facendo tutto questo ad irritarmi a morte.
    Non andare, mi suggerì la vocina della parte più volubile di me. Sapevo che quella giornata mi sarebbe costata dieci anni di vita, almeno. Sommati a tutti quelli che perdevo ogni giorno, a fare da tata a quei quattro scapestrati, mi rimanevano ad occhio e croce altri tre anni da vivere. Perfetto.
    «Non per turbare il tuo karma interiore, zucchero, ma se resti lì a guardarti arriverai in ritardo».
    Tipico di Bea essere dura e diretta nei momenti in cui il primo istinto è quello di volere coccole e comprensione. Forse era strano, ma quella sua risolutezza nei momenti difficili mi aiutava molto più delle effusioni e delle carezze, e lei lo sapeva. Quindi, feci un respiro profondo, afferrai la borsetta – io con la borsetta, cose dell’altro mondo – e uscii dalla mia stanza.
    Nel momento esatto in cui afferrai il pomello della porta d’ingresso, avvertii il bisogno impellente di un abbraccio. Un abbraccio, come quelli che le mamme danno ai loro figli. E mi sentii spezzata in due, perché io non avrei mai avuto l’abbraccio di una madre che non avevo nemmeno mai conosciuto.
    Mi voltai appena verso Didi per chiederlo a lui, ma ovviamente non avrei mai pugnalato così alle spalle il mio orgoglio. Sorrisi ai miei due amici e uscii di casa.
    «Ce la posso fare», mi dissi, mentre guidavo verso villa Fränze. Avvistai il piano più alto della villa di mio padre, poi vidi il cancello aprirsi quasi magicamente quando la mia auto vi si fermò davanti, e fui certa che quella non sarebbe stata affatto una giornata facile.
    Percorsi con l’auto il viale cementato che conduceva direttamente al garage per le altre auto. Mio padre, come qualsiasi avvocato di fama nazionale che si rispettasse, aveva la passione esagerata per le cose costose. Non gli andava mai bene niente di qualsiasi cosa, era austero e gli si scuciva un complimento solo se veniva pagato. Letteralmente, perché, come qualsiasi avvocato, era un mercenario. Un mercenario costoso ma particolarmente capace, che sapeva tenersi buoni i suoi clienti.
    Arrivata al garage sotterraneo, parcheggiai la mia modesta C3 accanto alla sua Mercedes classe M, che copriva con la sua mole massiccia un’altra grossa auto, che associai istintivamente all’”ospite illustre”, come l’aveva soprannominato la mia mente. Presi la mia borsetta, lanciai un’altra rapida occhiata alla mia immagine riflessa nello specchietto e scesi dalla mia macchina.
    Non sarà mica la fine del mondo, mi dicevo, mentre prendevo l’ascensore che portava al piano terra della villa. Ogni secondo del tempo che passavo da quando avevo messo piede fuori di casa era scandito da diverse ondate di diversi ricordi, che mi ricordavano con brutale crudeltà tutti i miei vuoti. Il primo, il più doloroso, quello che non mi aveva mai lasciato e che non mi avrebbe lasciata mai, era la mia famiglia – se famiglia si poteva chiamare.
    L’ascensore si fermò e si aprì sul grande ingresso della villa, mostrandomi un mobile in legno massello cesellato con su un telefono e un angolo del prezioso tappeto persiano che si poggiava sul pavimento di granito lucidissimo. Ma fu ciò che stava sopra al mobile di fronte a me che mi distrasse e mi attrasse come se mi tirasse con una corda. Una cornice appesa al muro, che conteneva la foto di mia madre e mio padre, giovani, appena sposati. Uscii dall’ascensore e mi avvicinai per esaminarlo meglio, come facevo ogni volta. Lo sfondo era uno dei più classici: prato inglese sotto i loro piedi, cielo azzurro, un albero rigoglioso e fronzuto dietro, sulla sinistra, e lo scorcio verde di un lago. E c’era mia madre, sorridente e bellissima, che stringeva la mano di quell’uomo che faticavo tanto a riconoscere come padre. Non troppo alta, bionda, con la coppia di occhi grandi e scuri che aveva regalato anche a me. E un sorriso talmente sincero che spinse a sorridere anche me, che mi fece provare l’istinto di allungare la mano e toccare la sua faccia con le dita.
    Percepii sensibilmente una fitta nel torace, in alto, appena a sinistra.
