Love for music;

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  1. Monique;
     
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    Titolo: è scritto di sotto ^^
    Autore: Monique;
    Genere: Romantico, malinconico, commedia.
    Raiting: G/PG.
    Avvisi: nessuno.
    Note: Gli eventi narrati in questo breve scritto non hanno scopi lucrativi e non sono mai accaduti.
    Precisato questo, penso sia doveroso scrivere qualcosa su questa storia, anche se non sono molto conosciuta nel fandom. Love for music è nata come un esperimento, all'inizio era solo una bozza imprecisata nella mia mente e volevo scriverla solo per il gusto di provare tecniche nuove, come la narrazione in prima persona. Man mano che questa storia si è evoluta, però, è diventata sempre più viva e impegnativa e mi ha tolto l'ispirazione quasi per qualsiasi altro scritto che ho in cantiere. Significa molto per me per il semplice fatto che dentro c'è molto, molto di me.
    Spero davvero che vi piacerà e vi appassionerà tanto quanto piace e appassiona me.
    Dopo questa premessa, buona lettura.


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    Credits to Fizzy. e grazie per questo magnifico blend.

    Lista dei Capitoli:
    Capitolo 1 - messaggio corrente
    Capitolo 2 - pagina corrente
    Capitolo 3 - pagina corrente
    Capitolo 4 - pagina corrente
    Capitolo 5 - pagina corrente
    Capitolo 6 - pagina 4
    Capitolo 7 - pagina 6
    Capitolo 8 - pagina 7
    Capitolo 9 - pagina 9
    Capitolo 10 - pagina 9
    Capitolo 11 Parte I - pagina 10
    Capitolo 11 Parte II - pagina 10
    Capitolo 12 - pagina 11
    Capitolo 13 - pagina 11
    Capitolo 14 - pagina 11
    Capitolo 15 - pagina 12


    Love for music



    Prologo



    Ho sempre pensato che ognuno abbia il proprio modo di esprimersi e che debba difenderlo con le unghie e con i denti, perché è una delle poche cose che un individuo possa vantare come personali, unicamente proprie.
    C’è chi usa le parole, il mezzo più ordinario, chi il look, chi il disegno, chi la cucina…
    Io avevo la musica.
    Pizzicare corde, premere i tasti di un pianoforte e sentire la melodia librarsi dallo strumento che suonavo mi faceva sentire piena, viva, consapevole dei miei sentimenti. Suonare mi aveva sempre aiutata a conoscerli, capirli, analizzarli. Se non sapevo riconoscerne il vortice confuso, bastava che mi avvicinassi ad un basso, ad una chitarra, ad un’arpa o una tastiera e cominciassi a suonare. La melodia si plasmava seguendo le forme delle mie percezioni, lenta e malinconica, oppure energica, o sferzante e dura.
    Era uno sfogo, un tuffo a capofitto in me stessa, quando chiudevo gli occhi e lasciavo che le mani si muovessero da sole.
    In alcuni momenti mi sentivo così in comunione con la musica da sentire di essermi confusa e mescolata ad essa. Io ero un insieme di note, così disarmonico e lineare insieme da confondere e stordire.
    Ma era la musica, e la musica era me. Era tutta la mia vita.

    Capitolo 1

    Era una giornata come tante. Solo una giornata come tante.
    Mentre mi vestivo, facendo particolare attenzione agli abbinamenti, continuavo a snocciolare quella frase fino a trasformarla in una nenia senza senso.
    Per la verità, non ero particolarmente euforica, né particolarmente allegra. Conservavo solo un vago sentore di felicità per il nuovo lavoro che ero riuscita ad ottenere (tramite raccomandazione, sia chiaro) e che avrei cominciato quel giorno, ma cercavo di reprimerlo con tutta me stessa. Non lasciarmi prendere troppo dagli eventi e dalle emozioni era un’abitudine per me, uno dei limiti che imponevo a me stessa.
    Mi scrutai allo specchio, cercando di studiarmi attentamente e di capire cosa fare per migliorare il mio aspetto. Nel complesso non ero male. Belle labbra, sottili e rosa, e lineamenti delicati e armonici. Le uniche pecche erano il colore innaturale della mia pelle, che mi faceva sembrare sempre malaticcia, e quello degli occhi: un bel castano vivace, poco usuale per una tedesca, ma comunque non degno di nota. Forse sui miei capelli potevo puntare di più. Erano di un biondo luminoso, e sciolti si allungavano in ciocche ondulate fin sotto i seni. Li sistemai e passai un velo di trucco sul viso, giusto per avere un colorito meno cadaverico.
