Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Capitolo 3

    «Non è ora di dormire?».
    «No, devo lavorare».
    «Finirai per perdere la vista».
    «Appunto, quindi meglio approfittare finché c’è».
    «Sei una maledetta testona, lo sai?».
    Mi decisi a voltarmi verso Didi, appena tornato dalla discoteca, e lo guardai con aria colpevole. Erano le tre di notte e io continuavo ad accanirmi sul mio computer per lavorare; questa situazione si verificava esattamente da due settimane, cioè da quando avevo litigato con quel manico di scopa dalla pettinatura improbabile. Purtroppo i nostri rapporti non erano migliorati. Parallelamente a questi, anche il mio umore peggiorava, e, maledetta me, non riuscivo a capire perché mi facevo condizionare tanto da un pallone gonfiato.
    «Fila a dormire», mi ordinò Didi accalorato.
    M’intestardii: «no».
    «Ma la pianti di comportarti come una bambina?!».
    Non potevo andare a dormire, perché non lo capiva? Ero troppo scossa. Ero incazzata nera e chiaramente impossibilitata al sonno.
    Udii Didi sbuffare. «Adesso, noi due dobbiamo affrontare un discorso importante», mi disse con metodicità, sedendosi sulla poltrona, vicina al divano su cui ero stesa.
    «Alle tre di notte?».
    «Non vedo perché tu puoi passare la notte a lavorare e io invece non posso fare un discorso serio con te», mi rispose arricciando quel suo musetto impudente, il cui profilo riluceva alla luce del monitor. Si accomodò sui cuscini e ci saltellò su un paio di volte per saggiarne la morbidezza. «Mi dici il perché di tutti questi scompensi?».
    Mi concessi uno sguardo veloce al suo viso. «Non lo so».
    «Sei una pessima bugiarda. Non sarà mica per il Kaulitz?».
    Appena udii quel nome, feci crollare tutte le mie difese. Normalmente non lo avrei fatto nemmeno sotto tortura, ma avevo un’infinità di ore di sonno arretrate, i nervi a fior di pelle e il raffreddore. «Okay, sì», risposi con voce nasale.
    «Ma non è mica la prima testa calda che ti passa sotto il naso. Cosa c’è di diverso?».
    Di diverso c’era che tutte le teste calde che mi erano passate sotto il naso non mi guardavano come se fossi un fastidioso insetto che passa di lì per caso. E non avevano nemmeno quella sua dannata “strafighezza” congenita che trasudava da ogni maledetto poro.
    «E’ insopportabile».
    «E fin qui ci siamo», ridacchiò, «ma perché?».
    Chiusi il mio computer con più violenza del necessario, e la stanza piombò completamente nell’oscurità. «Perché sì».
    «Elsa, “perché sì” è una risposta che si può usare al massimo fino alla quarta elementare».
    Lanciai un’occhiata di fuoco nella sua direzione, che ovviamente non arrivò a causa del buio pesto che regnava nel nostro salotto. «Non mi va a genio che non andiamo d’accordo. Ma solo perché non mi piace essere sempre così nervosa, non per altro».
    Didi rimase in silenzio per un lungo minuto, e io mi allarmai. Aveva sensi di ragno, lui, particolarmente predisposti a captare la vera entità dei miei sentimenti.
    «Ah…», sospirò poi ispirato, con il sorriso nella voce. «Devo vederlo, assolutamente».
    «Cosa?!», saltai su come se fossi seduta su una dinamite accesa.
    «Hai capito, gioia! L’ultimo ragazzo che ti faceva questo effetto si chiamava Derek ed era un figo mai visto. Peccato che fosse etero…».
    «Era anche uno stronzo patentato, se ti ricordi», m’imbronciai al ricordo. «E comunque no, è fuori discussione. Non esiste».
    «Elsa, io domani verrò con te a lavorare», mi annunciò deciso.
    «Per fare cosa? Per discutere con quella cocorita dark dell’ultimo mascara pubblicizzato? Già è distratto di suo…».
