Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Capitolo 2

    «Quindi, riepilogando, sei riuscita a farti assumere dal produttore dei Tokio Hotel, e ora dovrai non solo sopportare i capricci di quattro mocciosetti spocchiosi, ma anche sottostare ai loro orari e comporre l’album con loro. Per non dire “per” loro».
    «Grazie per il riepilogo, Bea. Ora sì che sono felice», dissi, affogando tutta la mia depressione nella birra aperta davanti a me.
    «Sono qui per questo, zucchero». Sorrise e mi strizzò l’occhio, addentando subito dopo il trancio di pizza davanti a lei.
    Bea, mia amica di infanzia e direttrice di un giornaletto locale di gossip, era l’ultima componente del mio ristretto gruppo di amici. Alta e bionda, come qualsiasi tedesca, ed abbastanza eccentrica da trovare il coraggio per andare in giro vestita nei modi più stravaganti. Quella sera aveva proprio deciso di esagerare: indossava un paio di All star verdi abbinate ad un bustino turchese, leggins viola e gonna nera. Sembrava una diciassettenne, piuttosto che una ventitreenne.
    Le persone nella pizzeria in cui avevamo deciso di passare la serata l’avevano squadrata da capo a piedi scettiche, ma Bea era così abituata alle occhiate e ai giudizi sul suo look bizzarro che ormai tutto le scivolava addosso come olio.
    «Magari sarà un’esperienza costruttiva», azzardò Didi, assolutamente a sproposito.
    «Certo. Imparerò a fare la babysitter. Che delizia».
    «E non farla così tragica», intervenne Bea dandomi una leggera gomitata, «magari servirà ad addolcire il tuo caratteraccio. Hai proprio bisogno esercitare la tua pazienza».
    «Giusto», approvò Didi. «Noi ti sopportiamo, tesoro, ma il resto del mondo non può mica essere così caritatevole».
    Mangiando la mia parte di pizza, vidi i due far scontrare i propri pugni tra loro in un gesto amichevole.
    Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. «Sono commossa», commentai arcigna.
    Didi perse la sua aria giuliva e sospirò.
    Io già mi misi in allarme: cattivo, cattivo segno, quel sospiro scoraggiato. Era arrivato il momento dei discorsi importanti. Guardai tutto tranne che lui, tentando disperatamente di scampare alla sua premura indesiderata.
    Didi poggiò una mano sulla mia, abbandonata da qualche parte sul tavolo. «Elsa, seriamente: sei sempre di cattivo umore e non ti si scuce un sorriso nemmeno a pagarlo oro. Non è che c’è qualcosa che non va?».
    Scostai con malagrazia la mano del mio migliore amico dalla mia e presi un altro sorso di birra. «Non c’è niente che non va», dissi perentoria. «Insomma, è solo un lavoro, per giunta a tempo determinato. Appena finiremo l’album me ne andrò, e tanti saluti ai Tokio Hotel».
    I miei due amici capirono l’antifona e cambiarono subito la direzione del discorso.
    Bea mi sorrise. «E va bene, musona. Ma almeno di questa opportunità cerca di essere contenta. Milioni di persone ucciderebbero per il posto che hai tu adesso».
    «E se riesci, facci conoscere questi quattro bellimbusti. Ho visto per caso qualche loro foto in giro, sono parecchio decorativi». Didi mi fece l’occhiolino, e, mio malgrado, riuscii a sorridere.
    «Vedrò cosa posso fare», concessi, e nella mente comparve di nuovo la faccia distaccata di Tom Kaulitz e i suoi occhi distanti e altezzosi.
    Il giorno dopo mi presentai puntuale allo studio di registrazione dei ragazzi, con tanta voglia di rimanere da sola a pensare un po’. Oltrepassai il controllo della donna delle pulizie che venne ad aprirmi, e quando feci per dirigermi verso la stanza adibita alle registrazioni, passando per l’enorme salotto, vidi i quattro ragazzi seduti sui divani che facevano colazione, un enorme vassoio con dei resti di croissant poggiato sul tavolino basso. Il tappeto tra i divani disposti a ferro di cavallo era pieno di briciole.
    «Ora capisco perché sentivo chiasso già dall’ingresso».