    Benché normalmente non badassi troppo al mio aspetto esteriore, quel giorno vi feci più attenzione: non volevo presentarmi ai miei nuovi datori di lavoro bianca come un cencio.
    Terminato il restauro facciale, uscii di casa e m’infilai in macchina. Guidai per le strade di Amburgo fino a raggiungere l’indirizzo che mi aveva indicato l’uomo con cui avevo parlato al telefono. Era un posto isolato, perciò ci misi una buona mezzora a raggiungerlo.
    Visto da dietro il vetro appannato della mia C3, e sotto il cielo plumbeo di quella mattina, sembrava più una masseria isolata che un vero e proprio studio di registrazione. Sui muri di cotto rossiccio si arrampicavano edere verdeggianti, che mettevano radici in un prato inglese molto curato, intrecciandosi ai cespugli.
    Molto rustico.
    Non avrei mai immaginato uno studio di registrazione così. Piuttosto mi aspettavo un ambiente buio e pieno di stanze che trasudava tecnologie moderne, nascosto in un’anonima palazzina in periferia. Probabilmente, però, questi tizi avevano molta più fantasia di me.
    Uscii dall’auto stringendomi nel cappotto e nella sciarpa per ripararmi dal vento. Cercai di ricordare esattamente il nome dell’uomo con cui avevo parlato al telefono e che avrei incontrato di lì a qualche minuto.
    Un certo David… mi sfuggiva il cognome. Ricordavo solo che appena l’avevo appuntato sul block notes, insieme all’indirizzo e al numero di telefono, avevo pensato che era un cognome da stupido.
    Camminai fino all’entrata principale, approfittando per guardarmi un po’ intorno: non c’erano auto parcheggiate oltre la mia. Forse non c’era nessuno. Suonai comunque il campanello, in fondo avevo un appuntamento.
    Poco dopo mi aprì un uomo leggermente più basso di me, con il viso allungato, la mascella squadrata, e due occhi azzurri fin troppo vispi, coperti dai ciuffi ribelli dei suoi capelli neri.
    Mi squadrò un momento, diffidente, prima di aprir bocca. Tra le sopracciglia gli si formò una piccola ruga. «Lei è…?».
    «Elsa. Elsa Fränze», risposi meccanicamente. «Ha parlato con me al telefono ieri».
    «Ah, è qui per il posto di sound editor», disse. «Dev’essere la cugina di Erika. Io sono David Jost».
    Oh, ecco qual era il cognome da stupido che non riuscivo a ricordare.
    «Esatto». Sorrisi e gli porsi la mano.
    Lui l’afferrò. Aveva una stretta asciutta e decisa. «Prego, entri. Le faccio conoscere la band».
    Erika era la mia cugina di quinto grado. Era una giornalista affermata in Germania, e si era fatta parecchie conoscenze. L’avevo pregata, in nome della nostra parentela fittizia, di trovarmi un lavoro adatto alle mie conoscenze – mi ero diplomata al Conservatorio e avevo frequentato con successo corsi di formazione specifici – e mi aveva combinato un incontro con un famoso produttore di una band musicale, molto in voga in quel momento. Ovviamente non avevo la minima idea di chi fosse la band in questione, e non avevo nessuna aspettativa. Mi serviva un lavoro, non un idolo.
    «Perdoni la diffidenza iniziale, ma sa, le fan sono sempre pronte a rovinare le vite a tutti», spiegò mentre mi conduceva all’interno.
    Le stanze erano l’esatto opposto dell’esterno: luminose, ariose, arredate in modo moderno e sui toni del bianco e del marrone chiaro.
    «Le fan?», domandai perplessa, lasciandomi guidare.
    «Sì», confermò. «La band è estremamente famosa, ma non si fa vedere da un po’ di tempo in giro per concentrarsi di più sull’album nuovo. E le ragazze non si fanno scrupoli ad invadere la loro privacy».