    «Quale cocorita dark?!». Non riuscii a vedere il suo viso avvolto dal buio, ma dalla voce sembrò che gli avessi appena rivelato dove fosse il tesoro di Montezuma.
    «Il cantante», spiegai, rievocando il nasino dritto e le mani svolazzanti di Bill. «E’ una specie di ibrido, un incrocio tra una drag queen e una soubrette, non so se mi spiego…».
    «Meglio ancora!», esclamò, e lo udii applaudire.
    «Tanto non ti porterei con me nemmeno se servisse a salvare il mondo».

    «…sono così su di giri! Non immagino cosa dirà Bea appena glielo racconterò!».
    Didi continuava a blaterare da quando aveva messo piede in macchina, agitando le mani e sfiorando con la voce timbri terribilmente striduli. Io mi ero obbligata a serrare la bocca così tanto da farla assomigliare ad una chiusura ermetica e non avevo ancora spiccicato mezza parola – a parte il colorito vaffanculo che gli avevo urlato, perché lo stronzo mi aveva fatto saltare giù dal letto urlando che uno scarafaggio enorme camminava sul cuscino.
    Risultato di quella mattinata da incubo: i miei capelli erano disastrati e aggrovigliati come i serpenti della Medusa; avevo, tanto per cambiare, due trolley agganciati sotto gli occhi; come al solito, ero nervosa e suscettibile come uno scorpione, e, ciliegina sulla torta, il mio raffreddore mi causava una sgradevolissima voce nasale e difficoltà respiratorie.
    Didi si sporse verso di me e mise su un’irritante faccia da cucciolo. «Andiamo, Elsa. Non hai aperto bocca da stamattina, improperio colorito a parte. Me la dici almeno mezza parolina?».
    «Vaffanculo».
    «Non ti smentisci proprio mai», si offese incrociando le braccia e riappoggiandosi al sedile. «Non riesco ancora a capire perché non riesci a digerire l’idea che ci sia anche io».
    «Ho ben tre motivi per non digerirla», dissi compunta.
    «Esplica».
    «Uno: con quella maglia che sembra lo schizzo di un pittore impressionista sembri appena uscito dal Carnevale di Rio, e in mezzo a quella band di scapestrati non c’è bisogno di altri soggetti strani. Due: Ferdinand ti licenzierà di sicuro perché ti sei preso così tanti giorni liberi da esserti giocato anche le ferie dell’anno prossimo, e tre: non mi va che tu sia coinvolto in questa storia».
    Il mio amico non replicò tempestivamente come mi ero immaginata, anzi, con mia grande sorpresa rimase zitto a cogitare.
    Gli lanciai un’occhiata incuriosita e vidi la sua mano sotto la bocca, che si era arricciata per formare un piccolo broncio. Gli portai un ciuffo color biondo cenere dietro l’orecchio e per un momento temetti di aver esagerato e di averlo ferito.
    «Almeno due su tre dei tuoi motivi non sono validi», disse poi, guardandomi con la solita espressione serena e benevola, e mi sentii subito più tranquilla.
    Parcheggiai al solito posto e spensi l’auto. «Ah, sì?».
    «Sì, quindi prendi una bella crusca per digerirla, questa benedetta idea, e andiamo».
    Sospirai e scesi dopo di lui, chiudendo subito dopo la macchina con il telecomando.
    Cercai di contenere tutta la mia preoccupazione, ripetendomi come un disco rotto che Didi era grande e non aveva bisogno della tata. Ma, dentro di me, sapevo che, oltre la superficie degli adorabili sorrisi e degli sguardi turchini e scanzonati, era una persona molto fragile e condizionabile. Il mondo dello spettacolo costituiva un pericolo per lui, anche se in versione contenuta perché i ragazzi erano temporaneamente obbligati a restare ad Amburgo.
    Egoisticamente, inoltre, desideravo che i Tokio Hotel restassero confinati al mondo onirico e dorato di cui facevano parte. Non li percepivo reali, capaci di affrontare la realtà quotidiana e le comuni difficoltà della vita. Una persona come Didi e, più precisamente, come me, lì dentro, stonava quanto una nota sbagliata in una sinfonia perfetta.