    Mia madre si chiamava Gabriella, come il mio secondo nome. Diede alla luce mio fratello e, passati tre anni, scoprì di avere un cancro al midollo appena pochi giorni dopo che seppe di essere incinta di me. Scelse di non curarsi, di non operarsi, di morire per darmi alla luce. Non avevo idea di che persona fosse – mio padre non conversava mai con me volentieri, figurarsi se si metteva a conversare con me a proposito di lei – ma immaginavo che una persona che rinuncia alla propria vita per quella di qualcun altro fosse così straordinaria, così altruista, così buona da essere quasi irreale.
    «Stare lì a fissarla non la farà tornare in vita».
    Sobbalzai chiudendo gli occhi, una mano scattata sul cuore per contenere lo spavento. Mio padre mi affiancò e iniziò anche lui a contemplare la cornice nello stesso religioso silenzio in cui la guardavo io. Lo fissai con la coda dell’occhio, attenta a memorizzarne ogni particolare, perché lo vedevo così raramente che ogni volta in cui capitava i cambiamenti erano quasi sensibili: era alto – almeno quindici centimetri più di me – con i capelli biondi cosparsi di qualche filo grigiastro appena sopra le orecchie e sulla nuca. Il naso dritto e fiero, le spalle larghe, l’atteggiamento austero e distaccato di chi ha sempre una visione chiara e razionale su tutto.
    «Se solo non avesse deciso di buttare alle ortiche la sua vita…».
    Mi correggo: quasi su tutto. Mia madre era l’unica persona che lui aveva amato completamente, sinceramente più di se stesso, e vedeva in me, la figlia che non doveva nascere, una sorta di assassina che gliel’aveva strappata via. Per questo motivo e per altri, per lui ero solo un incidente di percorso, che sarebbe stato meglio non far esistere.
    «Già, che spreco…», ironizzai amaramente, abbassando la testa. La mia faccia tosta, la mia cocciutaggine, la mia lingua al vetriolo, tutto di me crollava miseramente di fronte a lui, che era l’unica persona che non ero in grado di fronteggiare. Forse perché una parte di me sperava ancora che mi riconoscesse come figlia.
    «Infatti». Cinico, duro e doloroso come pugno in pieno stomaco. Dedicò la sua preziosa attenzione a me, guardandomi dalla testa ai piedi, scandagliando attentamente il mio aspetto e la mia coda laterale adagiata su una spalla.
    «Potevi adattare anche i tuoi capelli all’ambiente. Così sembri una campagnola camuffata da signora».
    Non risposi e sospirai.
    «Ma ora andiamo. Gli ospiti attendono».
    Mi voltai indietro e percorsi il corridoio che portava alla sala da pranzo senza dire una parola. Sentii del chiacchiericcio confuso quando giunsi sulla soglia della grande porta di legno e vetrate. La feci scivolare di lato, silenziosamente.
    Ciò che vidi mi sconvolse come un tornado.
    Due persone mi davano le spalle, sedute al grande tavolo circolare. Dei capelli neri, striati da cordoni bianchi che scendevano morbidamente su una schiena lunga e sottile, fasciata di nero. E dei vestiti oversize, una maglia gialla e nera dal cui foro sbucavano un collo sottile coperto da treccine nere e un capo perfettamente regolare.
    No.
    Non era possibile. Quei due tizi lì non potevano essere chi pensavo che fossero. Mi voltai verso mio padre che mi stava raggiungendo, guardandolo probabilmente con un’espressione spiritata.
    «Sì?».
    «Chi sono quelli?», sibilai, sforzandomi di contenere il tono di voce che rasentava gli ultrasuoni.
    «I miei migliori clienti, Bill e Tom Kaulitz», mi rispose automaticamente, confuso da tutto quell’interesse. La sua risposta mi dimostrò che effettivamente quei due erano proprio chi non volevo che fossero.
    «E perché sono qui?».
    «Da quando ti interessa quello che faccio?».
    «È importante».
    Sospirò, annoiato. Lui non sbuffava, no. Lui sospirava. Un sospiro era molto più aristocratico di un volgare sbuffo. «Mi hanno contattato per informarmi di un loro problema con delle ragazzine che li pedinano, così li ho invitati qui per un pranzo informale».
    Cosa?! I gemelli Kaulitz erano vittime di stalking e io non ne sapevo niente? Perché?