    Il fatto che considerasse le masse di fan parlando solo al femminile la diceva molto lunga sul tipo di band che curava. Tuttavia non riuscivo a concepire come si potesse essere tanto insensibili. Anche i… musicisti – mi sforzai di chiamare tali quelli che probabilmente componevano solo motivetti orecchiabili – erano umani, no?
    «Capirà quando avrà passato un po’ di tempo con noi», disse, probabilmente notando la mia espressione perplessa. David mi portò davanti ad una porta bianca e l’aprì, cedendomi il passo.
    Entrai per prima nella stanza buia, contigua ad un’altra camera che si poteva vedere tramite l’enorme vetro che copriva metà della parete di fronte a me.
    Sorvolai sulle meravigliose apparecchiature e sui monitor accesi unicamente perché vidi quattro ragazzi dall’altra parte del vetro.
    Erano tutti tanto, tanto diversi.
    Il primo su cui posai lo sguardo fu il batterista, che batteva sui suoi piatti con poca intensità, ma con uno sguardo concentrato. I lineamenti appena paffuti e i capelli biondi e corti gli davano un non so che di tenero e rassicurante. Mi fu subito simpatico.
    Poco più a sinistra, seduto su uno sgabello, c’era un altro ragazzo dai capelli lunghi e castani che scivolavano lisci su una parte del viso. Pizzicava con le corde del suo basso con sicurezza e maestria. Anche sotto la maglia a maniche lunghe che indossava, potevo individuare un paio di bicipiti piuttosto floridi. Senza volerlo, sulle mie labbra spuntò un sorriso: quel ragazzo era una vera gioia per gli occhi.
    Al centro, invece, c’era una pertica oscura, che sembrava appena poggiata allo sgabello. Il viso era così gentile da poter essere tranquillamente scambiato per quello di una ragazza, ma dai fianchi stretti e dalla totale assenza di petto capivo che si trattava di un ragazzo. Mormorava quasi, gli occhi chiusi, le mani sulle cuffie. I suoi modi di muoversi, di sfiorare con le labbra il reticolo del microfono, di increspare le sopracciglia mentre cantava lo rendevano magnetico, ed era difficile non concentrare l’attenzione su di lui per tanto tempo.
    Accanto, il chitarrista suonava ad occhi chiusi. Indossava vestiti di grossa taglia e una bandana nera che raccoglieva i rasta biondi che gli toccavano appena le spalle. Un cerchietto metallico gli perforava il labbro inferiore. Come il cantante, era concentratissimo.
    Erano tutti e quattro molto gradevoli agli occhi, ma solo del chitarrista pensai, istintivamente, che era bellissimo.
    Vidi David avvicinarsi alle apparecchiature e premere un pulsante rosso. Poi avvicinò la bocca al microfono: «ragazzi, venite fuori», mormorò. I quattro s’interruppero e mi lanciarono occhiate perplesse. Vennero fuori e mi si piazzarono di fronte, guardandomi con aria perplessa.
    Perché mi guardavano così? Avevo i capelli fuori posto? Il trucco sbavato? La cerniera dei pantaloni aperta? Cosa?!
    Decisi di rompere il ghiaccio per prima, ma David fu più svelto. «Lei è Elsa Fränze, la nostra nuova tecnica del suono», mi presentò.
    «Piacere Elsa, io sono Bill». Il ragazzo più alto, il cantante con i capelli neri si presentò con un largo sorriso. Mi porse la mano elegante e inanellata, inclinandola leggermente in avanti. La sua stretta calda ed equilibrata mi mise subito a mio agio.
    «Io sono Tom, piacere», disse il ragazzo con i dreadlocks, porgendomi subito la mano nerboruta. La strinsi, osservando attentamente la sua espressione: meno esuberante del cantante, ma anche più riservata e sicura di sé. Sfoderò un sorriso piuttosto ambiguo, che mi fece increspare le sopraglia. Risposi al suo sorriso.
    Mi sembrò di afferrare una somiglianza tra i ragazzi, specie nel profilo dritto del naso e nella forma degli occhi, ma non ne fui sicura.
    «Ehi Tom, spostati!». Il ragazzo con i capelli castani e lunghi gli diede di gomito, stirando le labbra da un lato. Poi tornò a guardare me. Benché la stanza fosse illuminata solo dalla luce giallognola della piantana, notai due bellissimi occhi verdi. «Scusalo, quando c’è una bella ragazza in giro diventa esibizionista. Io sono Georg». Strinsi anche la sua mano e risi alla battuta.