    Come sempre, dopotutto. Vero, Elsa? Sempre così inadeguata, così fuori luogo. Ma come mai sei venuta fuori così? Tua madre non era così.
    Quella voce, che per me aveva la familiarità di un cuore spezzato e lacrime trattenute, mi riempì la testa e di colpo mi sentii triste e vulnerabile.
    «Elsa? Devi aprire».
    Senza accorgermene, eravamo arrivati vicino alla porta bianca dell’ingresso, ed era stato come se i miei piedi si fossero mossi da soli, accanto a quelli di Didi. Non dissi una parola, ancora prigioniera del senso di inadeguatezza e insicurezza che mi attanagliava, e aprii la serratura con la copia della chiave che mi ero fatta dare da David. Didi intuì il mio brusco cambiamento d’umore, ma non disse nulla.
    Appena entrata udii il brusio tipico di ogni mattina, che ormai era entrato a far parte della mia routine e solitamente riusciva a rassicurarmi; quella mattina, invece, contribuì a rendermi ulteriormente malinconica. Giunsi nel salone dove di solito i ragazzi mi aspettavano per fare colazione, e mi impegnai per sembrare la stessa di tutti gli altri giorni.
    «Buongiorno!». Feci di tutto per modulare la mia voce in modo che, nonostante il raffreddore, suonasse squillante e allegra come al solito. Invece si incrinò a metà della parola e suonò liquida e umida di pianto.
    Bill, che mi dava le spalle dal divano, si voltò verso di me e assottigliò gli occhi, guardandomi preoccupato. «Stai bene?», mi chiese.
    La panoramica dei visi mi suggeriva che anche Gustav e Georg si aspettavano una risposta. Tom, ovviamente, non mi degnò di uno sguardo: non c’era bisogno di controllare per saperlo.
    Feci del mio meglio per sorridere e sembrare convincente. «Sto benissimo, ho solo un po’ di raffreddore».
    «Tu non me la conti giusta, virago dei miei stivali», mi ammonì Gustav con un sopracciglio alzato.
    Ma che era successo? Ero diventata di colpo trasparente?!
    Didi mi tolse i riflettori di dosso dando due studiati colpi di tosse e nella mia mente mi appuntai di ringraziarlo appena fossimo stati da soli.
    «Ragazzi, questo è Didi, un mio carissimo amico». Gli presentai uno ad uno i membri della band. Poi andai ad appendere il suo soprabito e il mio cappotto, la mia sciarpa, i miei guanti e il mio cappello all’appendiabiti accanto alla porta. Lui si ambientò subito in quell’atmosfera, riuscendo a coinvolgere tutti nella conversazione, perfino quel musone di Tom.
    Ma perché, Elsa? Perché tu invece sei sempre così ignorata? Cos’hai che non va?
    Tirai fuori dalla mia borsa il mio portatile e la mia roba, eseguendo tutto con una lentezza spossata che non mi apparteneva. Ma di colpo mi sentivo come se mi stessero prendendo a legnate e non riuscivo a far nulla per combattere quello stato d’animo.
    Supplicai solo quella voce di smettere di torturarmi, e dopo mi infuriai con me stessa, perché non riuscivo a capire quale muro avessi fatto crollare per permetterle di attaccarmi.
    «Tu hai qualcosa che non va».
    Sobbalzai, e quando alzai gli occhi per vedere chi dovesse morire per avermi fatto spaventare, mi trovai davanti due occhi verdi e una breve cascata di capelli castani. Georg mi guardava, piegato con i gomiti tavolo, la testa poggiata alle mani giunte.
    «Cosa ti fa supporre che ho qualcosa che non va?», domandai e mi imposi, con tutte le mie forze, di tornare ad essere quella di sempre. Tentai un sorriso che mascherasse tutto ciò che provavo e seppellii ogni sentimento negativo sotto i numerosi strati protettivi di cui mi schermavo.