    Si bloccarono tutti nell’udire la mia voce, come se qualcuno avesse premuto il tasto pausa.
    Decisi di far finta di niente e mi sforzai di essere più cordiale del giorno prima, secondo il consiglio di Bea. «Buongiorno ragazzi! Che ci fate già qui?».
    «Abbiamo passato la notte qui», m’informò Bill dal divano, con un sorriso allo zucchero a velo che mi fece più tenerezza di quanto non volessi ammettere a me stessa.
    «Perché?».
    «Perché Bill ci ha stressato fino a farci esplodere le cervella», disse Tom, con la solita aria distaccata. Soffocai un sorriso acido, non riuscendo a spiegarmi il motivo di tutto quel distacco. Guardai il cerbiatto moro con un’espressione interrogativa.
    «Sì, è che mi sembra ingiusto che tu venga qui alle nove e sia costretta ad aspettare noi… quindi da oggi saremo tutti mattinieri», disse, e, per la miseria, mi sorrise di nuovo. L’effetto fu una strana morsa allo stomaco, che non fu dolorosa, ma nemmeno tanto piacevole. Mi arrabbiai con me stessa per quella reazione da ragazzina in calore, e mi arrabbiai anche per la gentilezza che Bill mi aveva fatto. Detestavo le gentilezze: non sapevo mai come comportarmi e reagivo con la rabbia. Ed esattamente in linea con me stessa, anche quella volta non potei non apparire burbera e ingrata: «non era necessario, ho del lavoro da fare».
    «Ah». Bill infilò in quella singola sillaba tanta delusione e tristezza che mi fece stringere il cuore anche senza che lo guardassi. Appesi il mio soprabito all’attaccapanni a muro, nascondendo il mio viso. «Però grazie. E’ stato molto carino», mi costrinsi a dire. Mi sistemai il maglioncino scomposto sui fianchi e presi il mio computer, poggiandolo sul tavolo nella stanza adiacente al salotto. Aprii dei documenti a caso, cercando la prima cosa da fare disponibile.
    «Bill, risparmiati la faccia da cucciolo bastonato, per favore», lo pregò Gustav annoiato.
    «Non se la può risparmiare, ce l’ha nel DNA», disse Georg.
    «Che simpaticoni», lo sentii berciare con la sua vocina offesa.
    Ghignai senza farmi vedere.
    «Vedi Bill, potevamo benissimo dormire a casa nostra e stare cento volte più comodi, lei mica si offendeva».
    Mi decisi ad innervosirmi: ne avevo già le scatole piene della sua aria da principino annoiato, odiavo quel tipo di persone. E Tom Kaulitz, a quanto pareva, apparteneva proprio a quella categoria di persone.
    «Se proprio ti costava tanto, potevi andarci da solo a casa e dormire nel tuo bel letto comodo».
    Cazzo. E quella frase al concentrato di acidità da dove mi era uscita?
    In ogni caso, mantenni la mia faccia tosta, mentre il sopracciglio di Tom Kaulitz schizzava in alto e il mio stomaco faceva di nuovo quell’inquietante capriola.
    «Va bene, la prossima volta seguirò il tuo consiglio», mi rispose brusco.
    «Bene».
    «Bene».
    «Tomi, non essere così antipatico, risparmia almeno lei», lo ammonì Bill, mentre io mi accanivo a leggere il pentagramma che era comparso sullo schermo del mio computer, giusto per non innescare altre reazioni pericolose.
    «Ah, le donne…», sospirò, alzandosi dal divano. Si scosse dalle briciole che gli erano cadute su quella tovaglia che aveva al posto della maglietta e lo vidi passarmi affianco per andare alla porta d’ingresso e recuperare il cappotto appeso accanto al mio.
    «Dove stai andando?», chiesero Bill e Georg in coro.
    «A fare un giro, stamattina non mi va di lavorare».
    «Cosa?!», esclamai alzandomi di scatto dalla sedia.
    Sbuffò, sistemandosi la visiera del cappello, in un gesto nervoso. «Stamattina non voglio lavorare. Hai capito bene o devo ripeterlo?», mi domandò, scandendo lentamente tutte le parole. Mi risultò definitivamente antipatico. Il suo atteggiamento annoiato e altezzoso aveva cancellato come un colpo di spugna tutta la presunta simpatia che avevo provato per lui il giorno prima. Ma come accidenti avevo fatto ad essere così stupida?