    «Capisco che tu sia sorpresa, fanno parte di un gruppo musicale molto famoso. Probabilmente uno di quei gruppetti che piacciono a te».
    Figurarsi se mio padre non fraintendeva le mie parole; e figurarsi non approfittava della situazione per denigrare la mia passione per la musica. Lui aveva sempre odiato la musica, all’infuori di quella classica, e anche questo argomento era stato motivo di scontro in passato. Avrebbe voluto che scegliessi la via del diritto, come Joseph, mio fratello, invece avevo seguito le mie inclinazioni e fatto di testa mia, come al solito.
    Mi superò e varcò la soglia del salotto, io che lo seguivo docilmente, come se dovessi andare al patibolo.
    «Finalmente!», sentii dire da una voce femminile adulta, ma acuta quando bastava ad irritarmi. Apparteneva ad Annika, la mia matrigna, che aveva conosciuto mio padre due anni prima ad un congresso di avvocati e aveva pensato bene di inserirsi nel nostro quadretto familiare, che comprendeva una situazione economica piuttosto florida.
    Non guardai il favoloso duo, anzi, mi sforzai di non farlo, e salutai la mia bionda matrigna dal volto più spigoloso di una figura geometrica con garbo. «Buongiorno a tutti, scusate il ritardo».
    «Joseph non ci raggiungerà, è stato trattenuto a lavoro da un imprevisto», annunciò Annika.
    Meno male. Un imbecille in meno a cui pensare. Non che volessi male a mio fratello, ma, parlando sinceramente, era fatto con lo stampino dei Fränze, e a me lo stampino dei Fränze non piaceva.
    Mi sedetti al tavolo, avendo cura di guardare solo in basso e non incrociare gli sguardi dei gemellini, fortunatamente rimasti in silenzio.
    «Bill, Tom, vi presento Elsa».
    Non mi presentò come sua figlia, e questo mi fece male più di uno schiaffo in pieno viso.
    «Sì, Aaron, abbiamo già avuto modo di conoscerla». Fu la voce strafottente di Tom a parlare, e io alzai di scatto due occhi sorpresi su di lui.
    «Davvero?», chiese mio padre sorpreso.
    «Ci aiuta nella composizione del nostro nuovo album», disse Bill sorridendomi apertamente.
    Io risposi al sorriso con un’occhiataccia: non volevo che mio padre sapesse qualcosa della mia vita. Anche involontariamente.
    «Ma che sorpresa!», cinguettò Annika mentre la governante ci serviva gli antipasti. «Elsa, perché non ci hai detto niente?».
    «Infatti», Tom incrociò le mani sul tavolo, sporgendosi appena verso di me, il suo solito sorrisetto bastardo dipinto in viso, «è stata una vera sorpresa scoprire le tue origini».
    Mio padre tossicchiò, e sicuramente in quel momento si stava vergognando di me e quello che ero come un ladro. Io, dal canto mio, realizzai solo in quel momento che i Kaulitz non erano stati affatto sorpresi di vedermi e ciò oscurò perfino il dolore per il gesto di papà. Bill non aveva fatto considerazioni imbarazzanti, Tom non mi aveva pungolata con le sue dolci frasi affettuose. Subito ricollegai la volontà degli “illustri ospiti” di volere a tutti i costi la famiglia riunita e capii tutto.
    Luridi bastardi!, pensai inviperita, lanciando saette a Tom, che mi sorrideva serafico dalla sedia di fronte. Gliel’avrei fatta pagare, lo promisi a me stessa.
    «Non dovevate parlare ad Aaron di una questione importante?», berciai, afferrando con le mani una bruschetta dal mio piatto. Annika e mio padre probabilmente mi guardavano scandalizzati, o si impegnavano per non guardarmi, comunque non me ne curai affatto. Le bruschette, le avevo sempre mangiate con le mani e non avrei smesso di certo quel giorno.
    «Sì», Bill si pulì le labbra con il tovagliolo. «Stiamo avendo problemi con delle fan eccessivamente… volenterose», spiegò con diplomazia.
    «In che senso “eccessivamente volenterose”?», domandò mio padre.
    «Nel senso che se potessero conterebbero anche le volte in cui andiamo in bagno e perché», s’intromise Tom.
    «Ma non è questo il problema», riprese Bill, «siamo abituati a cose del genere. Ma hanno coinvolto la nostra famiglia e ci minacciano per un album che comunque non uscirà tanto presto».