    «Sembri appena uscita da un campo di concentramento, e non è solo colpa del raffreddore. Non ci hai messi in riga come al solito, continui a fissare quel monitor con gli occhi vuoti, mentre pensi a chissà che e, cosa più importante, non hai ancora guardato nella direzione di Tom».
    Mi sentii punta nel vivo e il mio viso si raffreddò di un centinaio di gradi. Tornai a fissare lo screensaver del mio computer. «Dici un sacco di sciocchezze».
    Georg ghignò soddisfatto. «Visto? Sei subito passata sulla difensiva. Ho ragione».
    Non avevo intenzione di lasciarmi scrutare dentro con tanta attenzione un minuto di più. «Georg, ricordati della mia posizione. Io sono il tecnico del suono, tu il musicista. E basta».
    Non controllai dal viso la sua reazione, ma dopo qualche secondo non percepii più la sua presenza accanto a me. Mi sentii profondamente in colpa per averlo trattato in quel modo: in quelle due settimane ero riuscita a creare una parvenza di rapporto tra me e i membri della band – Tom escluso, ovvio –, specialmente con Georg, e in quel modo mi sembrò di aver mandato tutto all’aria. Didi aveva terribilmente ragione: non mi smentivo proprio mai.
    Sospirai e spinsi indietro la sedia per alzarmi, facendola grattare sul pavimento per richiamare l’attenzione di tutti. Mi schiarii la voce un paio di volte per assicurarmi che non mi tradisse di nuovo. «Possiamo cominciare?».
    Era una domanda retorica la mia, ovviamente, ma Tom decise di rendermi la vita difficile: «ma non ti eri mummificata su quella sedia lì?», mi domandò con aria distratta e annoiata.
    «Ovviamente no, altrimenti come potrei irritare il principino?», ribattei con acrimonia.
    «Basta la tua presenza ad irritarmi».
    «Sono una perfezionista, lo sai. Muoviamoci». Mi avviai verso il corridoio e mi voltai prima di imbucarlo, non sentendo nessun passo dietro di me: erano ancora tutti lì e mi guardavano come se fossi un’aliena appena uscita in compagnia dei sette nani di Biancaneve da una navicella spaziale. «Beh?».
    La mia espressione doveva essere molto eloquente, perché si mossero istantaneamente.
    «Io vado a prendere dei testi, vi raggiungo», precisò Bill sparendo un momento in una stanza che non avevo mai visto. Per quanto mi riguardava, in quella casa poteva esistere anche solo la sala registrazione e lo studio.
    «E io che faccio?», domandò Didi eccitato.
    Soffocai una rispostaccia che premeva da dietro le mie labbra. «Tu fai il bravo bambino, ti siedi e non ti muovi».
    Quando ci fummo spostati tutti nella sala registrazione, mi sedetti vicino alla scrivania, portatile di fronte e basi musicali alla mano. Rividi velocemente tutto il materiale che avevamo accumulato, e non era affatto male. In due settimane eravamo riusciti a produrre molto più di due mesi.
    «Perché questa chitarra è accordata?», domandò Tom, scandalizzato.
    Appuntai un LA da cambiare in LA minore nello spartito e risposi senza alzare lo sguardo: «non saprei davvero, Tom, di solito tu come le suoni, le chitarre?».
    «Mi sembra strano che sia accordata dopo più di tre mesi che non la uso».
    Riflettei che forse il LA minore non era così adatto all’armonia della melodia, mangiucchiando il tappo della mia Bic. «Infatti, l’ho accordata e usata io due giorni fa».
    Seguii una piccola pausa, in cui, immagino, Tom mi incenerì con la sola forza dello sguardo. «Ma sai che chitarra è questa?».
    Alzai la testa, irritata. «E’ una Breedlove Bossa Nova, modello elettrificato. E allora?».
    «E allora un gioiellino del genere non deve passare in mani che non siano le mie, chiaro?».
    Lo guardai e immaginai di strangolarlo con una delle corde della sua preziosissima chitarra. «Per tua informazione, maneggio oggetti del genere da quando tu avevi ancora il latte alla bocca, inoltre, se tu sapessi minimamente come usarla, quella chitarra, non la lasceresti marcire tra i tarli in un angolo dello studio».