    Strinsi i pugni ai lati dei fianchi. «No, sei tu che forse non hai capito bene. Non puoi mollarci così, la chitarra ci serve».
    «Non ci possiamo permettere di fare i capricci, Tom, per favore», s’intromise Gustav con diplomazia, «il tempo è poco e siamo nei casini».
    Mi chiesi come facesse a comportarsi con tanta pazienza. Io non ci sarei mai riuscita.
    «Che palle che siete! Stamattina mi girano, non voglio fare niente».
    Se prima avevo cercato di trattenermi, quell’ultima frase mi fece scattare come una molla. «E che cosa pensa sua maestà, che quando girano a lei il mondo debba fermarsi?! Non me ne frega un cazzo se hai o non hai voglia, nemmeno io avevo voglia di tornare qui e rivedere la tua regale faccia di bronzo, ma sono qui, quindi adesso riporta il tuo culo esattamente dov’era e non frignare!».
    Appena terminata la mia filippica, ricollegai il cervello alla bocca. E quando studiai meglio il viso irritato e oltraggiato di Tom Kaulitz, seppi di essere nei casini e temetti per il lavoro avuto appena due giorni prima. Sapevo che sarebbe bastata una frase, una sola parola da parte sua per farmi perdere tutto ciò che stavo costruendo.
    Nella camera scese un silenzio di tomba. Soltanto il frusciare del vento all’esterno lo spezzava.
    Tom mi guardava con gli occhi sgranati e increduli, le labbra modellate in una piega dura e impassibile. Non volevo cedere sotto quegli occhi, malgrado cominciassi già a vacillare. E, soprattutto, non volevo ritrovarmi disoccupata, quel lavoro mi serviva come il pane.
    Poi sentì qualcuno ululare e guardai verso i ragazzi: Georg rideva, battendomi le mani, e Gustav cercava di nascondere il suo ghigno dietro la mano. Bill mi sorrise senza scoprire i denti, stupito e soddisfatto.
    «Finalmente abbiamo trovato qualcuno in grado di riportarti con i piedi per terra, Tomi», disse, e io mi vergognai dal più profondo di me stessa.
    Caratteristica lampante di me: l’incoerenza delle mie reazioni. Quindi, a parte l’indiscutibile antipatia che provavo per lui, più che soddisfatta e vincitrice, mi sentii in colpa per averlo umiliato così davanti a tutti.
    Sospirai. «Facciamo che non è successo niente, ok?», cercai di rimediare.
    «Fanculo», mi rispose sprezzante, e uscì sbattendo la porta.
    Rimasi lì impietrita, a chiedermi quante preghiere conoscessi a memoria. «Cazzo», sussurrai, coprendomi gli occhi.
    Georg mi fu accanto dopo qualche secondo e mi diede due discrete pacche sulla spalla. «Non ti preoccupare troppo, Tom è così all’inizio».
    «Deve solo sapere con che persone ha a che fare, poi ritorna più o meno normale», mi rassicurò Gustav.
    «Gustav, Tom e la parola “normale” non possono stare nello stesso discorso, fanno a cazzotti. Basta vedere come si veste», osservò Bill arricciando il naso, in una smorfia così adorabile che mi strappò un sorriso.
    «Tu invece ti vesti sempre in modo così sobrio e composto», scherzai, ritornando al mio computer e sedendomi davanti.
    Bill sventolò una mano in modo altezzoso, con una vanità buffa molto diversa da quella del fratello. «No, ma mi vesto bene», affermò con convinzione.
    «Assecondiamolo, non possiamo farci niente», disse Georg strizzandomi l’occhio.
    «Quindi stamattina che si fa?», chiese Gustav.
    La mia risposta non tardò ad arrivare. Lo guardai serena e risposi: «si lavora, ovvio. La chitarra la suono io».
    Tutti sbuffarono, ma acconsentirono, e ci recammo nella buia sala di composizione e registrazione. Estrassi gli spartiti da un cassetto sotto la scrivania e li misi sul tavolo, imbracciando una delle chitarre classiche di Tom appoggiata lì.