    «Sono fanatiche, e sono pericolose».
    Non avevo mai visto i ragazzi così seri e preoccupati. Sembrava che per la prima volta qualcosa di reale e palpabile avesse davvero intaccato la patina di irrealtà che li aveva sempre avvolti. Restai in silenzio, ad assimilare le informazioni che si stavano scambiando.
    «Spiegate in cosa consistono queste minacce e in che modo hanno toccato i vostri parenti», disse mio padre pratico.
    Bill appoggiò la parte concava della forchetta sul bordo del piatto vuoto, senza far rumore. «Biglietti. Auto rigate. Anche incontri ravvicinati che per poco non sono sfociati nella violenza. Inizialmente pensavamo fossero ragazzine che si divertivano, ma adesso la situazione sta sfuggendo di mano».
    «Vi seguono anche allo studio di registrazione?», azzardai a domandare e la voce mi uscì più stridula di quanto volessi.
    «Sì», rispose Bill, «soprattutto lì. Si sono anche introdotte abusivamente».
    Mi lasciai scappare un’espressione spaventata. Perché non mi avevano detto niente? Non seppi spiegarmi perché, ma quel loro silenzio mi fece sentire molto ferita.
    «Stalking, minacce e danni ai beni privati sono reati, ovviamente», asserì mio padre con calma. «Ma preferirei parlare di questo con il vostro manager, prima di alzare inutili polveroni. Se non sbaglio avete detto di voler restare fuori dai riflettori, per ora».
    «Sì, ma ci siamo un po’ scocciati di questa situazione. Vogliamo vivere la nostra vita e la produzione di questo album più serenamente possibile e quelle fanatiche non ce lo permettono. Non riesco a restarmene calmo nel mio angolino a guardare», sbottò Tom.
    «Non ho detto questo», si difese mio padre.
    «Ma ha espresso questo concetto. Cosa vuole che c’entri Jost in tutto questo? Non è lui il nostro avvocato, mi pare».
    «Si calmi, signor Kaulitz», intervenne Annika, ovviamente a sproposito. La governante intanto portava via i piatti da sotto il nostro naso e io mi pulii le mani al tovagliolo che avevo sulle gambe. Per quanto mi riguardava, per la prima volta potevo dirmi d’accordo con mio padre. Che senso aveva sollecitare la stampa e provocare impatti mediatici inutili?
    «Non sono uno sprovveduto, so quello che faccio. Per ora giudico opportuno non solleticare l’attenzione dei media su questa storia e cercare di risolverla nel modo più silenzioso possibile. Per questo ho bisogno di parlare con il vostro manager e i curatori della vostra immagine».
    Tom non demorse. «Per quanto mi riguarda, non me ne frega niente di quello che penseranno i giornali. Non tollero che le persone a noi care paghino per le nostre scelte».
    «Esatto», si trovò d’accordo Bill, che annuiva ad ogni parola del fratello e per la prima volta non criticava il suo livore.
    Mi estraniai dalla realtà e cominciai a mangiucchiare il primo che mi era stato appena servito, senza curarmi di cosa fosse. Non avevo mai sentito i Kaulitz parlare così. Tom, in particolare: non voleva che la sua fama si ripercuotesse sulla sua famiglia, questa era l’idea che traspariva dalle sue parole. Pensavo che una persona egoista, opportunista e immatura come lui non potesse pensare a nessun altro se non se stesso. Forse li avevo sottovalutati.
    Scossi la testa impercettibilmente, scacciando prontamente quei pensieri. Non erano affari miei, comunque, no? Io ero la loro sound editor e basta, finiva lì la questione. Non esistevano solidi rapporti di amicizia, tra noi, di certo non ero una persona ideale con cui sentire un feeling immediato. L’avevo voluto io, era una delle regole che avevo imposto dall’inizio. E allora perché mi sentivo così… sola? Tutte le mie difese mi si stavano ritorcendo contro?
    Non so quanto tempo passai lontana dal pianeta Terra, rimuginando su quei pensieri, ma ad un certo punto avvertii un tocco gentile sul braccio, che mi fece alzare gli occhi dal mio piatto – dove vidi che c’era della frutta e capii che avevo passato tutto il pranzo in silenzio –, e ricollegare alla realtà. Bill si era sporto verso di me e mi stava guardando con un sorriso gentile.
    «Tutto bene?».