    «Parli come avessi vent’anni più di noi», grugnì, sedendosi rudemente su una sedia di fronte a me e notai le sue labbra contratte in una smorfia di rabbia. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo, ma il mio cuore batteva già ad un’anormale velocità. Strinsi la penna più forte.
    «Parlo come qualcuno che ne sa molto più di voi».
    «Quanto a spocchia, di sicuro».
    «Ma fanno sempre così?», sentii domandare da Didi, appollaiato su un amplificatore all’angolo della stanza.
    «Oh, sì. Noi ci abbiamo fatto l’abitudine», rispose Georg, continuando a strimpellare note sul suo basso mentre fissava gli spartiti sullo schermo del mio computer.
    Proprio in quel momento Bill fece il suo ingresso con una decina di foglietti volanti in mano. «Che mi sono perso?». Si sedette a gambe incrociate sulla sedia accanto alla mia e mi consegnò i suoi testi. La grafia di Bill era grande e pomposa, appena un po’ disordinata.
    «Niente di nuovo», ghignò in risposta Gustav.
    Lessi le bozze dei suoi testi e dovetti riconoscere che non erano male. Uno scarabocchio all’angolo di un foglio, nello specifico, mi impressionò: erano solo pochissime parole, al massimo sette, ma mi colpirono impietosamente. Particolarmente vulnerabile e triste com’ero, mi fecero salire le lacrime agli occhi.
    «This pain of love will last forever», mormorai tra me, leggendo quelle poche parole. Quanto era vero.
    «Elsa?», mi richiamò qualcuno.
    Mascherai il gesto di asciugarmi gli occhi come meglio potei e mi sistemai meglio sulla mia sedia. «Cominciamo da qui», annunciai, indicando un altro testo a caso, sperando vivamente che non mi pungesse nel vivo quanto le parole che avevo letto prima.

    Non so come riuscii ad arrivare indenne alla fine di quella giornata lavorativa senza scoppiare sotto le frecciatine di Tom, sopportare la diarrea verbale di Bill che mi parlava sopra appena poteva e lo sguardo di Didi, che – ne ero certa – era preoccupato per me. Fatto sta che quando mi resi conto che avevamo superato le cinque e mezza, raccattai le mie cose e salutai, sperando di andarmene da lì il più in fretta possibile.
    Mentre prendevo il cappotto dall’appendiabiti, sentivo i miagolii di Bill che affermava di essere stanco morto, i grugniti di Tom e l’unica frase sensata di Gustav che diceva di avere fame.
    «Perché non mangiate qualcosa con noi?», propose Georg con entusiasmo.
    «Che splendida idea!», cinguettò Bill.
    «Certo!», si animò Tom con una voce malefica e astiosa, «al tuo pasto posso pensare io, Elsa, che dici?».
    Mi sentii crollare dentro e di riflesso serrai le dita sulla stoffa del cappotto. «Dico che piuttosto che morire con qualcosa che hai toccato tu, mi butto spontaneamente sotto un camion», gli risposi, voltandomi verso di lui.
    Bill mi si avvicinò con poche falcate e mise un braccio sotto il mio, sorridendomi dall’alto del suo metro e ottanta. «Ma pensi che lo permetterei mai?», mi sfarfallò le lunghe ciglia quasi in faccia, «per favore, rimanete!».
    Lanciai a Didi un’occhiata interrogativa, sceverandola da ogni eventuale e implicita supplica che vi si potesse intrecciare.
    Lui mi guardò un momento assottigliando i suoi occhi turchini e sollevando le sopracciglia; mezzo secondo dopo, sorrise di nuovo. «Non oggi, ho il turno anticipato. Ma possiamo rimanere un’altra mezz’oretta, vero?».
    Almeno questo, glielo dovevo.
    «Certo». Mi districai dalla presa di Bill per prendere dal mio soprabito il cellulare e le sigarette. «Vado un momento fuori, vi raggiungo subito».