    «Non male», commentai ammirandola in tutti i suoi dettagli.
    «Sì, Tom si tratta bene», disse Bill.
    Scossi la testa e sospirai. Aveva mostri di chitarre come quella, e nemmeno le sfruttava al massimo. Credeva di essere un mito della chitarra, da quanto avevo capito il giorno prima standoci insieme, ma in realtà era solo un dilettante con la bocca ancora sporca di latte.
    Decisi di non pensare più a Tom Kaulitz per il resto della giornata, non gli avrei permesso di rovinarmi l’umore.
    I ragazzi mi si sedettero intorno, mentre io controllavo che la chitarra fosse ben accordata con il mio apparecchio elettronico.
    «Allora, cominciamo?», chiesi agli altri.
    «Se mio fratello ti vedesse con una delle sue chitarre si arrabbierebbe molto, lo sai?», mi avvisò Bill, il cipiglio preoccupato.
    Inarcai un sopracciglio e risposi con durezza: «tuo fratello è l’ultima delle persone ad avere il diritto di arrabbiarsi».
    Non disse più nulla, e cominciammo a lavorare molto più serenamente di quanto avessi pensato, nella stessa atmosfera allegra e complice del giorno prima, senza il fattore di disturbo Tom. Verso mezzogiorno, Bill cominciò a dire di essere stanco.
    «Bill, non puoi fare uno sforzo? Abbiamo quasi finito», lo pregai, cercando di essere gentile.
    Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Sono preoccupato per Tom».
    «Elsa, lascialo andare, tanto scoccerà finché non otterrà ciò che vuole», intervenne Georg.
    Guardai gli spartiti con le ultime note segnate e sospirai. «Quando ti chiamo per adattare il testo, torna di filato qui».
    «Sì!», esclamò e saltellò fuori, chiudendosi la porta alle spalle.
    Fissai la porta masticandomi le guance: che tipo strano. Sembrava quasi…
    «Non è gay, se è questo che pensi», mi anticipò Gustav.
    Nascosi il mio viso dietro i capelli. «Non lo stavo pensando, infatti».
    «Tranquilla, lo pensano tutti all’inizio». Ghignò.
    Arrossii e abbassai gli occhi sulla chitarra.
    «Gli è andata pure bene, alcuni lo scambiano proprio per una ragazza», aggiunse Georg, ridendo con il suo compagno.
    Rimasi seria e non mi feci trascinare. «Ragazzi, per favore, non distraetevi».
    «D’accordo, capo».
    Bill ci raggiunse mezzora dopo, e lavorammo sulla stessa canzone fino alle cinque e mezza anche quel giorno. Al termine del mio turno, sentii che tutta la stanchezza e il nervosismo che avevo dimenticato mi piombarono addosso, schiacciandomi come un mattone. Mi ero dimenticata di essere così stanca e nervosa. Salutai i ragazzi, presi il soprabito e le mie cose, e uscii da quella villetta con una copia degli spartiti sia cartacea che digitale, per poterci lavorare meglio a casa. Il cielo cominciava ad imbrunire, e il vento diventava più forte, scompigliandomi i capelli. Percorsi il vialetto per raggiungere la mia macchina, i fogli sottobraccio. Camminavo ad occhi bassi, fissando le pietre del pavimento, quando vidi un paio di piedi entrare nel mio campo visivo.
    Sollevai lo sguardo, e Tom Kaulitz era davanti a me, sigaretta tra le dita. La luce dei lampioni in lontananza illuminava parzialmente il suo viso, impreziosendo i suoi lineamenti con ombre e un luccichio all’angolo destro della bocca. Si fermò anche lui.
    «Buonasera», dissi glaciale.
    «Buonasera», mi rispose nello stesso tono, e io pensai a quanto fosse bello, anche con quell’espressione da incazzato con il mondo. Fuggii dal suo sguardo rigido, era insostenibile essere fissata in quel modo. Presi la copia degli spartiti e gliela schiacciai bruscamente sul petto, ritirando poi le braccia. Lui prese i fogli e cercò di riconoscere i simboli che vedeva alla debole luce rimasta.
    «Sei in debito con me», sussurrai e me ne andai, le mani che mi tremavano ancora.

    Edited by Monique; - 2/10/2009, 18:34
     
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