    «Non è vero, qui l’esibizionista è solo Bill», s’intromise il ragazzo dal volto roseo e vispo. Il cantante protestò contrariato, ma nessuno ci fece caso. Sembravano abituati. «Io sono Gustav, l’unica mente sana in questo gruppetto di pazzi». Mi fece l’occhiolino e ci stringemmo la mano.
    «Bene», il manager batté le mani una volta, «avrai capito con che personaggi avrai a che fare, e immagino che li conoscerai meglio in futuro. Ci vediamo domani», mi liquidò. Dalla sua espressione e dal tono di voce capivo che voleva liquidarmi in fretta. L’ipotesi che fosse uno scemo mi convinse definitivamente.
    «A che ora posso venire?», chiesi un po’ acida.
    Fece una smorfia che voleva sembrare pensierosa, ma forse era solo fastidio. «Puoi venire alle nove», rispose.
    Salutai i ragazzi e mi feci accompagnare all’uscita. Speravo solo che andasse tutto bene.

    Parcheggiai nella mia via con le idee piuttosto confuse riguardo quello che mi era accaduto.
    Ero stata certa di cominciare a lavorare quel giorno stesso, di rendermi utile da subito, invece mi avevano rispedita a casa come un pacco indesiderato, recapitato all’indirizzo sbagliato.
    Dalla confusione passai rapidamente al nervoso, e dal nervoso all’arrabbiatura. Il tutto, ovviamente, nell’arco di tempo in cui aprii il portone e cercai di far partire quel ferro vecchio che si faceva passare per ascensore.
    Che avrei fatto per tutto il giorno?
    Entrai nel mio piccolo salottino sbuffando. Per capire come occupare la giornata, diedi un’occhiata in giro: non c’erano briciole sul divanetto alla mia destra, e i cuscini erano in ordine. Il tappeto era a posto, le cornici sulla televisione spolverate e visibili. Inoltre avevo sistemato le stanze e il bagno il giorno prima. Che stizza, era tutto in ordine, non avevo nemmeno distrazioni.
    Gettai le chiavi sul piccolo mobiletto, accanto al telefono. Qualche minuto dopo, con un cucchiaio di gelato al cioccolato in bocca, mi buttai sul divano e accesi il televisore: avrei visto il primo film che fosse capitato a tiro.
    «Che ci fai qui?».
    Feci sfrecciare lo sguardo in direzione della porta del corridoio, da dove proveniva quella voce assonnata che conoscevo bene. Il mio coinquilino, che indossava solo un paio di slip con motivi a cuoricini, mi guardava stropicciandosi gli occhi.
    «Didi!», esclamai, segretamente riempita dalla felicità. «Non dovresti essere al negozio?». Alla televisione, una puntata di Baywatch stava cominciando.
    «Ho chiesto a Ferdinand una mattinata di permesso», rispose. «Stamattina alzarsi era fuori discussione». Le parole gli vennero fuori come poltiglia.
    Scossi la testa, tornando al gran figo che correva a petto nudo sulla spiaggia. «Quando la smetterai di lavorare in quel locale?», domandai distrattamente.
    «Quando troverò una discoteca ugualmente famosa disposta ad assumermi», rispose sventolando una mano con aria altezzosa. Affondò sul divano accanto a me, e poggiai le gambe sulle sue. Iniziò a guardare la televisione senza interesse.
    Malgrado non lo rimproverassi spesso di stressarsi troppo con i suoi due lavori - era barman in una grande discoteca di Amburgo la notte e commesso in un negozio d’abbigliamento femminile di giorno – quella mattina ero davvero sollevata all’idea di averlo con me.
    Didi non era il suo vero nome, in realtà. Aveva avuto la sfiga di due genitori bigotti e all’antica, che gli avevano affibbiato un nome come Diedrich, perciò si faceva chiamare Didi quasi da tutti. Altra caratteristica che saltava agli occhi di chiunque: la sua totale, irrimediabile, innegabile omosessualità. Lo si poteva capire, oltre che dagli atteggiamenti petulanti e dalle movenze aggraziate, anche dai boxer decorati dalle fantasie più assurde, che puntualmente spuntavano dai suoi pantaloni di pelle, sempre troppo bassi. Gli ultimi che avevo visto avevano un motivo tigrato sul di dietro, con qualche schizzo verde qua e là, e sulla parte anteriore c’era disegnato Tarzan in una posa alquanto compromettente. Ero rabbrividita e avevo distolto lo sguardo, quando ci avevo posato gli occhi la prima volta.