    Uscii nel giardino senza cappotto e le tasche piene. Mi sedetti compostamente su una panchina di plastica piazzata in mezzo a del pietrisco bianco, distante circa cinque metri dalla casa.
    Finalmente sola, pensai sollevata, strofinandomi le braccia fredde con le mani. Appoggiai la testa sui palmi e feci un rapido resoconto di quella giornata.
    Male. Era proprio andata male. Non perché i ragazzi non avessero lavorato – perché c’era da riconoscere che mettevano anima e corpo in ciò che facevano –, non perché Tom si fosse comportato da buzzurro insensibile come al solito e nemmeno per la presenza di Didi, che aveva scombinato in qualche modo i miei ritmi. In quelle due settimane c’erano state intromissioni di altri produttori che avevano lavorato in precedenza con i Tokio Hotel, e non ero stata minimamente toccata da loro.
    No, io sapevo perfettamente dove fosse il problema. Mi accesi una sigaretta e feci un tiro.
    «Ehi!».
    Sobbalzai e per poco non mi scappò un urlo. «Bill!», esclamai non appena mi fui voltata. «Se volevi farmi venire un infarto, ci sei quasi riuscito», dissi mentre lui si rannicchiava sulla panchina accanto a me, nonostante non glielo avessi chiesto.
    «Nah, quello lo farebbe Tom. Io agirei in modo più sottile», mi rispose con un sorriso strano.
    Ridacchiai, aspirando di nuovo. «E’ così bello vedere che tanta gente tiene alla tua vita. Volevi dirmi qualcosa?».
    «Oggi sei stata strana», notò Bill, guardandomi preoccupato, le sopracciglia aggrottate che formavano un piccolo solco sulla fronte. «E’ per Tom?».
    Sempre diretto e laconico. Tatto: zero.
    Aspirai di nuovo, più nervosa. «Se mi facessi condizionare da lui e da ogni stupidata che dice non starei ancora qui, ti pare?».
    «Sì, però io mi sentirei ferito se qualcuno mi attaccasse in continuazione come fa lui…».
    Fui così intenerita dal suo sguardo da cucciolo di cocker che per poco non allungai una mano per accarezzarlo sulla testa. «Perché il tuo tenero cuoricino non riesce a sopportare due critiche consecutive nell’arco di tre giorni, è normale».
    «Non è vero!», strepitò, circondandosi un ginocchio con le braccia. «Io ricevo critiche in continuazione, anche molto cattive».
    E’ anche vero che te le vai a cercare, pensai d’impulso, ma non fu in quel modo che risposi: «Allora saprai benissimo cosa vuol dire non darci peso».
    Non sembrò contento della mia risposta distaccata e distolse lo sguardo dal mio. Fissò i palazzi davanti a noi, che si stagliavano su un manto di rosa e pervinca.
    «Io non riesco a non dare peso alle cattiverie di qualcuno che mi piace».
    Sorprendentemente, non saltai su come se mi avessero punta con uno spillo, non strillai, non mi scandalizzai, non gli lanciai qualcosa addosso, né feci niente del genere. Mi limitai a fare un altro tiro e a dire, con la mia migliore faccia tosta: «francamente, troverei più attraenti i tombini».
    Lo vidi scuotere la testa con la coda dell’occhio, come se si arrendesse a qualcosa.
    «E Didi?», cambiò argomento.
    «Didi cosa?».
    «Chi è? Perché è qui?».
    «E’ il mio migliore amico, ed è qui perché è un rompiscatole pazzesco», risposi asciutta. Gettai il mozzicone nel pietrisco bianco e polveroso.
    «Solo migliore amico?».
    M’irritai e gli lanciai uno sguardo che mandava il chiaro messaggio di farsi i preziosissimi affari suoi. Ma Bill Kaulitz, a quanto pareva, era insensibile a certe intimidazioni non verbali, perché continuò a guardarmi in attesa di una risposta.
    «Solo migliore amico», capitolai. «Anche perchè non si potrebbe mai andare oltre». Il solo pensiero era ridicolo e mi fece ridere.
    «Perché?».