    «Certo», risposi prontamente, ritraendo il braccio. Avvertii disperatamente il bisogno di darmela a gambe e scappare fino a casa.
    «La signorina Annika ti ha fatto una domanda», mi disse Tom, il solito tono sgarbato, ma quel “signorina Annika” per poco non mi fece rotolare a terra dalle risate, considerando che la signorina aveva cinquantadue anni suonati.
    «Annika, lasciala in pace», suggerì mio padre, ansioso di tenermi fuori da ogni conversazione per scongiurare brutte figure.
    L’istinto adolescenziale di vendicarmi della sua indifferenza ebbe la meglio e mi esibii nel mio miglior sorriso di plastica. «Ma no, dimmi pure, Annika».
    «Ti trovi bene a lavorare con i Tokio Hotel?».
    Stavo per rispondere, ma Tom mi precedette: «certo, si è instaurata una bellissima amicizia tra noi. Vero, Elsa? Riusciamo a collaborare in modo idilliaco».
    Mio padre mi guardò contrariato e deluso. «Un atteggiamento scorretto e poco professionale. Devi guadagnare i soldi che percepisci, non estorcerli grazie all’amicizia».
    Bene! Mi stava accusando di non saper fare il mio lavoro e soprattutto di non fare il mio lavoro! Lanciai a Tom un’occhiata senza sapere esattamente cosa esprimere, se rabbia o delusione, e lui evase dal mio sguardo, concentrandosi sulla sua fetta di anguria argentina sbocconcellata. Volevo rovesciare tutto il tavolo e urlare a squarciagola.
    «In verità», s’intromise Bill, «Elsa è bravissima nel suo lavoro. Riesce a spronarci come pochi hanno saputo fare e tira fuori il meglio di noi».
    Fui profondamente grata a Bill, ma mio padre non sembrava contento, anzi.
    «Sicuramente siete stati la sua occasione d’oro. Molti sound editor dovrebbero avere un loro ufficio, un loro studio e dei dipendenti, invece, da quello che vedo, lei è ancora in mezzo alla strada. Non che la cosa mi interessi, sia chiaro».
    Poggiai il mio bicchiere sul tavolo con più forza del necessario, irritata. Lui non sapeva nulla dell’organizzazione di un sound editor e aveva commesso un errore madornale: quelli come me non avevano bisogno dipendenti e nemmeno di uffici grandi come case, per lavorare. «Almeno io non mi faccio pagare per difendere le frottole che mi racconta il miglior offerente», sbottai, guardando furente nella direzione di mio padre.
    Lui non si scompose affatto. Fece una risata contenuta, mettendosi elegantemente una mano davanti alla bocca. «Bisogna saper fare anche quello. Tu non ne saresti nemmeno capace, per questo ho lasciato che imparassi a strimpellare qualche corda».
    Non seppi come replicare. Tutte le parole mi morirono in bocca e mi sentii le mani tremare di rabbia repressa.
    L’atmosfera tesa venne spezzata da una risata di Bill, che si intromise educatamente tra noi. «Aaron, così ci offende! In realtà fare musica è molto appagante e riempie la vita».
    Non vidi cosa fece mio padre perché avevo abbassato lo sguardo sul mio piatto mezzo pieno, ma lo sentii rispondere: «credo di dover dire che dipende dalle persone. C’è chi la prende come un’arte e fa fruttare il proprio talento, come voi e il vostro gruppo. C’è chi lo prende come un ripiego e rimane al punto di partenza».
    Stronzo leccaculo. Falso, meschino e disumano. Più che mai desiderai non essere sua figlia, più che mai ricordai chiaramente tutti i motivi che mi spingevano a tenermi lontana da lui mille chilometri.
    «Elsa ha un grande talento, che sta mettendo a frutto», continuò a difendermi Bill, mentre io mi sentivo stupida e impotente come una mocciosa. «E noi non la stiamo aiutando, anzi, è lei che sta aiutando noi a…».
    «Adesso basta». Mi spinsi all’indietro, facendo grattare la sedia sul pavimento. Mi alzai, le punte delle dita premute sul tavolo e la testa bassa. Il tovagliolo che avevo dimenticato sulle ginocchia cadde a terra. «Grazie, Bill, è carino da parte tua, ma non ho bisogno di un avvocato difensore», lanciai un’occhiata a mio padre, sorridendo nel modo più educato possibile. «Come vedi, è una categoria che non mi va particolarmente a genio. Ora, se volete scusarmi…». Recuperai la borsetta e uscii dal salone, sotto gli sguardi di tutti, sentendo il ticchettare dei miei tacchi nelle orecchie.