    Nonostante ciò, era il mio migliore amico da sempre. Ci eravamo conosciuti al liceo quando avevamo quattordici anni, frequentavamo la stessa classe. Ed eravamo sempre stati inseparabili. Finita la scuola, prendemmo casa insieme. Ed eravamo ancora lì.
    «Che ti prende?», mi chiese tranquillo.
    Giusto. Avevo dimenticato che era anche un ottimo osservatore.
    «Niente». Feci spallucce e continuai a guardare lo schermo.
    Si sporse verso di me con tanto di sorriso angelico e ciglia sfarfallanti su due occhi limpidi e turchini. «Tanto non ci credo».
    Mi strappò un sorriso. «Mi scoccia che passerò una giornata a casa. Niente di particolare». Feci di nuovo spallucce.
    Si drizzò sul divano così veloce che mi fece sobbalzare, e si aprì in un sorrisetto machiavellico che mi spaventò.
    «Bene», concluse. «Allora stasera andiamo a divertirci».
    E fu lì che cominciai a tremare.
    Mi costrinse ad infilarmi in un vestitino sintetico a tinta unita, che mi avrebbe sicuramente fatta morire di freddo. Le paillette dorate riflettevano la luce ogni volta che mi muovevo, e uno scollo a barca mi lasciava scoperto il petto. Scendeva leggero e vaporoso sul seno e si stringeva all’altezza dei fianchi, arricciato da un sottile laccetto, terminando in una gonna a pieghe che s’impigliava fra le gambe.
    «Ma fa freddo!», protestai davanti allo specchio.
    «Metterai i collant più pesanti», replicò Didi dietro di me.
    «Ma è troppo corto!», fui costretta ad ammettere, lagnandomi come una bambina.
    Didi osservò attentamente il mio riflesso nello specchio, poi perlustrò anche la mia parte posteriore con perizia. «Credimi, farà la gioia di molte persone», sussurrò. «Adesso sbrigati».
    Continuai a guardare il mio riflesso nello specchio, imbronciata. Non era da me vestirmi in modo così appariscente, non ero mai stata una fanatica dell’attenzione.
    «Elsa!».
    Di malavoglia, e facendo attenzione a non rompermi le caviglie mentre camminavo sui tacchi alti, lo seguii fino in macchina.
    «Dove si va, autista?», chiesi, ammirando il suo petto armonico e la muscolatura appena evidente sotto la maglia verde che si era messo. Certe volte rimpiangevo che fosse gay.
    «Dove non si paga, ovvio. E non guardarmi così».
    Sbuffai, ignorando il suo ultimo commento. Mi avrebbe portata dove lavorava e poi mi avrebbe imbucata senza problemi. «Ovvio».
    Quella sera mi divertii sul serio e non pensai a niente. La musica mi riempì la testa e le orecchie, aiutata dall’alcool che mi scolai senza problemi. Mi presi una bella sbronza. Di certo il giorno dopo sarei stata uno straccio, ma che me ne importava in quel momento?

    Dopo un post sbornia traumatico e difficile, il giorno dopo ero alla villa all’orario prestabilito. Lo specchietto retrovisore mi rimandava l’immagine sbattuta di una ragazza più bianca di un cencio, con due occhiaie paurose sotto gli occhi. I capelli biondi che di solito riuscivano a ravvivare il colorito, contribuivano a farmi sembrare appena uscita da un campo di lavori forzati.
    Mi rifiutai di guardarmi oltre, facevo troppa paura. Non osai immaginare che impressione avrei fatto agli altri. Scesi dall’auto e la chiusi.
    Il cielo era ancora grigio e freddo. Tirava più vento del giorno precedente. Di nuovo, non c’era alcuna auto oltre la mia. Tutto sembrava uguale al giorno prima, immerso in una calma immobile e desolante. Se non avessi avuto chiari i ricordi della mia presenza lì, probabilmente avrei dubitato di esserci veramente stata.
    Suonai. E non aprì nessuno. Continuai a premere l’indice sul campanello, innervosendomi di più ogni secondo che passava.