    Certo che era strano: riusciva a captare cose che non potevano esistere nemmeno nei film di fantascienza, come una mia improbabile cotta per un pallone gonfiato di boria e non vedeva le cose più lampanti.
    «E’ gay», risposi semplicemente, «e voleva vedere il posto dove lavoravo». Anche a costo di perdere il suo, di lavoro, ma questo non lo dissi.
    «E’ simpatico», commentò Bill.
    Non risposi e da quel silenzio capii che non avevamo più nulla da dirci. E, cosa più importante, che dovevo tornare dentro prima che la situazione si facesse troppo intima.
    «Io torno in casa, fa freddo». Mi alzai e percorsi il breve tratto di strada sterrata, fino ad approdare all’isoletta di mattoni intorno alla casa. Bill mi seguiva, sentivo il rumore dei suoi passi. Aprii la porta e la luce mi ferì gli occhi, costringendomi a strizzarli un paio di volte prima di abituarmici.
    «Ecco tornati i piccioncini», disse Tom con un sorriso da stregatto che mi allarmò non poco.
    «Attento che uno di loro non ti voli in testa», replicai velenosa.
    «Lascialo perdere, deve fare così, altrimenti la mamma si arrabbia», mi sussurrò Bill al mio fianco.
    «Comunque, noi», ci interruppe Georg e indicò noi tutti con un gesto vorticante del suo dito indice, «ci vediamo sabato sera».
    Sgranai gli occhi e avvertii la mia mascella cadere in basso come una tapparella rotta. «C-cosa?».
    Didi si alzò dal divano e mi saltellò incontro battendo le mani. «Li ho invitati nella discoteca dove lavoro. Si camufferanno e non lo saprà nessuno», esclamò pimpante, anticipando già una mia possibile protesta.
    «E Bea?», protestai comunque incredula, «Didi, è il suo compleanno!».
    «Festeggerà anche con loro, no? E’ la serata ideale anche per i ragazzi per svagarsi un po’, stanno lavorando parecchio in queste settimane».
    Avrei avuto mille altre cose da dirgli, anche da urlargli contro, ma non mi è mai piaciuto avere pubblico e preferii tacere.

    «Non li conosci da neanche un giorno e già ti sei elevato a loro balia?», domandai in macchina, mentre guidavo inviperita verso casa. «Che bravo».
    «Non capisco perché la cosa ti infastidisca tanto, sinceramente», disse il mio amico mettendo su uno dei suoi irritantissimi bronci. «Sono dei ragazzi così carini!».
    «Sono dei ragazzi carini che fanno parte di un mondo che non ci appartiene. Era esattamente questo che intendevo quando ho detto che non mi andava di coinvolgerti in questo manicomio! Per non parlare di Bea, poi! Doveva essere un bel compleanno per lei!».
    «Lo sarà! Quale miglior regalo di un incontro ravvicinato con un gruppo…».
    «…che neanche conosce? Io ne conosco almeno un milione o due», lo interruppi, accelerando in piena curva. Infuriata e delusa, avevo voglia di chiudermi in camera e non uscirne più fino alla prossima era glaciale.
    «Il tuo problema è un altro, non mascherarlo con la voglia di proteggermi».
    «Davvero? Illuminami».
    «Hai paura di fidarti di loro. Per la verità, hai paura di fidarti di chiunque», mi rispose.
    Quelle parole mi ferirono e la vista mi si appannò di nuovo. «E meno male, altrimenti starei alle pezze», dissi con voce debole. Perché il mio tono era molto meno combattivo di prima?
    «Non puoi chiuderti nel tuo mondo e aspettarti che il resto delle persone faccia lo stesso».
    Inchiodai mentre stavo parcheggiando sotto casa. Guardai il mio amico, tentando di non cedere sotto il peso del dolore di ricordi vicini e contemporaneamente lontani.
    «Le persone non sono tutte uguali, Elsa».
    Spensi il motore. «Forse, ma sono tutte egoiste».
    «Anche tu?», mi chiese guardandomi preoccupato.
    Fissai i miei occhi sul volante per pochi secondi. «Anche io. Altrimenti non sarei qui».
     
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