    Riuscii ad arrivare alla macchina senza scoppiare in lacrime come una bambina. Appena la vidi, rassicurante e desiderata come un’oasi di pace e tranquillità, mi ci appoggiai sopra con tutta la parte anteriore di me e nascosi il viso tra le braccia. Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi senza il bisogno che singhiozzassi, anzi, più mi trattenevo, più sentivo le maniche del mio vestito nuovo inumidirsi.
    Quello era mio padre. Quella era la mia famiglia.
    Avevo passato da un pezzo la fase infantile in cui mi sentivo uno scherzo della natura, un errore del destino, o comunque si voglia chiamare una persona che c’è però non ci dovrebbe essere, ma in quel garage, in quel momento, mi sentii sbagliata e sola come da mesi non mi sentivo. Chiusi gli occhi e altre lacrime si persero tra le fibre della manica.
    «Allora non sei indistruttibile come sembri».
    Trasalii e mi voltai di scatto. Tom era appoggiato indolentemente al muro, una gamba piegata, le mani infilate nelle profonde tasche dei jeans. Mi asciugai le guance e passai prontamente sulla difensiva, guardandolo truce.
    «Ehi, calma», cercò di ammansirmi con un mezzo sorriso, «vengo in pace».
    «Avresti semplicemente potuto risparmiarti l’azione di venire», ringhiai. «Non te l’ha chiesto nessuno».
    Lui alzò le spalle, come se la cosa non contasse. Era calmo e rilassato come se fosse appena uscito da una lezione di yoga invece che da un battibecco impregnato di odio tra padre e figlia. E a quel punto mi soggiunse una domanda più che logica: che era venuto a fare?
    «Che ci fai qui?», gli chiesi.
    «Volevo controllare che fossi ancora tutta intera», mi rispose con calma.
    Per poco non mi prese un colpo. Tom Kaulitz, elemento centrale della stessa teoria Tom-centrica, che si preoccupava per me? Era proprio una giornata fuori dagli schemi.
    «Lo sapevo che la fine del mondo era vicina», dissi senza ironia. «Ma, come vedi, non mi sono trasformata in una pappetta a base di materia umana e lacrime. Puoi tornartene di sopra».
    «Di sopra stanno parlando di te, non è un argomento interessante da ascoltare. Preferisco la diretta».
    Non potevo crederci. Si stava offrendo di ascoltarmi?
    «Che ti prende, Kaulitz? Ti senti in colpa per aver scatenato la serie di complimenti di mio padre? Se è così non disturbarti, mi avrebbe lodata nello stesso modo anche senza di te».
    S’irrigidì tutto contro il muro e quasi potevo vederlo lampeggiare, il vaffanculo sentito che gli si stava agitando nella testa. Ero prontissima a mandare alle ortiche il proposito di mantenere il distacco professionale e difendermi da qualsiasi suo insulto facendo altrettanto, ma mi stupì quando si limitò a sospirare pesantemente, chiudendo gli occhi.
    «Mi sento in colpa, infatti, ma non per il motivo che pensi tu», disse con calma.
    Non gli chiesi niente, non mi interessava. Non volevo dargli la soddisfazione di sentirsi porre la domanda che voleva. Rimasi in silenzio, chiusa nel mio guscio di rabbia repressa e odio viscerale.
    Tom si staccò dal muro con un’incurante spinta della gamba piegata e venne a posizionarsi proprio accanto a me, appoggiato con la schiena alla mia macchina.
    Mi allontanai di due passi e lui finse di non accorgersene, o almeno credo.
    «Mi dispiace anche perché… ecco… non sei esattamente come credevo», mi spiegò con difficoltà.
    Non c’era niente di meglio di un Tom Kaulitz impacciato e deliziosamente a disagio: la mia vena sadica mi spinse ad approfittarne. «Ma dai? Tu sei esattamente come credevo, invece».
    «Cioè bellissimo, affascinante e irresistibile?», si riprese subito, con la solita scintilla di malizia negli occhi.
    «Stronzo fino al midollo».