    Era inconcepibile che dopo una notte insonne e circa quattro ore passate a vomitare non si presentasse nessuno all’appuntamento!
    Mentre mi accanivo contro il campanello, brontolando, finalmente la porta davanti a me si aprì. Una donna dall’aria stanca e consumata, probabilmente straniera, mi guardò circospetta.
    Ma perché tutti quanti mi guardavano come se fossi un avanzo di galera?
    Mascherando il mio malumore, mi sforzai di assumere un’aria professionale. «Buongiorno, sono una dipendente di Jost, ho un appuntamento alle nove».
    La donna davanti a me, la donna delle pulizie a giudicare dai guanti di lattice e la scopa, scoppiò a ridere. «Sì, lo sono tutte. Ora, signorina, mi dispiace che abbia fatto tanti sforzi per venire qua, ma prima di passare i guai, se ne vada». Fece per chiudermi la porta in faccia.
    Indignata, la bloccai con una mano. «Non ho nessuna intenzione di muovermi da qui, io devo lavorare!» protestai, e le mostrai la stampa del cartellino di riconoscimento che Jost mi aveva mandato per posta elettronica.
    La donna confrontò la fotografia della ragazza con il relitto umano che ero, poi mi fece passare, fingendosi addolorata. Entrai e camminai sicura verso la stanza che avevo visto il giorno prima, quella degli strumenti.
    «Scusi tanto, ma lei è così giovane, e ogni giorno ragazze di tutte le età si appostano…».
    «Lo so, lo so», tagliai corto. Ero troppo irritata per ascoltare qualcuno parlare. Avevo l’umore di un primo giorno di ciclo, sarei stata fastidiosa ed antipatica per tutto il tempo, e mi sarei incazzata con il primo malcapitato che non avesse seguito le mie istruzioni. Lo sapevo, perché mi conoscevo.
    «Beh?», esalai sconcertata, quando la donna mi accompagnò nella stanza buia del giorno prima. Era vuota.
    Mi rispose con un’alzata di spalle. «Il signor David stamattina mi ha telefonato per chiedermi di avvisarla, di cominciare a lavorare anche senza di lui e i ragazzi».
    Ero allibita. Con cosa avrei dovuto lavorare se non avevo il materiale e le password che sbloccavano i computer?
    «Quando arrivano?», chiesi, sforzandomi di mantenere la calma.
    «Di solito prima delle undici non si comincia. I ragazzi dicono che hanno bisogno di “scaldarsi”, ma è solo una scusa per non fare niente. Scusi, vado a finire». E si defilò.
    Rimasi da sola nella stanza silenziosa. Mi lasciai cadere sul divanetto bianco.
    Assurdo.
    Quel pagliaccio impomatato aveva creduto che solo perché avevo ventiquattro anni poteva trattarmi a suo piacimento? Bene, gli avrei fatto cambiare idea, a momento debito.
    Per passare il tempo azionai le apparecchiature e provai ad accendere i computer. Niente, come prevedevo, erano bloccati. Cambiai tattica e mi diressi alle librerie. Passai al setaccio gli archivi, sfogliai vecchi album fotografici che mi fecero scoprire e rivivere molti momenti della vita di quei ragazzi di cui non sapevo nulla, e trovai anche un raccoglitore che conteneva i libretti di istruzioni e le garanzie delle apparecchiature e degli strumenti musicali che avevano acquistato. Le due ore passarono lentamente, e questo contribuì ad aumentare il mio malumore. Quando sentii un vociare avvicinarsi, mi diressi a passo di carica verso l’entrata. Il quartetto delle meraviglie, il loro splendido produttore e una donna bionda erano appena entrati. Mi fissavano tutti, probabilmente chiedendosi cosa ci facesse lì una ragazza imbufalita, dall’aspetto di una scoppiata. Il produttore mi guardava tranquillo, a dispetto delle facce sorprese degli altri. E mi sentii ancora più presa in giro.
    «Ma come si è permesso?», cominciai, sputando le parole velocemente. Il tono basso che usai, a confronto di come mi sentivo, era fin troppo pacifico e rispettoso.
    Succedeva sempre così, non riuscivo mai ad infuriarmi come si doveva.
    «Scusi?». Sbatté le ciglia.
    «Sono qui a ciondolare dalle nove, non mi ha dato nemmeno uno straccio di materiale su cui lavorare, e il riscaldamento era spento. Con chi crede di avere a che fare?», sbottai, l’irritazione che traspariva dalla voce.
    Non sembrò minimamente scalfito dalla mia sfuriata. Dio, che tipo odioso.
    «Allora dovrebbe essere contenta, le pagherò due ore di ciondolamenti», rispose tranquillo.
    «Perché mi ha fatto venire? Sapeva che non avrei potuto fare niente».
    Alzò le spalle e si tolse il giubbotto. Vedendolo agire con tanta disinvoltura, anche la brigata dietro di lui cominciò a fare come se non esistessi nemmeno. Mi ignoravano.
    «Perché le persone poco capaci si stancano subito, si sentono prese in giro, e per orgoglio se ne vanno. Qui si lavora duro e bisogna avere un bel paio di palle se si vuole sopravvivere. Prego, si sieda pure».
    Rimasi un attimo spiazzata, incapace di trovare qualcosa con cui controbattere. Mi limitai a fare come aveva detto, a sedermi sul divano accanto ai ragazzi che facevano colazione con qualcosa che non vedevo.
    Fecero come se non ci fossi. Fu il ragazzo moro della combriccola ad accorgersi di me. Mi rassicurò con un sorriso e mi si sedette accanto, offrendomi un croissant. Rifiutai, rigida. Le persone che invadevano troppo il mio spazio senza il mio permesso m’irritavano, e quel giorno mi diede fastidio il doppio.
    «David è un po’ strano», cominciò, le labbra sporche di zucchero a velo, «ma è un tipo a posto». Sorrise di nuovo e si pulì con la mano.
    Cercai di ricambiare il suo sorriso. Non ci riuscii bene, e non cercai nemmeno di nasconderlo. Poi i ragazzi cercarono di coinvolgermi nella conversazione, come se fossi apparsa proprio allora.
    Il tipo con i capelli lunghi – non riuscivo ad associare i nomi che non ricordavo alle persone – si rivolse a me: «Dunque ehm…».
    «Elsa».
    «Sì, stavo per dire quello. Quanti anni hai?».
    «Ventiquattro».
    «E da dove vieni?», chiese il biondino. Non era realmente interessato, glielo leggevo in faccia, me lo chiedeva solo per educazione.
    «Ho sempre vissuto ad Amburgo», fu la mia risposta telegrafica. Non mi importava assolutamente niente di sembrare una maleducata asociale.
    «Come mai sei qui?», continuò il ragazzo, sperando che la domanda mi spillasse qualche parola in più.
    Quindi il mio lavoro consisteva nella conversazione?
    Alzai le spalle, ma prima che potessi rispondere, il ragazzo con i rasta mi precedette: «Ma ha le palle girate, la volete lasciare in pace?», disse tranquillo, leccando la marmellata dal suo croissant.
    Mi accigliai, ma una parte di me, quella pacifica, sepolta sotto i numerosi strati di irritazione e stanchezza, apprezzò infinitamente: erano le esatte parole che avrei detto io.
    «Tom, sei il solito orso». Il ragazzo accanto a me scosse la testa. Quindi era lui Tom.
    «E voi i soliti impiccioni», replicò Tom.
    Malgrado tutto, mi sfuggì un sorriso divertito. I modi di fare di quel tipo, forse un po’ rudi, mi piacevano.
    Restai a guardarli pungolarsi e finire di fare colazione per un altro quarto d’ora, finché David decise che era ora di lavorare. Ci spostammo nella sala registrazione, dove mi fornì le password dei computer. Mi sedetti alla mia postazione e accesi anche il portatile che mi ero portata dietro, provvisto di una scheda audio professionale.
    «Allora, da dove cominciamo?», chiesi.
    Tutto ciò che sapevo era che erano vicinissimi alla pubblicazione del loro quarto album, di cui non avevo ascoltato nessun pezzo, e che il loro precedente tecnico del suono si era licenziato.
    I ragazzi boccheggiarono.
    «Dove sono i pezzi?», chiesi più cauta, di nuovo sulla difensiva.
    Il ragazzo più alto, che stava sempre al centro del gruppo, prese la parola. «Ehm… veramente, non abbiamo vere e proprie canzoni pronte… sono più che altro…».