    Ridacchiò e sfilò una sigaretta dal pacchetto che aveva recuperato dalla tasca. Se la incastrò tra le labbra e la accese. Aspirò un paio di volte, prima di parlare: «sarà, ma io non lo sono per un motivo meno valido del tuo».
    Prima si offriva in qualche modo criptico di ascoltarmi e poi mi dava implicitamente della stronza? Interessante, avrebbe dovuto farsi studiare.
    «Non venirmi a dire che sei il classico spaccone dal cuore tenero, perché non ci crederò né ora né mai».
    Rise della mia considerazione e scosse la testa. «No, infatti. Ma volevo dirti che mi dispiace davvero per quello che è successo prima».
    Lo scrutai a lungo, mentre fumava, cercando di indagare sulla sincerità delle sue parole. Non sembrava molto pentito a giudicare dell’espressione neutra e rilassata; ma Tom era un tipo che non mostrava i suoi sentimenti, almeno questo l’avevo capito, quindi non mi restava che arrendermi e credergli sulla parola. Stranamente, il mio istinto mi assecondava, ma forse era solo il bisogno impellente di non essere sola in un momento come quello.
    Ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno, mi venne in mente il pensiero che avevo formulato poco prima.
    «Senti un po’», cominciai, «è stata vostra l’idea di volere la mia presenza qui, una volta scoperto che il mio cognome combaciava con quello del vostro legale?».
    Picchiettò sulla sigaretta con il dito, facendo cadere la cenere a terra. «Di Bill, a dirla tutta. Di certo io non avevo voglia di montarmi la testa con i tuoi graziosi complimenti», rispose. «A sua discolpa, posso dire che Aaron si è sempre limitato a leccarci il culo e Bill non aveva la minima idea di che razza di bastardo potesse diventare. E nemmeno io».
    Incollai il mio sguardo al pavimento e sentii anche io il bisogno non trascurabile di nicotina. Sfilai impudentemente la sigaretta di mano a Tom e feci un paio di tiri, restituendogliela subito dopo.
    «Scroccona», mi disse, ma non percepivo la solita cattiveria imprimere le sue parole.
    Ci fu una lunga pausa durante cui nessuno dei due parlò. Io non sapevo cosa pensare di quel nostro improvviso avvicinamento, lui probabilmente nemmeno. In ogni caso, sospesi tutti i giudizi e le considerazioni.
    «Adesso è meglio che vada», annunciai dopo ancora qualche minuto.
    Tom annuì vistosamente. «Anche io. Ufficialmente, sono andato al cesso». Si allontanò dalla carrozzeria.
    Aprii la macchina con il telecomando e mi ci infilai dentro, lasciando lo sportello aperto. «Allora ritorna, o cominceranno a pensare che ci sei affogato dentro. Sai che modo poetico di morire».
    «O che mi ci hanno affogato».
    Gli lanciai un’occhiata in tralice. «C’è qualche riferimento a me?».
    Alzo le sopracciglia accompagnando il gesto ad una scrollata di spalle, in un modo che mi ricordò molto l’atteggiamento incurante di Bea. «Se mai, è un riferimento poetico».
    Ridacchiai ed avviai il motore. «Ciao, Kaulitz».
    Mi fece ciao con la mano e poi sparì dietro le porte dell’ascensore.
    Mentre guidavo verso casa, cercai di metabolizzare tutti gli avvenimenti della giornata, e per quanto mi costava ammetterlo, fu molto più facile grazie alla chiacchierata con Tom. Non volli pensare che, a suo modo, mi aveva aiutata a superare un momento in cui sicuramente avrei finito con il fare del male a me stessa, se fossi stata sola. Non volli pensare nemmeno che aveva messo da parte la sua insopportabile spocchia e fatto ricorso a tutta la sua pazienza per sopportarmi, e che tutto questo mi aveva fatto piacere più di quanto volessi ammettere.
    Impiegai un quarto d’ora a raggiungere casa mia. Constatai con soddisfazione che era vuota: non avevo nessun bisogno di terzi gradi. Corsi verso la mia stanza come un assetato nel deserto corre verso un’oasi e mi liberai di tutto ciò che avevo addosso, a partire dalle scarpe, risparmiando solo l’intimo. Abbassai le tapparelle elettriche dall’interruttore, mandai un paio di messaggi a Didi e a Bea per far sapere loro che ero sopravvissuta e mi buttai a peso morto sul letto.
    Forse la giornata non era stata un fiasco totale come avevo previsto.
     
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