    «Arrangiamenti», soggiunse Tom.
    Mi misi una mano sulla fronte, stancamente. David lasciò la stanza.
    Calma, calma.
    «Mi state dicendo che… non avete niente di pronto?». Mi sforzai di non perdere il controllo.
    «No, siamo stati molto impegnati, e non abbiamo avuto tempo di lavorarci seriamente», mi rispose la voce profonda del ragazzo con i capelli lunghi.
    «Assurdo», borbottai. Riflettei per qualche minuto, poi presi la situazione in mano. «Dunque. Prendete gli strumenti che si possono spostare, e andiamo da qualche parte dove possiamo sederci e dove c’è un tavolo. Il cantante, o chiunque componga i testi, prenda carta e penna».
    «Sono io». Il moro alto si fece avanti. «Perché dobbiamo fare tutto questo?»
    «Beh, dobbiamo tirarle fuori queste canzoni, no? E prima voglio sentire cosa avete di pronto».
    «Fai anche la produttrice?»
    «Se serve, sì», risposi. Il mio lavoro richiedeva versatilità, e tanta esperienza sul campo, altrimenti non si arrivava da nessuna parte. Sapevo suonare tutti gli strumenti, conoscevo le tecniche di registrazione e i sistemi tecnologici digitali, e sapevo anche arrangiare bene. Insomma, ero una figura di mezzo tra un semplice arrangiatore e un informatico, ed avevo una buona conoscenza della musica, uscendo da un Conservatorio.
    Nelle sei ore successive, scoprii che gli arrangiamenti di cui parlavano i Tokio Hotel non erano che una manciata di note messe lì quasi per caso, che il bassista si chiamava Georg, il cantante Bill e il batterista Gustav.
    Malgrado tutto l’atmosfera che si respirava nel gruppo era piacevole e mi distese, invece che annerire il mio umore. Lavorammo fino alle cinque e mezza passate, concentrandoci sulle basi musicali, poi Bill – che avevo capito era il piagnucolone del gruppo – annunciò di essere troppo stanco per continuare a lavorare. A lui si accodò Georg, e anche Gustav.
    «Se siete stanchi…», concessi controvoglia. Io avrei continuato a lavorare, il clima di collaborazione che si instaurava fra loro era troppo piacevole. Però sbattei le palpebre e mi dimenticai di riaprire gli occhi.
    «Forse anche tu dovresti andare», mi disse Bill, di nuovo con quel sorriso sereno.
    Rilassata dalla stanchezza che improvvisamente aveva preso a spingere sulle palpebre, mi concessi anch’io un sorriso stanco. «Sì, forse… è meglio…», farfugliai, nascondendo uno sbadiglio con la mano. Era troppo presto per avere sonno. Ma il cielo che era diventato già buio e mi invogliava a dormire.
    «Mi sembri troppo stanca per guidare, se vuoi ti accompagniamo noi», propose ancora Bill.
    «Sì, è una buona idea», disse Georg.
    «No, sto bene». Non mi andava di concedere loro troppa confidenza.
    Bill insistette. «Ma ti si chiudono gli occhi! E quelle occhiaie di sicuro non sono i segni del cuscino!».
    «Non è lontano» ribattei. Mi alzai, raccolsi le mie cose e infilai in borsa il mio portatile. «E’ stato un piacere lavorare con voi, ragazzi. Ci vediamo domani».
    Georg, Gustav e Bill mi salutarono con un sorriso e un «ciao Elsa» piuttosto affettuoso. Tom invece si limitò a salutarmi con la mano, e, non sapevo perché, la cosa mi infastidì. Uscì dall’edificio, riparandomi con il giubbotto dal vento di gennaio e continuando a crogiolarmi nelle mie riflessioni. Non che non fossi abituata ad essere ignorata, ma di solito ero io la persona distaccata, che si faceva attendere. Forse era proprio questo il problema, il capovolgimento di ruoli.
    «Smettila subito», mi ordinai. Misi un bel freno alla mia mente. Sapevo dove mi avrebbe portata quel genere di pensieri, e non volevo assolutamente concedermeli. Tom mi aveva solo salutato con la mano, era solo stato distaccato e professionale per tutto il giorno, come era giusto che fosse. Non c’era alcun problema.

    Edited by ;tokiaholic - 28/11/2011, 18:30
     
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